Giornata della memoria: il pugile sinti che sfidò Hitler
I grandi uomini non muoiono mai. Nemmeno quando la Storia sembra averli inghiottiti. All’improvviso, senza una ragione apparente, le loro storie ritornano a galla, come messaggi in bottiglia. È quanto è avvenuto a Johann Trollmann, uno dei pugili più geniali degli anni ’30 in Germania, uno zingaro di etnia sinti che è diventato campione dei mediomassimi al culmine dell’ascesa di Hitler.
Ricostruire la vicenda di Johann Trollmann, che la sua gente chiamava «Rukeli» cioè «albero», è complicato. Si fatica a distinguere la realtà dal mito. La memoria tra i sinti si tramanda oralmente e, come succede tra i cantastorie di ogni epoca, viene arricchita e plasmata negli anni. Di sicuro si sa che Johann nasce nel 1907. Cresce con i suoi otto fratelli e sorelle in un campo nei pressi del centro di Hannover, capitale della Bassa Sassonia. A 8 anni è già sul ring. Gli allenatori capiscono subito che si tratta di un fenomeno. Ha un modo di boxare agile, leggero, elegante. Ruota intorno all’avversario, schivando i colpi come in una danza. Poi coglie l’angolo scoperto, sferra un colpo repentino, quasi invisibile e per l’avversario non c’è scampo. Bisognerà aspettare Muhammad Ali, quarant’anni dopo, per vedere una boxe della stessa levatura.
Una carriera folgorante
Johann approda al professionismo grazie al manager Ernest Zirzow, che lo porta a Berlino nel 1929. Sono anni d’oro per il pugilato, sport molto popolare nella Repubblica di Weimar. E Rukeli ha tutti i vantaggi dalla sua: non solo è bravo – nel 1930 inanella tredici vittorie una dietro l’altra – ma è bello come un divo di Hollywood. Le donne lo adorano, gli uomini lo ammirano. Nel ’32 ormai gareggia solo con i migliori. La folla lo acclama al grido di «Gipsy»: nessuno ha mai visto una boxe così.
Eppure, proprio il suo stile di pugilato diventa presto la pietra dello scandalo. Già nel ’28 ha una prima avvisaglia: la federazione lo esclude dai giochi olimpici di Amsterdam, preferendogli un pugile che Rukeli – allora già campione della Germania del Nord – aveva sconfitto più volte. Il clima della nazione è sempre più pesante. La Repubblica di Weimar scricchiola sotto i colpi della crisi economica, della disoccupazione, dell’inefficacia della politica. Il nazismo sembra la nuova via, e il Mein Kampf, il saggio politico ideologico di Hitler, è letto come la Bibbia. Quella macchia nera si allarga fino ai ring. Giovani vestiti con camicie scure scrutano con sguardi di disapprovazione il «pugile ballerino», lo sbeffeggiano. Nel Mein Kampf il futuro Führer descrive il pugilato come lo sport ariano per eccellenza: «Nessun altro sport desta un così grande spirito d’assalto». Quel pugile che balla «come una femmina» è un oltraggio.
Nel gennaio del 1933 Hitler diventa cancelliere del Reich, un mese dopo, un attentato al Parlamento tedesco sancisce l’inizio della dittatura. In pochi mesi s’inasprisce la persecuzione contro gli ebrei. Anche le società sportive vengono epurate. Il pugile campione dei mediomassimi Erich Seeling, ebreo, fugge in Francia. Il titolo rimane scoperto. A contenderselo Adolf Witt, il prototipo del pugile ariano e Johann Trollmann, il pugile sinti. È la possibilità attesa da una vita, ma è anche lo scontro tra due visioni del mondo e del pugilato. Una libertà che nessuno può più permettersi. Ma Rukeli non molla, è al colmo del successo.
Campione di Germania
È il 9 giugno del 1933. Per la finale, la Bockbrauerei di Berlino straripa di gente. L’attesa è alle stelle. Sugli spalti c’è anche Georg Radamm, presidente della nuova federazione di pugilato tedesca, la Deutscher Faustkampfe. La superiorità di Rukeli è evidente. Radamm è nervoso. Interviene presso gli arbitri. Fa assegnare un pareggio. Ma gli spettatori, profondi conoscitori di boxe non ci stanno. Fischiano, protestano. L’onda nera non ha ancora contaminato lo spirito sportivo. Si arriva quasi alla sommossa. Il giudice assegna a Trollmann la vittoria. Rukeli, lo zingaro, è campione dei mediomassimi di Germania in pieno regime nazista.
Ha vinto. È incredibile persino per lui stesso. L’emozione diventa pianto, sotto gli sguardi di riprovazione delle camicie nere. Ma è una vittoria che segna l’inizio della fine. Una settimana dopo, la Federazione recapita una lettera avvertendo che il titolo non è valido, perché i pugili non hanno dato prestazioni all’altezza. Da allora in poi la vita di Rukeli assume una specie di ritmo binario: lui si ostina a seguire la sua strada, il regime controbatte duramente. Ogni gancio di Rukeli alla sorte diventa un colpo basso, sempre più difficile da incassare.
Il regime sembra dargli un’altra chance: combatterà contro il potente Gustav Eder, ma dovrà seguire le regole della Deutscher Faustkampfe, non più balletti ma combattimenti statici e virili al centro del ring. È una trappola. Ma a questo punto forse la storia diventa leggenda. È il 21 luglio del 1933. Trollmann si fa attendere sul ring della Bockbrauerei. Poi arriva con i capelli tinti di biondo e il corpo cosparso di farina. La maschera tragica del pugile ariano. È il suo gancio disperato contro il regime. Sta fermo al centro del ring. Si difende come può. Eder lo massacra. La sua carriera è finita. Da ora in poi si guadagnerà da vivere negli incontri di boxe clandestini alle fiere o nei luna park.
Nell’inferno del lager
Ma ha un altro gancio in serbo contro la sorte. Nel 1935, proprio nell’anno in cui vengono promulgate le leggi di Norimberga contro gli ebrei – che vietano, tra l’altro, i matrimoni misti – Johann sposa la sua Olga Frieda Bilda, una tedesca, e da lei ha una figlia, Teresa. Il contraccolpo però è pesante: l’inasprirsi delle leggi razziali anche contro gli zingari lo obbliga, nel 1938, a divorziare per salvare le sue donne. Più tardi è addirittura costretto a farsi sterilizzare per ottemperare al programma di annientamento della razza zingara, nella speranza di evitare il campo di concentramento. La discesa agli inferi è segnata ed è sempre più veloce. Nel 1939 viene arruolato nella Wehrmacht, l’esercito tedesco. Nel ’41 viene addirittura ferito sul fronte orientale. Nel ’42 un decreto esclude rom e sinti dalla Wehrmacht per ragioni razziali. Il colpo è tremendo: da servitore dello Stato a sottorazza da eliminare. E adesso?
Cerca di nascondersi, Rukeli, come può. Ma presto viene arrestato e deportato nel campo di concentramento di Neuengamme, vicino ad Amburgo. Da ora in poi è solo un numero: il 9841. Un SS ex arbitro di pugilato lo riconosce e, dopo i lavori forzati, lo costringe a battersi con le guardie. È debole e sfinito, ma è pur sempre un simbolo di dignità e di speranza. Merce rara in un lager. Per salvarlo un comitato illegale di detenuti riesce a fargli assumere l’identità di un deceduto e a trasferirlo nel sottocampo di Wittemberge. Ma anche qui ciò che un tempo è stato il suo orgoglio, il pugilato, diventa la sua condanna. Emil Cornelius, un kapò famoso per la sua crudeltà, lo riconosce e lo sfida a pugilato. Rukeli mette i guantoni per l’ultima volta. È sfinito, ma colpisce Cornelius con tutto se stesso. Il kapò stramazza a terra: ha perso contro una larva di uomo. Un’onta da lavare col sangue. Il contraccolpo al suo ultimo gancio è per Rukeli il knock out finale. Durante i lavori forzati, Cornelius lo porta in un angolo defilato e lo uccide a badilate. Non si sa il giorno, ma l’anno è il 1944. Forse avrebbe potuto salvarsi. Bastava perdere. O forse è stato questo il suo unico modo per vincere.
Negli anni ’80 si ricomincia a parlare di lui. È Hans Firzlaff a raccogliere la sua storia in un libro.
Solo nel 2003 la Federazione di pugilato tedesca gli restituisce ufficialmente il titolo di campione dei mediomassimi. Sono passati 70 anni.