Ho vissuto lo tsunami e ho chiesto a Dio perché.

Trentasette anni di dura missione in Indonesia, Paese musulmano, con frange integraliste. E ora lo tsunami. Storia di un francescano che a 70 anni comincia daccapo.
01 Febbraio 2005 | di

Lo tsunami, la grande onda anomala scagliata dai maremoti, padre Ferdinando Severi, la conosceva
solo dai libri. In trentasette anni di missione in Indonesia ha messo in conto tante prove, mai quella
d'assistere impotente allo scempio di vite, alla morte e alla di-sgrazia dei figli suoi. Come
sant'Antonio, padre Severi aveva lasciato la patria per vivere e operare in un grande Paese
musulmano, con una forte tradizione fondamentalista. Sarebbe stato un frate cristiano con un
piccolo «gregge» di fedeli e una folla di fratelli musulmani. Si domandava se sarebbe riuscito ad
amarli senza distinzione, a far sentire loro la carezza di Dio padre senza nulla volere in cambio.
Accettava così la sfida di essere chiesa di minoranza, senza grandi mezzi e senza potere, e di
reinventare il suo ruolo di missionario.


Un uomo dal ricco passato

Da tredici anni è parroco del «Sacro Cuore» a Banda Aceh, capoluogo della regione dell'Aceh, a
nord dell'isola di Sumatra. Ma quel 26 dicembre, era a Meulaboh, cittadina sulla costa occidentale,
dove era andato a celebrare la messa di Natale il giorno prima. Un punto sulla carta geografica,
giusto di fronte all'epicentro. Per quattro giorni non si seppe più nulla di lui.
Il 5 gennaio, lo cerchiamo al telefono. Le linee sono interrotte. I frati della provincia di Bologna, a
cui padre Ferdinando appartiene, ci danno un contatto: il cellulare di suor Valentina, la francescana
che lavora con lui. Ma dovremo aspettare la sera. Ne approfittiamo per parlare con padre John Paul,
indonesiano, ora al convento di Bologna, frate proprio grazie all'esempio di padre Ferdinando. È lui
a raccontarci la storia di missione del suo «padre spirituale»; prima, la fondazione di tre parrocchie,
di pari passo, le tante opere sociali in varie località  nell'isola di Sumatra: l'orfanotrofio, le scuole, 
la clinica e il villaggio per i lebbrosi. Spesso con il sostegno dei lettori del «Messaggero», attraverso
la Caritas antoniana. E poi, dal 1989, i cinque anni a Jakarta, la capitale, come viceparroco in una
poverissima parrocchia di periferia: «Lavorava in continuazione per costruire semplici alloggi di
legno alle famiglie, procurare il cibo o i soldi per mandare i bambini a scuola».
La parrocchia di Banda Aceh è l'ultima sfida. «Non ci voleva andare nessuno `€“ testimonia padre
John Paul `€“ e ci è andato lui. Da solo». Non è un impegno da poco. Dal 1976 l'intera regione
dell'Aceh si ribella al governo di Jakarta per ottenere l'indipendenza e diventare uno Stato islamico.
Da trent'anni vi si combatte una guerra violenta, nell'indifferenza della comunità  internazionale,
guerra che ha già  causato più di 50 mila morti e ogni sorta di abusi sulla popolazione civile. Dal
maggio del 2003, il governo indonesiano instaura la legge marziale e chiude le porte ai giornalisti e
agli operatori umanitari stranieri.
Un clima irrespirabile anche per padre Ferdinando. Già  nel 1993, appena arrivato nella sua nuova
parrocchia a Banda Aceh, la gente non si volta neppure a salutarlo. La chiesa, costruita dagli
olandesi circa ottant'anni prima, dista appena 300 metri dalla moschea: «Per un anno il muezzin
predicava dall'altoparlante contro di lui. Metteva in guardia la gente dicendo loro che il frate era lì
per convertirli». La polizia lo incalza. Ma lui rimane tranquillo e spiega: «Non vengo a convertirvi.
La mia è una religione universale. Dio vuole che io ami tutti: atei, cattolici, buddisti o musulmani.
Sono tutti figli suoi». A Banda Aceh padre Severi istituisce la sua ultima opera sociale: ogni tre
mesi, ospita, nell'ospedale delle suore francescane di Medan, un chirurgo olandese e opera
gratuitamente persone con handicap fisici. «I musulmani non vogliono che padre Ferdinando entri
nei loro ospedali», spiega John Paul. Lui, invece, apre le porte a tutti senza nulla volere in cambio:
né soldi, né conversioni. «Oggi lo amano tutti `€“ afferma padre John Paul `€“ persino i
fondamentalisti».


Lo tsunami, l'ultima prova

Lo tsunami, quel 26 dicembre, travolge anche tutto questo. Anni di fatiche, relazioni tessute con
pazienza, tanti amici scomparsi. Ora, con in mano i cocci e in testa tanti capelli bianchi, tutto è più
difficile. Il senso di fatica è immediato. A partire dalla linea telefonica, che interrompe in
continuazione la voce tremula di padre Ferdinando, molto provato. «Ero a Meulaboh, alla stazione
degli autobus, verso le 8 del mattino, pronto a tornare a Banda Aceh, quando arrivò il terremoto.
Fortissimo. Durò circa un minuto. Sentivo il tonfo delle case che crollavano una dopo l'altra. Non
scappai. Andai per le strade per vedere come stava la gente. Lo tsunami ci colse all'improvviso, con
una violenza indescrivibile. Iniziammo a scappare verso la parte alta della città , finché a un incrocio
l'acqua ci assalì anche di fronte. Non ci restava che salire sull'edificio più vicino. Era una moschea.
Da lì vedevo le strade diventare fiumi. Non dimenticherò mai i corpi degli annegati. Galleggiavano
in ogni direzione, alcuni con le mani rivolte al cielo. Era la fine del mondo».
Sembra uno scherzo del destino: lui frate cattolico, salvo per caso, sul tetto di una moschea, ad
assistere impietrito a quel inferno: «Stavo rannicchiato vicino a Dio, perché mi desse la forza di
capire e di non perdere la ragione».
Il dopo non è migliore, lo shock lascia il posto alla consapevolezza della tragedia: «L'acqua salì
fino a tre metri. Dopo tre ore era ancora alta un metro. Decisi di scendere e di guadare verso la parte
alta della città . Iniziò lo strazio della gente sfollata che cercava i suoi. Chi aveva perso un figlio, chi,
confortato da un testimone, sperava di poterlo riabbracciare.  M'impressionò vedere le barche dei
pescatori in piena piazza e le montagne di detriti. Intorno ogni tipo di oggetto. E un numero
impressionante di cadaveri».
Il pensiero va a Banda Aceh, ai suoi fedeli, ai suoi amici musulmani, alla sua chiesa. Nulla sarà  più
come prima. Solo dopo quattro giorni raggiunge Medan con un piccolo aereo, giusto il tempo per
rassicurare i superiori sul suo stato di salute e partire per Banda Aceh. Durante il viaggio, la
campagna appare come un enorme acquitrino, zeppo di detriti, in cui una palma di cocco abbattuta
galleggia con la stessa assurdità  di un frigorifero: «Mi resi conto che ci sarebbero voluti mesi prima
di sapere quanti morti avremmo dovuto piangere. Tutta la fascia costiera che andava da Meulaboh a
Banda Aceh, circa 300 chilometri con centinaia di villaggi, era stata spazzata via dallo tsunami. Non
c'era l'ombra di un soccorritore».
Banda Aceh gli appare come una città  distrutta, appestata dall'odore dei cadaveri in putrefazione.
Padre Ferdinando apprende che trenta dei suoi parrocchiani sono morti, mentre gli altri, in
maggioranza immigrati cinesi, stanno scappando per raggiungere parenti e amici a Medan:
«Domenica a messa non ci sarà  più nessuno», dice con un filo di voce. Ma ciò che lo turba
profondamente è non poter aiutare la gente a dare una degna sepoltura ai propri familiari: «Il rischio
di epidemie è in agguato, non ci si può avvicinare ai corpi in decomposizione. I militari li chiudono
nei sacchi, io li benedico e se li portano via. Mi viene in mente quella scena della peste nei Promessi
Sposi, quando la madre di Cecilia, consegna il corpo della sua piccola ai monatti pregandoli di
averne cura».


Questa tragedia ha un senso?

Come dare senso a tutto questo male? Forse è crudele domandarlo a lui proprio adesso. Ma non si
tira indietro: «Ogni giorno i media musulmani ci martellano dicendoci che questa tragedia è una
punizione divina. L'Islam è ancorato al vecchio Testamento in cui Dio è giudice inflessibile. Ho
chiesto allora alla mia gente, perché Allah dovrebbe punire un popolo che già  piange tanti padri
morti in guerra. Voi, che siete padri, punireste in questo modo i vostri figli? Perché dunque
dovrebbe farlo Allah, che è il buonissimo? Spiego loro che Dio non manda punizioni, permette i
disastri perché il nostro mondo è imperfetto, ma ci dà  la possibilità  di avere una vittoria spirituale
che ci innalza verso la perfezione se solo rispondiamo con amore e fedeltà . Guardate la fraternità 
universale sollevata dalla nostra tragedia, ci stanno arrivando aiuti da tutto il mondo: non è questa
una vittoria dello spirito?»
Ridare senso e dignità , oggi è questa la missione di padre Ferdinando. Ma che cosa si aspetta dal
futuro? «Non so `€“ afferma stanco `€“. Non so se ritorneranno i miei fedeli, non so se e quando la
nostra scuola tornerà  a funzionare. La nostra parrocchia è in sfacelo». Poi fa una pausa e aggiunge
con un velo di orgoglio: «Però la nostra chiesa è ancora in piedi. Ha crepe ma è ancora in piedi». E
forse questa è la vera risposta.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017