La vita oltre il lutto
Giovanni aveva 28 anni. Da qualche tempo lo disturbava una strana febbricola. Il medico ordinò gli esami del sangue. Poche ore dopo, l'assurdo piombò in famiglia: leucemia. «Di quel giorno di ormai quattro anni fa ricordo noi due in ospedale e un'immensa solitudine», racconta sua madre Riccarda , nella voce un dolore misurato. Cinque mesi e mezzo di lotta e poi la morte, proprio quando ritornava la speranza, «avevamo trovato un donatore di midollo compatibile». Un baratro per i familiari, asfissiante, infinito, grottesco. Nulla più sarebbe stato come prima: «Non volevo crederci, anche se in teoria avrei dovuto essere preparata al peggio. Non è vero, mi dicevo. È ancora in ospedale. È partito. Perché proprio a me? Perché proprio a lui? Ho desiderato morire anch'io per non vivere un dolore così» .
Riccarda oggi ha il coraggio di parlarne. È volontaria in un gruppo di automutuo aiuto per il lutto, la stessa associazione che nei giorni dell'angoscia ha aiutato lei. Dona il suo dolore agli altri perché sa che il lutto non è solo perdita, ma sconfinata solitudine: «Se sai che qualcuno riesce a vedere un po' di luce, incominci a pensare che puoi farcela anche tu». Poi racconta i giorni bui: «La vita degli altri va avanti, ma la tua si è bloccata con quella di tuo figlio». Difficile credere che qualcuno possa capire: «Ne hai conferma quando un conoscente, impacciato, ti dice: `Vedrai, col tempo passa` o fa finta di non vederti, perché non sa che cosa dirti. E tu stessa non hai più parole: hai voglia di piangere, di urlare contro tutto e tutti, e invece ti trattieni. Come puoi lasciarti andare con uno che non sa»?. Non è facile neppure in famiglia: «Hai paura di ferire chi ti sta vicino, sai che il tuo pianto porterà altro pianto». Allora lo si strozza in gola, lo si tiene dentro. Si va per casa ognuno per sé come zattere alla deriva. Il mondo si fa sordo, insignificante, incolore.
Perdere una persona cara. Succede a 500 mila famiglie italiane ogni anno, eppure nessuno ne parla. Nemmeno a livello istituzionale. «Non esistono studi su come gli italiani in genere affrontino il lutto» , afferma Enrico Cazzaniga, psicologo del Vidas (Volontari italiani domiciliari per l'assistenza ai sofferenti) di Milano. Un black out della parola, che è un vuoto di senso. Per la nostra società , la morte è un buco nero nella storia, incomprensibile, assurdo, «antiestetico», quasi contro natura, non si può controllare né riscrivere, quindi è da evitare o dimenticare in fretta. Il lutto si vive in privato, non si condivide, come avveniva in passato quando nascite e morti erano patrimonio di una comunità e un più diffuso sentimento religioso aiutava ad accettare. Inevitabili le conseguenze: c'è chi arriva a subire il mobbing sul posto di lavoro o chi si chiude nel proprio dolore come in una fortezza. E il male corre sottopelle: «Una gran parte delle depressioni - afferma Francesco Campione, docente di Psicologia medica a Bologna - sono lutti non risolti». Soli, nel momento di maggior bisogno. Senza sapere come e se ne usciremo.
Il primo passo per superare il dolore è capirlo. Il lutto ha i suoi tempi e le sue fasi inevitabili.
La prima fase serve a prendere atto della perdita: è il tempo del pianto, della disperazione, della negazione di ciò che è successo. Ci vogliono mesi solo per concepirlo.
Poi c'è la fase «destrutturante», dei sentimenti negativi, di rabbia o di colpa, tanti mesi ancora di una sofferenza profonda: la persona se la prende con chi ha causato l'incidente, con il medico « incompetente» o con il suo Dio sordo e impassibile, oppure non sopporta di essere sopravvissuta al fratello o di non essere stata in grado di salvare il proprio figlio.
La terza fase è quella della «ristrutturazione del campo di vita»: la persona comincia a occuparsi dei cambiamenti causati da quella perdita e a trovare una nuova dimensione. Il dolore rimane, ma non è più centrale nell'esistenza. «Si supera la crisi - avverte Campione - solo quando ci si danno nuove ragioni di vita, mai quando si nega o si rifiuta ciò che è stato» .
Per affrontare il cammino nel lutto è importante saper leggere il proprio dolore: la crisi profonda e prolungata non è fragilità personale, è reazione comune. Nessuno ha immediatamente i mezzi per risalire la china. Dare sfogo al proprio dolore e avere pazienza con se stessi sono due atteggiamenti che aiutano. Chi sta vicino a una persona in lutto non usi consigli e frasi fatte, si limiti a stare accanto, in un modo esistenziale, permettendo all'altro d'essere se stesso anche nelle espressioni più disperate. «Spesso non riusciamo a consolare perché abbiamo paura di soffrire: invece bisognerebbe imparare ad accogliere il dolore, senza confonderlo con il proprio, perché anche questo è vita, conclude Campione.
Il ritorno alla vita non è né facile né scontato, non solo perché la persona in lutto è spesso sola ma perché è la prima a credere che nessuno possa aiutarla. Pochi si rivolgono a uno psicologo, la gran parte fa da sé. Il vuoto di risposte può produrre soluzioni disperate. Un numero significativo va dai medium o cerca un modo di comunicazione con i defunti. Ma i rischi sono alti e non solo per ragioni spirituali: «C'è gente - afferma Cazzaniga - che sopravvive in funzione di queste comunicazioni, senza mai riuscire a tornare alle relazioni normali».
Il lutto vissuto insieme
Fortunatamente, da una decina d'anni, il muro di silenzio comincia a incrinarsi: sul tema del lutto non solo convegni e film di successo, ma anche tante iniziative per cercare risposte. Due meritano particolare attenzione: un progetto pilota per la costruzione di una rete di appoggio alle persone in lutto e le esperienze di autoaiuto.
La prima proposta nasce dalle esperienze dell'Ospice Bentivoglio (provincia di Bologna) per malati terminali e del Servizio di aiuto psicologico alle persone in crisi, lutto e separazione della facoltà di Psicologia di Bologna. Si chiama progetto «Rivivere» ed è una specie di «protezione civile» del lutto. Il professor Campione ne è il coordinatore: «Nostro intento è costruire una rete di appoggio a chi è in lutto, differenziata a seconda se si tratti di un lutto violento - un incidente stradale - o ` più naturale` - per malattia» . Tre i livelli d'intervento. Il primo è la formazione psicologica di tutto il personale che ha a che fare con il lutto: dai medici ai carabinieri, dalla polizia municipale al personale del 118. «Non dovrebbe succedere che porti il congiunto ferito all'ospedale, attendi in ansia per ore e poi un infermiere in silenzio ti consegna i suoi vestiti. Un lutto così inizia malissimo», dice il professor Campione. Il secondo livello mira a preparare un volontariato di «prossimità » nei diversi paesi, per accompagnare con la sensibilità giusta chi è nel lutto. «Le persone coinvolte non riescono ad aiutarsi tra loro. Per questo la presenza di una persona, esterna ma preparata, può limitare il senso di smarrimento» . Il terzo livello scatta in caso di «lutto bloccato» , quando il dolore paralizza e la voglia di vivere si arresta. È l'intervento specialistico, fatto da psicologi appositamente preparati.
Per ora il progetto è limitato ad alcune zone dell'Emilia Romagna, «il sogno è che questo modello possa diffondersi in tutt'Italia ed essere a carico dello Stato. È assurdo che le istituzioni ti assistano quando hai un raffreddore ma non quando vivi un lutto», commenta Campione.
La seconda proposta, di gran lunga più diffusa, viene dal basso, da chi il lutto lo vive: sono i gruppi di preghiera e i gruppi di automutuoaiuto. I primi si fondano sulla fede ed esistono da decine di anni, i secondi si fondano solo sull'esperienza del lutto, sono emanazione delle associazioni per i malati terminali e costituiscono un fenomeno recente, su cui vale la pena soffermarsi. In questi gruppi, otto, dieci persone in diverse fasi del lutto s'incontrano per fare insieme il lavoro di elaborazione. In genere, non sono ammesse persone estranee all'esperienza, in molti c'è un consulente esterno, uno psicologo. Non si sa esattamente quanti siano, sono diffusi soprattutto al Centro-Nord, non hanno ancora un organismo ufficiale, tranne, dal 2002, un informale coordinamentonazionale.
Una realtà in divenire che fa sorgere negli specialisti qualche dubbio. «Il mondo dell'autoaiuto è di grande interesse - puntualizza Campione - ma c'è anche il rischio di trattare un argomento delicatissimo senza avere la corretta formazione» .
Il dibattito è aperto, ma chi da anni segue i gruppi di automutuoaiuto, come il dottor Cazzaniga, scommette sulla loro efficacia: «Non conosco tutti i gruppi, ma se funzionano bene l'aiuto è immediato». Il primo vantaggio è l'identificazione: ci si capisce all'istante. «I gruppi di automutuoaiuto non servono a rivangare il passato - puntualizza Cazzaniga -. Dovrebbero aiutare ad affrontare la crisi psicologica sia individuale sia interna al nucleo familiare e aiutare a ricostruire le proprie relazioni sociali. Servono anche a scambiarsi informazioni su problemi pratici come l'eredità o la pensione». La gente si incontra anche fuori, si aiuta, c'è una solidarietà spontanea.
Il ritorno del senso
«Avevo già iniziato una psicoterapia, ma l'aiuto del gruppo è stato fondamentale - racconta Riccarda -. Nel mio gruppo c'erano persone con lutti diversi, il padre, la madre, il figlio, la moglie... Impari a vedere che il tuo dolore non è l'unico, a riconoscere quello degli altri. Grazie a questo confronto ti accorgi che fino a quel momento avevi pianto un ruolo, figlio, marito, madre... e che ora ti manca moltissimo una persona, quella persona che era anche tuo figlio. E finalmente gli restituisci dignità ».
Rimane sospesa una domanda, la più importante: quando l'anima comincia a guarire?
«Il dolore continua anche adesso - risponde Riccarda -, ma non è più la disperazione dei primi tempi, che ti impedisce di respirare, di mangiare, di vivere... Ci sono momenti in cui basta sentire una musica o vedere un ragazzo suonare il clarinetto, come mio figlio, e mi metto a piangere. Però questo dolore ho imparato a gestirlo...». Chi è Giovanni adesso? «È parte di me, è la mia musica nel sottofondo. Mi mancano le sue litigate, ma lo sento anche ridere nelle battute con mio marito e con l'altra mia figlia. Dopo tanto dolore, siamo uniti più che mai. Sappiamo di essere un tavolo che traballa, non abbiamo più quattro gambe, ma tre. Però ce la stiamo facendo. Al mattino, quando ci alziamo, stare insieme ci sembra un miracolo. Essere qui, adesso, non è più scontato».