Adolescenti immigrati
C’è un disagio giovanile in Occidente che ha l’onore della cronaca solo quando diventa tragedia. È la ragazza uccisa dal padre pakistano perché troppo occidentalizzata; è il terrorista islamico poco più che adolescente, con passaporto britannico e un debole per il pub; è il ragazzo sudcoreano, in apparenza perfettamente integrato, che fa strage di coetanei al Virginia Tech.
Un disagio che in Europa ha ormai un’icona: le banlieu di Parigi, la protesta assordante dei giovani figli di immigrati scoppiata due anni fa e ormai archiviata dalla cronaca, ma che brucia ancora sottopelle. Ragazzi nati in Francia ostaggi di due mondi. Troppo magrebini per essere francesi eppure troppo francesi per essere magrebini: ovunque cittadini di serie B, dall’identità sospesa, con poco lavoro e prospettive, traditi e arrabbiati. Una protesta che fu un pugno nello stomaco della vecchia Europa, che forse si considerava a torto più aperta e cosmopolita. Uno shock che invase i giornali e fece fare a tutti «due più due»: sarà questo il futuro dell’Europa? Hanno fallito tutti i nostri modelli d’integrazione? Che fine faranno questi ragazzi?
Domande che rimbalzarono in Italia, che puntarono i riflettori sulle nostre periferie, mentre a scuola i compagni di banco dei nostri figli erano sempre più colorati e plurilingue. E si disse anche allora che la scuola, porta maestra per entrare di diritto nel nostro Paese, era fondamentale, il punto di partenza per creare una società plurale e integrata.
Allora, come oggi, all’inizio di questo anno scolastico, le domande sono le stesse: la scuola, questa scuola, è in grado di accogliere aspirazioni e differenze, di mediare conflitti, di aprire prospettive, di creare nuovi orizzonti comuni di vita e di valori? Che carte possiamo giocare per fare di più e fare meglio? Possiamo, insomma, dimenticare Parigi?
Un’immigrazione molto speciale
Sulla carta l’Italia è all’avanguardia: il nostro modello d’integrazione – recitano le circolari ministeriali – è quello interculturale: il nostro Paese, cioè, non si limita a convivere con le diverse culture (multiculturalismo) ma ha deciso di interagire con esse. A che punto siamo?
«Si deve fare ancora molta strada ma l’Italia ha davanti a sé l’occasione di costruire una vera società interculturale, pacifica e feconda – è l’affermazione sorprendente di Graziella Favaro, pedagogista e membro del comitato scientifico sull’integrazione degli alunni stranieri del ministero dell’Istruzione –; la nostra immigrazione, ormai giunta a 3 milioni di unità, è diversa da tutti gli altri flussi migratori europei. Abbiamo le carte per creare concretamente un nuovo modello, tagliato su misura. A cominciare proprio dalla scuola».
E gli assi nella manica sono molti. I nostri immigrati provengono da più di 190 Paesi e vivono soprattutto nei piccoli centri piuttosto che nelle grandi città come avviene all’estero: ciò significa che, salvo eccezioni, non ci sono concentrazioni di un’unica nazionalità, con conseguente creazione di ghetti e gruppi chiusi. Altra caratteristica tutta italiana è che l’immigrazione per il 50 per cento è al femminile ed è ormai un dato comprovato che «le immigrate sono più propense alle relazioni, ad accorciare le distanze con la popolazione ospitante, a rivolgersi ai servizi».
Ma ciò che più sorprende è un altro dato: la popolazione immigrata in Italia ha un tasso di scolarizzazione superiore rispetto alla popolazione autoctona, vale a dire che in proporzione ci sono più diplomati e laureati tra gli immigrati che tra gli italiani. Con conseguenze di grande portata: «Un genitore più istruito – continua Favaro – può sostenere molto più attivamente l’integrazione positiva dei suoi figli e ha grandi aspettative nei confronti della scuola e della società».
Luci su cui si addensano possibili ombre, se non si presta sufficiente attenzione ai rapidi cambiamenti in corso. E i cambiamenti più importanti stanno avvenendo proprio nella scuola.
Il primo riguarda il numero di alunni nelle nostre classi: dalle 50 mila unità del 1995/96 alle oltre 500 mila del 2006/07. Un’ascesa rapidissima, unica in Europa. In alcune regioni del Nord ci sono classi in cui la presenza di alunni immigrati eguaglia e a volte addirittura supera quella degli italiani. Alunni, tra l’altro, di provenienze e culture diversissime.
Il secondo cambiamento, forse il più significativo, è l’inserimento improvviso e massiccio di migliaia di adolescenti nella nostra scuola superiore, fino a soli due anni fa neppure toccata dal fenomeno. In appena un anno gli studenti iscritti alle superiori hanno avuto un incremento pari al 38,2 per cento, contro il 13,6 per cento della scuola primaria e il 14,5 per cento delle medie. Un cambiamento dovuto soprattutto ai ricongiungimenti familiari.
Nel frattempo, la seconda generazione di immigrati, i bambini nati qui, per intenderci, sono ormai avanti negli studi e presto confluiranno alle superiori che di fatto stanno diventando il nuovo avamposto, il luogo di confine dove avverrà, e forse è già iniziata, la seconda fase, quella più difficile, della grande avventura dell’interculturalità in Italia.
Scuola superiore: la nuova sfida
Ma il momento è particolarmente delicato. Per un bambino piccolo è più facile inserirsi: un po’ perché il suo livello di sviluppo lo rende più flessibile, un po’ perché le scuole materne ed elementari sono strutturalmente più accoglienti e preparate, confrontandosi da tempo con il fenomeno. Un adolescente è più esposto e fragile: «Oltre alle sfide legate alla sua età – afferma Favaro – deve affrontare quelle causate dall’immigrazione: la paura del viaggio, il distacco dai legami affettivi sedimentati fino a quel momento, l’apprendimento di una nuova lingua e di nuovi codici di comportamento, lo sforzo di stabilire una quotidianità con un genitore che magari non vede da anni, l’essere continuamente in bilico tra due culture». A ciò si aggiunge la precarietà tipica della vita di molti immigrati: cambi improvvisi di lavoro e città, che per i più giovani si traducono in ulteriori distacchi e difficoltà. Pesano anche le etichette razziali, purtroppo sempre più frequenti, e il dover spesso fare da genitori ai propri genitori: «Molti ragazzini fanno da ponte tra gli adulti e la nostra società, parlano con i medici, con gli insegnanti: un’iperresponsabilità che inverte il ruolo genitore-figlio». Un fardello degno di Sisifo, proprio nell’età dell’incertezza.
Ragazzi in bilico quindi, che spesso approdano alla scuola superiore un po’ come marziani sulla terra. E le conseguenze dell’atterraggio sono già visibili. Le difficoltà si manifestano in diversi modi: abbandono scolastico; inserimento in una classe di molto inferiore alla propria età; risultati scolastici molto più scadenti rispetto ai coetanei italiani; scelta di studi secondari di secondo grado più brevi e meno esigenti.
Qualche numero per capire il divario: l’esser messo in una classe inferiore alla propria età penalizza il 22,5 per cento dei bambini stranieri inseriti nella scuola primaria, il 54, 4 per cento dei ragazzini delle medie, il 72, 6 per cento degli studenti stranieri delle superiori. Il risultato scolastico degli alunni stranieri è inferiore rispetto ai coetanei italiani di 3,2 punti percentuali alle elementari, 7,9 alle medie, 12,8 alle superiori. Limitata anche la scelta della prosecuzione degli studi: più del 40 per cento dei ragazzini immigrati scelgono le professionali, contro il 20 per cento della media nazionale.
Divari pericolosi che alla lunga potrebbero diventare voragini, costruire barriere e vulnerabilità sociale, azzerare il vantaggio che le caratteristiche positive della nostra immigrazione oggi ci stanno offrendo.
E l’Italia in questo magma come si sta muovendo?
«Ci sono esperienze positive un po’ a macchia di leopardo – afferma Favaro –, che spesso hanno coinvolto il pubblico e il privato. Alcuni enti locali hanno saputo adottare efficaci modalità d’inserimento quotidiano, con reti di servizio, mediatori linguistici, risorse impegnate. Ci sono altre zone del Paese in cui gli immigrati, e quindi i loro figli, sono invisibili, lasciati a se stessi, a situazioni di marginalità. Se dovessi fare una sintesi riassumerei così i punti critici: eccessiva discrezionalità degli interventi, impreparazione di alcuni operatori; un atteggiamento di fondo più improntato all’emergenza, che ha portato a soluzioni scadenti». Alla base di tutto, una scarsità endemica di risorse, l’iniziativa lasciata spesso solo alla buona volontà di insegnanti disorientati e molto soli, ma anche un quadro legislativo pieno di buoni propositi, ma privo di linee guida definite, complete, condivise.
L’assenza di un modello rigido ha però un rovescio della medaglia assolutamente positivo: «Per certi versi questa “via italiana” all’integrazione, priva di punti di riferimento, ha permesso di provare, sperimentare, percorrere cammini innovativi, slegati dal “dover essere” e dalle impostazioni ideologiche» afferma Favaro. Un bagaglio di attrezzi utilissimo per ripensare la scuola di domani.
Fatta la diagnosi, individuati luci ed ombre, punti di forza e debolezza, come si dovrebbe agire per far diventare questi adolescenti i protagonisti dell’integrazione all’italiana?
«Dedicare loro tutta l’attenzione e l’accompagnamento possibile, fin da quando mettono piede nel nostro Paese – risponde la pedagogista – ricordandoci sempre che proprio loro sono il punto di contatto tra le culture. Lo si può fare in vari modi: predisponendo un servizio di accoglienza e orientamento, aiutandoli nell’apprendimento della lingua italiana e approntando iniziative per smussare il divario di risultati e opportunità con i coetanei. Non solo: valorizzando le differenze e i punti di vista, l’originalità, l’esperienza, le lingue, la cultura che questi ragazzi possono trasferire ai nostri, combattendo ogni discriminazione e pregiudizio, oggi purtroppo sempre più diffusi tra i giovani. È una sfida che richiede fatica, disponibilità, spazi, capacità di mediazione e, ovviamente, risorse economiche».
Non solo impegno e servizi, quindi, ma l’attenzione della politica: «È giunto il momento – conclude Favaro – di smettere di navigare a vista, di cogliere il buono delle tante sperimentazioni, di arrivare finalmente a normative chiare e complete, alla formulazione di un modello d’integrazione fatto su misura per noi».
Non ci resta che attendere, magari ricordando al ministro dell’Istruzione Fioroni le parole che lui stesso ha pronunciato un anno fa, in occasione dell’apertura dell’anno scolastico: «Passano largamente dalla scuola le possibilità di costruire una società insieme plurale e coesa, in cui gli stranieri non siano considerati ospiti in prova perenne, ma come nuovi cittadini con diritti e doveri; e in cui il Paese che accoglie sia disponibile e in grado, pur senza rinunciare alle proprie specificità, di misurarsi con l’apporto delle culture degli altri». Bene ministro, aspettiamo il seguito.
La storia. Amina, la dolce
Dolce e tenace, sotto il velo portato con naturalezza, Amina,18 anni, viene dal Marocco e frequenta il liceo classico. Stupisce il suo italiano perfetto, il suo argomentare forbito e consapevole, frutto di una lotta serrata con la timidezza e con il senso d’inadeguatezza che accompagna i ragazzi a cavallo tra prima e seconda generazione, identità sospese in cerca di un centro di gravità. Amina non si è arresa ai luoghi comuni, perché vuole provare a essere un’italiana con l’anima araba, in dialogo a tutti i costi. «All’asilo e alle elementari mi sono trovata bene: nessuno guardava alle differenze». Il peso della diversità l’ha colta quasi di sorpresa alle medie. Un brutto risveglio. «E io ho deciso di essere me stessa. Ho messo il velo all’indomani dell’11 settembre, anche se mi chiamavano Bin Laden, perché era importante per me e non volevo rinunciare solo per paura». Era il suo modo per sovvertire l’equazione «musulmano uguale terrorista». «È stato durissimo ma per fortuna accanto a me avevo Beatrice, una compagna delle elementari. Le ero stata molto vicina quando aveva perso suo padre. A lei raccontavo tutte le mie difficoltà e lei mi diceva di tener duro, di lasciare aperte sempre le porte del dialogo».
Poco dopo Beatrice si ammala di cancro: «Abbiamo vissuto insieme tutta la malattia. Il dolore ci ha avvicinato a tal punto che io non vedevo più differenze: lei-me, vita-morte, tutto il resto era superfluo. Noi esseri umani in fondo siamo tutti uguali». Beatrice muore all’inizio delle superiori, ma il dado è tratto nel cuore di Amina: «Il giorno del funerale sono entrata in chiesa e ho cercato di guardare il crocifisso con gli occhi di Beatrice: lei ne sarebbe stata felice. Tutto quello che mi aveva insegnato era in me. Ora sapevo che l’incontro era possibile, non mi sentivo più incapace di socializzare. Non mi sarei mai più nascosta». La vita cambia nel quotidiano, Amina non sta più alla finestra a guardare: «Ho iniziato a cercare rapporti. Per fortuna alle superiori ho trovato persone più mature e aperte. Ma ho provato anche molte amarezze e disillusioni. C’erano professori di grande cultura sopraffatti dal pregiudizio. Come avrebbero potuto trasmettere la bellezza di un’altra cultura? Ho imparato negli anni a sdrammatizzare: lo puoi fare solo se hai uno scopo più grande». Ma a volte è difficile: «Se provi ad allacciare relazioni ma non trovi riscontro fai sempre più fatica a metterti in gioco, specie se gli anni passano e non vedi grandi cambiamenti. La tentazione è di rinchiudersi nella propria cultura. Ma poi come vivi in questa società? Se solo potessi far capire come è bello imparare dalle altre culture. E la scuola è davvero il luogo ideale. Per questo vorrei un giorno diventare un’insegnante».
Psicologa
E se ci donassero un’anima a colori?
Intervista a Claudia Bruni, psicologa, esperta della prevenzione in ambito scolastico.
Msa. Quali sono le difficoltà maggiori di un adolescente straniero?
Bruni. Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza può essere in varia misura caratterizzato da ansie di tipo depressivo, per ciò che si lascia e le parti di sé che si perdono, o di tipo persecutorio, di fronte al non senso dei cambiamenti, o ancora di tipo confusionale, prodotte dall’insieme di noto e ignoto. Gli adolescenti stranieri, in particolare quelli che si ricongiungono ai genitori già in Italia, è come se dovessero lasciare contemporaneamente due paesi: quello dell’infanzia e quello delle origini. E ciò amplifica ulteriormente la sensazione di sospensione, incertezza e transizione.
Un rischio può essere quello di rimanere su una gamba sola, assimilandosi totalmente alla cultura ospitante oppure, all’opposto, irrigidendosi difensivamente sulle proprie origini. Come si può allora stare in piedi e muoversi? Bisognerebbe davvero poter contare su tutte e due le gambe. Per poter così attraversare e riattraversare il ponte tra le due sponde.
Quali sono le ricchezze che un adolescente immigrato può trasmettere ai compagni e per esteso alla società?
Mi viene in mente la bella immagine del mantello di Arlecchino fatto di tanti diversi tessuti di tutti i colori e di tutte le forme. Perché la nostra identità non può esser fatta di tante parti in un dosaggio sempre diverso a seconda delle circostanze della vita? Perché non può essere la somma delle nostre diverse appartenenze senza immaginarne una unica che diviene spesso strumento di esclusione delle altre? Un ragazzino straniero può aiutarci a uscire dalle nostre strette divise monocolore attraverso la sua fatica di vestirsi da Arlecchino.
C’è qualcosa che noi non riusciamo a cogliere, ma che può ferire un ragazzo immigrato?
Nel rispetto dell’universalità dell’umano bisogna riconoscere che la differenza è fondamentale. È dunque importante evitare il pregiudizio di volerci considerare tutti uguali. Esso comporta il rischio di non valorizzare la diversità, di negarla, di fingere di non vederla. Così facendo rendiamo i ragazzini stranieri invisibili, ferendoli per non esserne feriti.
Per entrare in contatto reale con un adolescente straniero che cosa dovrebbe fare un compagno di scuola, un insegnante, una famiglia italiana che si trova a incontrarlo?
Un compagno potrebbe chiedergli come si chiama, da dove viene, dove vorrebbe andare…, certo. Ma non dovrebbe mai dimenticarsi di chiedergli anche come sta.
Un insegnante dovrebbe ricordarsi e ricordare ai suoi allievi che è il nostro sguardo che rinchiude gli altri in una sola limitante appartenenza, ma è anche il nostro sguardo che può aiutarli a liberarsi da questa.
Una famiglia italiana dovrebbe riflettere sul fatto che se il lontano diventa vicino ci si sente meno minacciati e ci si può aprire a uno scambio reciproco e arricchente. È una sfida ma anche un regalo che nella complessa epoca in cui viviamo ci possiamo fare.
confronti
Modelli d’integrazione
Fusione (Usa, Australia)
È il cosiddetto Melting pot: ossia il miscuglio di popoli che nel tempo dovrebbe portare a una società omogenea, frutto della fusione delle singole culture. Il modello non sembra dare i frutti sperati in quanto ghetti e discriminazioni sono ancora molto presenti negli Stati che l’hanno adottato.
Assimilazionista (Francia)
L’immigrato deve «assimilare», fare propria la cultura del Paese ospitante, dimenticando la propria. Cosa che si sta rivelando assai difficile: nella pratica le radici riaffiorano creando scompensi affettivi, psicologici e sociali.
Multiculturale (Olanda, Gran Bretagna, Svezia)
Si dà alle diverse culture un valore e una dignità propri, accettando il pluralismo. Il limite è dato dal fatto che le culture non entrano in relazione tra loro, ma creano «piccole patrie», autosufficienti e impermeabili.
Separatista (Germania)
In questo modello scolastico, i bambini stranieri vivono in classi separate, dove s’insegna la lingua nuova, ma anche si mantiene quella originaria. La prospettiva è quella di un rientro, presto o tardi, in patria.
Gli scambi relazionali sono limitati al mondo produttivo.
Interculturale (Italia)
È il nostro modello, almeno a giudicare dalle circolari ministeriali che dai primi anni ’90 ne esaltano il valore etico e sociale. È il modello della pedagogia del dialogo, dello scambio, della contaminazione reciproca, del riconoscimento delle culture e degli individui. Il limite di questo modello è che spesso vive solo nelle «Carte» e fatica, senza risorse e progettualità concrete, a farsi strada nella pratica quotidiana.
Riflessioni dalle esperienze
Un’occasione per ripensare la scuola
Immigrazione a scuola: perché è un’opportunità? Risponde Scuolaacolori, la rete scolastica d’integrazione di Montebelluna (TV), che copre uno dei territori a più alta densità migratoria, incontrata al convegno «Dov’è la mia casa», svoltosi nella cittadina trevigiana lo scorso maggio.
Come docenti non eravamo preparati: troppo veloce il fenomeno. Si è passati dalla curiosità della prima ora alla paura. Le nostre risposte? Prima l’accoglienza e la comunicazione con la famiglia tramite la mediazione linguistico-culturale, in seguito l’introduzione a scuola di «protocolli di accoglienza». E poi l’apprendimento dell’italiano, prima quello di base poi quello dello studio. Infine la produzione di materiali didattici: test di competenza linguistica, unità didattiche ad alta comprensibilità.
Nel tempo abbiamo però capito che la didattica da sola non basta. Centrare l’attenzione sull’allievo straniero rischia di diventare inutile se non vi è una pedagogia dello scambio e della reciprocità. In fondo l’alunno straniero mette in crisi un modello statico di scuola che vorrebbe portare tutto «a norma», eliminando ogni «disturbo». Ma la realtà, anche quella dei ragazzi italiani, è un’altra cosa.
Le nostre classi sono sempre più complesse, perché complessa è la società. Sono presenti diversità di genere, di classi sociali, di famiglie variamente composte. Vi sono bambini con disabilità, con carenze affettive o intelligenze diverse che andrebbero comprese e valorizzate. In ultimo, ci sono anche gli alunni stranieri. Vi è insomma un panorama variegato che ogni mattina, quando ci chiudiamo alle spalle la porta dell’aula, dobbiamo ripensare.
È necessario, allora, ridare priorità all’ascolto e alla relazione educativa, che spesso abbiamo tralasciato per «il programma», per la pagella, per il giudizio, per i tempi che sono sempre più ridotti…
Gli alunni stranieri forse sono venuti in tempo nelle nostre classi per ricordarci che un ripensamento è possibile. Ma può succedere anche che il «sistema scuola» fagociti tutto, «normalizzando» e appiattendo ogni diversità, in ciò spinto anche da un ministero della Pubblica Istruzione che, a dispetto delle circolari, nulla dà in termini di attenzioni e risorse. Come si fa una buona scuola con un numero di alunni per classe sempre più alto?
Per questo, in quest’ultimo periodo, come rete abbiamo puntato l’attenzione non sul bambino straniero, ma sul «sistema classe», sulle relazioni e l’ascolto, sull’apprendimento cooperativo, sulla gestione dei conflitti e le dinamiche di gruppo. Questo è, in fondo, il senso più profondo del fare intercultura.
Don Milani diceva: «Qualche volta viene voglia di levarseli di torno (i ragazzi più difficili). Ma se si perde loro, la scuola non è più la scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati».
Forse è tempo di tornare a Barbiana.
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