La fiammella di Catrine orfana dell'aids
Nel segno del cuore.
Siamo nell’entroterra di Mbarara, a Sud ovest dell’Uganda, quasi al confine con il Congo e il Rwanda. Il cuore di luce, di cui vi abbiamo appena raccontato, è anche il cuore del progetto Caritas Antoniana che vi proponiamo per celebrare questo 13 giugno, Festa di sant’Antonio.
Attonito davanti al cuore di sabbia c’è anche padre Danilo Salezze, direttore generale del «Messaggero di sant’Antonio», arrivato per mettere a punto il progetto – una grande casa-famiglia per gli orfani dell’aids e le madri abbandonate – insieme a padre Emmanuel e all’altro partner italiano, la Comunità Shalom di Riva del Garda. Anche il suo cuore è in subbuglio mentre porge le candele ai bambini: «Era uno strazio – racconta – vedere tutti quei piccoli soli, eppure era chiaro che quella comunità li stava abbracciando tutti. Il rito delle candele penetra nell’anima come un balsamo e li guarisce dentro. Questa è l’Africa che prende in mano se stessa». Catrine, dal canto suo, ha adottato padre Danilo appena lo ha visto, lo segue come un’ombra, richiede la sua attenzione e le sue coccole. Durante tutto il viaggio padre Danilo guarderà l’Africa da quel cuore, comunitario, caldo, luminoso. Lo accompagnerà padre Emmanuel, che nel buio dell’aids ha acceso la prima candela. Per amore della sua gente.
Seguiamoli, attraverso il racconto di padre Danilo.
Un eden ferito. Dal diario di padre Danilo
Padre Emmanuel mi porta da Lisa, una donnetta piccola, accartocciata nel suo dolore (foto 1). Da qualche giorno lei gli ha consegnato la sua ultima nipote di due anni, sieropositiva, devastata dalla malattia. «Non ce la fa più a tenerla» spiega Emmanuel. Adesso che è sola, Lisa passa il tempo a vegliare i suoi cinque figli, uccisi dall’aids e sepolti davanti alla sua baracca. È una Madonnina nera, una pietà africana.
Mi sovviene un’altra mamma addolorata. La sera prima, alla messa con gli ammalati di aids, un po’ in disparte, una giovane donna teneva in braccio suo figlio in fin di vita (foto 2). «Va dove si prega» gli avevano detto all’ospedale prima di licenziarla.
Nel villaggio di Lisa c’è una casetta lunga e bassa. Ironia della tragedia: sull’intonaco c’è la scritta «Hotel». In una stanza di tre metri per tre, di notte riposano nove persone, a pagamento. Entro. È un tugurio angusto, oscuro, in cui noi non metteremmo neppure gli animali. Tutt’intorno c’è desolazione e un senso di sporco, d’infetto, d’inumano. Solo da una piccola finestra penetra un raggio di sole rado a squarciare un buio che t’assale dentro. Dove sarà la luce?
La cura dell’amore
La luce ha il volto di Lilian, un’educatrice di 28 anni, che fa parte della comunità Yesu Ahuriire (foto 1, accanto a padre Danilo). Era figlia di una ragazza madre e per questo ha subìto povertà e umiliazioni. Si è laureata con sacrifici e ora si prende cura di sette orfani dell’aids e di tutti i bimbi che va a trovare, nelle baracche sotto i banani. «Gli innocenti non devono pagare per la crudeltà degli adulti» dice. La sua comunità si chiama «Casa dell’amore», e ha sede proprio nella casa natale di padre Emmanuel, a conferma che è lui il cuore anche di questa comunità. È qui che hanno portato la nipotina di Lisa (foto 2, il suo armadio). La incontro all’ora di pranzo, sotto una tettoia (foto grande). Qualcuno l’ha issata su una sedia al centro del gruppo dei bambini. Nessuno la imbocca o la vezzeggia. Si misura con un grande piatto di banane e carne. Se lo «pappa» con gusto ed è un piacere guardarla. Mi raccontano che era in condizioni pietose, ma ora la nuova serenità che la circonda le sta ridonando la vita. Lei e i bambini di Lilian saranno i primi ospiti della nostra casa-famiglia. Che consolazione! Quel progetto astratto, ora lo respiro, lo vedo, lo tocco. Ne percepisco la luce e il calore.
La storia di Lilian mi fa capire anche un altro aspetto del progetto: l’accoglienza delle madri sole. Mi spiegano che in Africa una madre senza una comunità alle spalle è condannata alla povertà e all’abbandono. La mamma di Lilian ha avuto coraggio, ma molte non ce la fanno, cedono alla disperazione, entrano nel baratro della depressione, trascinandovi i figli. Il pregiudizio fa il resto, perché in Africa la malattia mentale è considerata una possessione diabolica e gli ammalati vengono emarginati, picchiati, legati a ceppi per anni e uccisi. Un baratro da cui non si esce. Emmanuel mi racconta che una delle operatrici di Yesu Ahuriire è figlia di una di queste donne. Si chiama Cassande; l’ho vista al centro, ha un volto dolcissimo. Sua madre soffriva di una grave malattia mentale e anche lei ne aveva sviluppato i sintomi. Ma all’apice della sofferenza ha incontrato Adeodata, un’infermiera del Yesu Ahuriire, e grazie a lei si è ripresa. Lilian, Cassande, Adeodata... lavoreranno tutte nella nostra casa-famiglia. È bello pensare che il dolore guarirà il dolore. Le mamme risanate saranno luce per gli orfani della comunità. Le candele si sciolgono l’una sull’altra e formano un grande cuore.
è qui che pianteremo il cuore
Ritorniamo a Mbarara. Dopo quello che ho visto, la Comunità Yesu Ahuriire mi sembra il paradiso: c’è cibo, lavoro, campi e allevamenti. È nata nel 1998 ed è composta da alcuni volontari laici, tutti transitati da esperienze di dolore: malattia, lutti, abbandoni. Ognuno partecipa al bene di tutti, riannodando fili spezzati, rianimando la vita. Alcuni di loro diventeranno gli operatori della nostra casa-famiglia (foto piccola). Qui s’impara a convivere con il limite e c’è dignità. Ma adesso so che fuori è l’inferno. Chiedo a Emmanuel come fa a sopportare tutto questo dolore. Lui mi risponde: «Amane uno, amane due, amane cento, amane un milione». Il bene si allargherà come le onde in uno stagno.
Mi accompagna nel posto in cui sorgerà il centro: lo chiameranno «Shalom», «pace». Mentre Emmanuel descrive il progetto, mi pare di vederlo: due piani, gli orti, l’aula di ricreazione dei bambini, i laboratori professionali per le donne. «Sarà collegato all’ospedale e all’università – sogna a occhi aperti –, diventerà un luogo di formazione per gli operatori sociali. Coinvolgeremo la città, i bambini saranno reintegrati in famiglie e le donne troveranno un lavoro. Man mano accoglieremo altre donne e altri bambini e...».
Amane uno, amane due, amane cento… Emmanuel, ho capito.
Il progetto in breve
Progetto: costruzione e allestimento della casa-famiglia «Shalom».
Beneficiari: 55 bambini orfani dell’aids, malati e non; 15 madri con malattia psichica e loro figli; 15 operatori.
Costo: euro 250 mila