Il carcere dei dimenticati
La maggior parte delle persone è in carcere con l’accusa sommaria di aver partecipato al genocidio, non ha diritto a un avvocato, langue in questo stato da ormai quindici anni, senza nessuna prospettiva di futuro: può vedere i congiunti solo per pochi minuti sotto stretto controllo e non può ricevere cibo dall’esterno.
La ferita del genocidio
Una ferita aperta quella del genocidio, che ormai ammorba ogni piega della quotidianità e ogni relazione sociale, che potrebbe guarire solo facendo luce su tutto il sangue versato e ristabilendo la giustizia. Ciò che successe angustia e spaventa ancora: un massacro bestiale, tra parenti e vicini di casa a colpi di macete. Ottocentomila morti in appena cento giorni. All’epoca il portavoce della Croce Rossa parlò di «orrore totale... Siamo nel cuore delle tenebre». Un massacro – dicono oggi – progettato a tavolino dagli estremisti hutu per sterminare l’opposizione che comprendeva non solo i tutsi ma anche gli stessi hutu moderati e quanti si rifiutavano di partecipare al genocidio.
Oggi al potere c’è la minoranza tutsi – da sempre più ricca e più colta – e tra la popolazione più povera, in prevalenza hutu, cresce il malcontento. Il presidente Kagame si era insediato promettendo la riconciliazione ma, come riporta Amnesty International, il Fronte patriottico rwandese, il suo partito, di fatto ha imposto una deriva totalitaria, restringendo ogni possibilità di libera espressione e soprattutto sfruttando a proprio vantaggio l’ideologia del genocidio, secondo la quale tutte le vittime furono tutsi e tutti i carnefici hutu. Nella realtà i criminali di guerra, appartenenti all’una e all’altra parte, sono rimasti impuniti, mentre i tribunali popolari, i gacaca, istituiti per far luce sul massacro, sono spesso guidati da logiche di vendetta. Eppure, in questo caos il Rwanda cresce economicamente: nel 2008 il Pil è aumentato del 6 per cento e forti sono gli investimenti stranieri. Kigali, la capitale, sembra una metropoli occidentale moderna, pulita e sicura. Le belle case sono abitate dai dirigenti delle imprese private e dell’amministrazione pubblica, ma appena fuori i contadini vivono con meno di mezzo dollaro al giorno mentre la vita media non supera i 44 anni. E sotto l’apparente normalità ribolle il conflitto: è mascherato da odio etnico ma si tratta di una vera e propria guerra di potere, fomentata dagli interessi stranieri.
Nel carcere di Ruhengeri tutto questo è lontanissimo, il tempo si è fermato come in un ergastolo senza processo. La realtà è sofferenza, fame, mancanza di uno scopo. Dentro ci sono 2700 persone tra cui 75 bambini sotto i 5 anni con le madri. Gli operatori che hanno visitato il carcere raccontano di turni per dormire per terra e dell’unica razione giornaliera di cibo data a ogni prigioniero: un pugno di mais, 46 chicchi in tutto, per non morire. Quattrocento persone detenute sono in gravissime condizioni, malati terminali di aids, e ci sono molte donne incinte.
E il carcere cambia
La Caritas di Ruhengeri ha cominciato il lavoro nelle carceri già qualche anno fa. «All’inizio – spiega padre Maragno – è stata fondamentale l’opera di sensibilizzazione della gente: il primo obiettivo era rompere l’isolamento assoluto dei detenuti. Nessuno tra gli operatori avrebbe scommesso di poter entrare nel carcere. Il lavoro di avvicinamento è stato lento e delicato». La svolta si è avuta quando è arrivato un nuovo direttore del carcere, il quale ha saputo accogliere il lavoro umanitario di Caritas Ruhengeri e lo ha agevolato.
È a questo punto che entra in gioco Caritas Antoniana: «Abbiamo accettato innanzitutto di risolvere l’emergenza, finanziando l’acquisto di derrate alimentari per i più deboli. Nei giorni di festa, soprattutto nel periodo natalizio e pasquale, razioni abbondanti di cibo vengono distribuite anche a tutti gli altri». Il primo carico di riso, fagioli e sosoma (una farina di sorgo, soia e mais, usata per la colazione) è arrivata proprio lo scorso Natale, il primo festeggiato dopo quindici lunghi anni. Insieme al cibo, coperte e giochi per i bambini. Nel carcere si respirava gioia e commozione.
Subito dopo Caritas Antoniana ha aiutato ad avviare due laboratori, uno di falegnameria e l’altro di sartoria. «Le persone detenute che conoscevano questi mestieri − continua Maragno − sono diventate dei maestri. La gente del paese oggi va a comprare vestiti, porte o comodini dentro il carcere. I detenuti possono cambiarsi d’abito, dormire coperti, guadagnare qualcosa ma soprattutto hanno un obiettivo, il loro tempo non passa più invano. Alcuni di loro, insegnanti di professione o intellettuali, aiutano nella scuola i bambini dei villaggi e insegnano loro l’inglese». Migliorano i malati che possono addirittura essere portati dal medico, i più piccoli non soffrono più la fame. Nell’ultimo posto della terra la vita riprende a pulsare.
«Solo qualche settimana fa abbiamo accettato l’ultimo miniprogetto: la costruzione di docce e bagni nel carcere per il rispetto della dignità delle persone e per migliorare le condizioni sanitarie. Questo sarà il dono da parte dei lettori del “Messaggero” per il prossimo Natale».
Progetti in breve
- Dove: carcere di Ruhengeri, Rwanda
- Progetti 2008-2009: acquisto derrate alimentari, coperte, giochi, materiale di cancelleria. Aiuto avviamento laboratori di falegnameria e sartoria
- Progetto 2010: costruzione di bagni e docce
- Costi fino a oggi: euro 22 mila