La rivoluzione dell’acqua
Fa da sfondo un servizio che diventa sempre più inadeguato, se è vero, come svela il Dossier acqua 2010 di Solidarietà e cooperazione Cispi, che un italiano su tre non avrebbe accesso regolare e sufficiente all’acqua potabile, mentre in media il 27 per cento della risorsa si disperde a causa della cattiva manutenzione della rete idrica. Il decreto Ronchi ha fatto da detonatore e sono riapparse nel dibattito pubblico parole desuete come «indignazione» e «bene comune», portando prepotentemente i temi dell’acqua all’attenzione della politica. «L’acqua è un diritto di ogni essere umano al pari dell’aria – spiega Rosario Lembo, presidente del Forum italiano dei movimenti dell’acqua – senza di essa è impossibile la vita. Non è una merce su cui si può speculare. Per questo deve uscire dalla sfera del mercato e deve essere gestita dal pubblico, sostenuta dalla fiscalità generale, messa a disposizione di tutti a un prezzo ragionevole».
Su tutt’altro pianeta i sostenitori del decreto, secondo i quali la nuova legge è una svolta positiva che porta l’Italia al passo con l’Europa, un’occasione per rendere il servizio più efficiente, trasparente e di migliore qualità, sottratto all’uso clientelare della politica.
Si tratta di due visioni antitetiche: da una parte la gestione intesa come servizio pubblico senza fini di lucro per garantire un diritto, dall’altra un’attività industriale soggetta alle leggi del mercato.
Le tappe della privatizzazione
Ma come funziona la gestione dell’acqua in Italia? Prima del 1994, su tutta la penisola si contavano circa 13 mila gestori. La legge Galli (n. 36/1994) riorganizza il sistema in grandi comprensori, chiamati Ato, Ambiti territoriali ottimali (oggi sono 92), e obbliga ogni Ato a farsi carico non solo dell’erogazione del servizio ma di tutto il ciclo dell’acqua, dalla captazione alla depurazione. Ogni Ato deve avere un gestore unico. È con questa legge che cominciano a penetrare nel nostro sistema elementi della logica industriale: il più importante di tutti è che la gestione dell’acqua esce dalla fiscalità generale e si sposta a carico dell’utente tramite la tariffa. D’ora in poi da essa dipenderanno anche gli investimenti e la manutenzione.
L’altro importante passo verso la privatizzazione è contenuto nella finanziaria del governo D’Alema (2000): uniche forme societarie possibili per l’affidamento del servizio pubblico integrato sono le società per azioni (Spa) sia pubbliche che private che miste, cioè aziende che fanno profitto e che devono remunerare gli azionisti. Da quel momento anche le aziende municipalizzate, che gestivano il servizio senza scopo di lucro, diventano Spa.
Nel 2008 l’articolo 23 bis della legge 133 obbliga gli enti locali a ricorrere a gare per l’affidamento dei servizi pubblici, aprendo tali gare a società di capitali «comunque costituite», quindi anche private. La gara era prevista in due casi, quando si trattava di società private o per scegliere il partner privato di una società mista; se invece si trattava di società pubblica l’affidamento era diretto (in house), cioè senza gara, come se il gestore dell’acqua fosse un ufficio della pubblica amministrazione.
Il decreto Ronchi (o meglio l’art. 15 del decreto 135/09) fa un passo ulteriore, obbligando i Comuni a far concorrere alla gara tutti i soggetti, anche quelli pubblici, a partire dal 2011.
Le gestioni in house (cioè affidate a Spa pubbliche senza gara) si potranno mantenere a patto che le aziende pubbliche cedano a privati quote azionarie non inferiori al 40 per cento; nel caso la società sia quotata in Borsa, la proprietà pubblica deve scendere al di sotto del 30 per cento. L’altro caso, alquanto fumoso, per mantenere la gestione in house si verifica quando il Comune dimostra che la gara non porterebbe vantaggi.
Due visioni a confronto
È la miccia che accende il dibattito, che stavolta non è tra i due maggiori schieramenti politici, ma tra due sensibilità bipartisan presenti sia tra coloro che appoggiano la gestione privata sia tra i sostenitori dei movimenti dell’acqua. La prima divisione sta sull’interpretazione del decreto Ronchi: per i primi è una possibilità, alternativa e più efficiente, di gestione; per i secondi la porta d’accesso all’assalto dei privati all’acqua italiana. Per Antonio Massarutto, docente di Economia pubblica all’università di Udine, questa legge non è un obbligo di privatizzazione: «Il decreto modifica unicamente le procedure per l’affidamento della gestione: prima solo i privati passavano al vaglio della gara ora anche le aziende pubbliche. Però è sempre l’autorità pubblica a definire le regole e alla fine a scegliere il vincitore. Da cittadino io credo che anche le virtù del pubblico vadano dimostrate con i fatti. Poi è vero che la legge prevede per i comuni che vogliono evitare le gare alcune scappatoie tra cui quella di cedere quote del capitale, ma questo non è un obbligo: si può sempre scegliere la gara e in questo caso le buone aziende pubbliche non dovrebbero temere nulla». Per i movimenti dell’acqua la cessione a terzi del servizio tramite gara è già di per sé perdita di autonomia: «Se dal primo gennaio – esemplifica Lembo – qualcuno ci obbligasse come proprietari di casa a indire una gara d’appalto per ogni lavoro che vogliamo fare, tipo ritinteggiare i muri, o se non vogliamo fare la gara, a cedere il 40 per cento della proprietà, la casa sarebbe ancora nostra? Non è questa privatizzazione? Nel caso dell’acqua, se lo Stato ha la proprietà del bene e la sua tutela, a lui dovrebbe spettare il compito di gestire l’acqua secondo i principi di precauzione e salvaguardia, in una logica di solidarietà e condivisione con le future generazioni. Se la gestione viene affidata a un terzo, in concessione o in appalto, il gestore a differenza del proprietario ha convenienza a erogare e vendere più acqua possibile per poter guadagnare di più. E ciò è incompatibile con la salvaguardia di una risorsa preziosissima e sempre più scarsa e inquinata, che diventerà per questo il grande affare del futuro».
Altra divisione insanabile è sul carattere industriale della gestione dell’acqua.
«Le scelte tecnologiche e impiantistiche – spiega Massarutto – devono essere fatte con una mentalità imprenditoriale, perché oggi gestire un servizio idrico significa garantire livelli qualitativi molto elevati che richiedono tecnologie e professionalità che vanno comprati su un mercato sempre più globalizzato e sono raramente disponibili a livello locale». Replica Lembo: «Il concetto di approccio industriale dell’acqua è perfettamente compatibile con una gestione pubblica. Negli Stati Uniti, patria del libero mercato, ancor oggi l’80 per cento della gestione dell’acqua potabile è assicurata dai gestori pubblici. Anche nel nostro Paese, come avviene nella maggior parte dei Paesi europei, oltre il 50 per cento degli acquedotti è in mano alle vecchie aziende municipalizzate ora diventate Spa. In molti casi si tratta di gestioni efficienti, con tariffe più basse rispetto ai gestori privati e con buoni livelli di investimento».
Le tariffe sono infatti l’altro nodo del contendere: «È scorretto dire – controbatte Massarutto – che siccome il privato deve fare profitti aumenterà le tariffe senza controllo, speculando su un bene che è pubblico. È giusto far sapere che le tariffe aumentano perché il servizio dell’acqua non è più a carico della fiscalità generale ma degli utenti, e aumenteranno chiunque sia il gestore».
Ma le tariffe, secondo Lembo, sono già più alte dove c’è il gestore privato e il servizio è peggiorato: «Uno studio sulle perdite fatto da Mediobanca evidenzia che là dove le gestioni sono private le perdite sono molto più alte: per esempio le società private che gestiscono il servizio idrico in Emilia Romagna (Hera) e Roma (Acea) hanno perdite rispettivamente del 25 per cento e del 35,4 per cento contro il 18 per cento e il 10,3 per cento delle società pubbliche che gestiscono rispettivamente la Provincia di Milano (Amiacque) e Milano stessa (Metropolitana Milanese)». Il problema dei finanziamenti riguarda tutto il sistema idrico italiano: secondo i piani degli Ato del nostro Paese, occorrono almeno 60 miliardi di euro: una cifra mastodontica.
«La gestione pubblica – afferma Lembo – potrebbe essere ancora più efficiente se fosse accompagnata da una politica di investimenti pubblici da parte dello Stato o delle Regioni. Attualmente essi sono fatti solo tramite la tariffa di erogazione dell’acqua». Il problema, cioè, starebbe sul disimpegno pubblico e sulla gestione tariffaria, e quindi privatistica, del bene-acqua.
La visione di Massarutto anche in questo caso è opposta: «Da almeno vent’anni non si investe un centesimo, mentre incalzano le direttive europee e le infrastrutture cadono a pezzi. Il modello del finanziamento pubblico attraverso la pianificazione ha fatto il suo tempo: non solo la fiscalità generale non se lo può permettere, ma l’esperienza dimostra che spesso i soldi sono stati spesi male, privilegiando ragioni politiche e clientelari piuttosto che di efficienza. Servono tanti soldi e servono anche aziende capaci di trovarli sul mercato finanziario e spenderli in modo oculato. Gli investimenti idrici durano anche cinquant’anni e chi finanzia ha bisogno di certezze e non di fumosi impegni politici».
Le proposte in campo
Quali allora le proposte concrete per garantire ai cittadini un servizio di buona qualità, a un prezzo equo che salvaguardi la risorsa e il suo valore di bene comune? Anche qui le risposte divergono.
Per Massarutto il problema serio non sta tanto nella gestione pubblica o privata quanto nella debolezza della regolazione che si riscontra anche nel decreto Ronchi: «Il legislatore punta tutto sulla gara e sui contratti che ne derivano mostrando di ignorare che gli affidamenti richiedono tempi molto lunghi, di decenni, e che quindi le condizioni e le tariffe sono soggetti a continui aggiustamenti. Occorre quindi un arbitro e un buon sistema di regolazione che garantiscano il controllo pubblico e un buon rapporto qualità/prezzo del servizio. Se le regole sono buone e il regolatore sa fare il suo mestiere anche il privato opererà bene, se sono cattive e l’arbitro è inesistente anche le aziende pubbliche possono agire male».
Per i movimenti dell’acqua la questione dell’arbitro non risolve il problema: «Esperienze di authority a livello europeo hanno dimostrato che anche gli arbitri “indipendenti” possono essere fuorviati dalle informazioni dei gestori. Per noi l’unica via di uscita è ripubblicizzare la gestione dell’acqua, metterla in mano com’era una volta, a enti di diritto pubblico, e non più a società per azioni pubbliche o private che siano e, in ultima istanza, togliere la risorsa dalla sfera della finanza speculativa. Non ha senso che un tubo si rompa a Roma e il call center della società di gestione risponda da Parigi o da Londra. Neppure il sindaco che dura in carica per cinque anni potrebbe molto di fronte a un contratto trentennale».
Al di là delle opinioni e delle recriminazioni, l’aspro scontro sull’acqua in corso è il risultato della mancanza di dibattito pubblico sul processo di privatizzazione avvenuto negli ultimi quindici anni in Italia. Una frattura culminata nel 2007 con la presentazione di una legge di iniziativa popolare per la ripubblicizzazione del servizio idrico, presentata dal Forum dei movimenti dell’acqua e completamente ignorata dalla politica. Indifferenza che ha allarmato l’opinione pubblica: «L’acqua ha una forte valenza simbolica – spiega Emanuele Fantini, dottore di ricerca in Scienza politica dell’università di Torino –, è diventata nella percezione degli italiani una specie di “ultima trincea” per la difesa di valori che sono insieme universali come il diritto all’acqua per tutta l’umanità e nello stesso tempo locali come la salvaguardia del proprio territorio. A mio avviso la grande mobilitazione pubblica contro la privatizzazione dell’acqua è una protesta paradigmatica attraverso cui i cittadini manifestano senso di smarrimento, impotenza e sofferenza di fronte al timore di una globalizzazione che avanza senza regole e di una politica che decide senza ascoltarli. La principale sfida in Italia, ma anche nel resto del mondo, consiste nel trovare il giusto equilibrio tra democrazia e tecnocrazia, cioè tra un servizio idrico che è sentito come legittimo dalle persone e l’esigenza di una gestione tecnica sempre più complessa, difficile da spiegare alle masse».
1° settembre 2010
Giornata per la salvaguardia del Creato
Il primo settembre ricorre la quinta Giornata per la salvaguardia del Creato. Nelle varie diocesi italiane ci saranno momenti di riflessione, dibattiti e iniziative, legati al tema di quest’anno: «Custodire il creato, per coltivare la pace». In molti tratteranno proprio il tema dell’acqua. Ecco un brano estratto dal messaggio del Papa per la giornata che fa diretto riferimento all’acqua:
«Benedetto XVI ha segnalato più volte quanti ostacoli incontrino oggi i poveri per accedere alle risorse ambientali, comprese quelle fondamentali come l’acqua, il cibo e le fonti energetiche. Spesso, infatti, l’ambiente viene sottoposto a uno sfruttamento così intenso da determinare situazioni di forte degrado, che minacciano l’abitabilità della Terra per la generazione presente e ancor più per quelle future. Questioni di apparente portata locale si rivelano connesse con dinamiche più ampie, quali per esempio il mutamento climatico, capaci di incidere sulla qualità della vita e sulla salute anche nei contesti più lontani».