13 giugno. Quei bambini nell'isola dei dimenticati

Sono sessanta, hanno dai 2 ai 14 anni, abitano da soli o insieme con un parente in uno dei luoghi più emarginati della terra: il lebbrosario di Van Mon, Vietnam del Nord. Per loro quest’anno batte il cuore della nostra solidarietà in nome di Antonio.
25 Maggio 2011 | di

La solidarietà di sant’Antonio, questo 13 giugno, raggiunge il Vietnam e in particolare un luogo, l’antico lebbrosario di Van Mon a Thai Binh, un villaggio a 250 chilometri da Hanoi, nel Vietnam del Nord, dove novecento persone, quasi tutti ex malati di lebbra, vivono in estrema povertà ed emarginazione, afflitti da gravi menomazioni. Con loro ci sono circa sessanta bambini, dai 2 ai 14 anni, figli e nipoti di lebbrosi, ancora sani ma condannati a non avere futuro. La lebbra oggi è una malattia curabile, eppure in molti Paesi asiatici e africani permane uno stigma duro a morire, che condanna le persone a un anacronistico isolamento e a una povertà assoluta, che ricade sui bambini. Per spezzare questo circuito perverso, i frati di sant’Antonio, da alcuni anni, sono presenti per lunghi periodi a Van Mon, guidati da padre Martin Mai, un frate vietnamita che a questa missione sta dedicando la vita.
È sua l’idea di un progetto che migliori le condizioni dei pazienti ma che soprattutto tolga dalla spirale dell’emarginazione i bambini. Per questo ha chiamato in aiuto padre Giorgio Abram, suo confratello, missionario in Ghana, vera autorità internazionale in fatto di lebbra, perché in trent’anni ha sconfitto il morbo nell’intero Paese africano, riuscendo a reinserire nei villaggi gli ex malati ed evitando le conseguenze peggiori della malattia.
È proprio padre Abram a raccontarci la vita a Van Mon e a spiegarci le motivazioni di un progetto difficile, ma che può cambiare il destino di molti bambini.
 
 
Dal racconto di padre Abram

Pellegrino tra due mondi
«Chiudo gli occhi e penso al Vietnam, al Vietnam che ho visto io. Mi sovvengono due concetti: il “fuori” e il “dentro”. “Fuori” è il caos di Hanoi, con le sue vie brulicanti di volti e i suoi milioni di motorini che si guadagnano la strada a clacson spiegato. Il “dentro” è un luogo fuori dal tempo e dallo spazio, circondato da due cinta di mura, dove domina incontrastato il silenzio e il ronzio degli insetti. “Fuori” è il verde acceso delle risaie, la vita operosa dei poveri villaggi, “dentro” è il tempo che passa senza storia, l’immobilità dei corpi consumati dalla lebbra. Sono passato attraverso questi due mondi in un pugno di ore, e sono rimasto segnato, credo per sempre.
Mi hanno chiamato in Viet­nam i miei confratelli per un progetto a favore dei malati di lebbra a Thai Binh, dove, passato un braccio di fiume – barriera naturale con il resto del mondo –, c’è la colonia di Van Mon, un vecchio lebbrosario che ancora ospita novecento malati. “Vieni – mi hanno detto – ci serve la tua esperienza”. E sono andato in buona fede, credendo di sapere. Alle spalle avevo trenta lunghi anni di lotta alla lebbra in Ghana, dove ero giunto per primo da giovane missionario. Conoscevo il nemico, l’avevo guardato negli occhi più volte, quando ancora non era curabile.

Per la gente era un fato, una maledizione, la colpa dei padri che ricadeva sulla discendenza. Credevano che un corpo sfigurato, ferito e mutilato fosse l’involucro di un’anima nera. Un tabù che segnava una vita per sempre. L’ammalato si isolava, si abbandonava alla sua malattia, diventava cinico e aggressivo. E io di fronte a lui combattevo tra il mio sconcerto e il suo dolore. “San Francesco di fronte al lebbroso – mi dicevo – forse ha provato ciò che sto provando io”. Non è facile abbracciare il povero e l’ammalato, non è facile superare i propri fantasmi e le proprie paure, scorgere l’immagine e la somiglianza di Dio, oltre ciò che si vede. Poi è arrivata la cura, quella vera, che fa scomparire la malattia e previene le mutilazioni, ma a che serve se sei un maledetto? Ci sono voluti tanti anni di accompagnamento per far diventare la lebbra una malattia come tutte le altre. Una malattia per giunta curabile a domicilio, senza reparti e ghetti, vivendo in mezzo agli altri.

Ora, di fronte alle due muraglie di Van Mon, tutto il mio vissuto diventava nulla, come se il tempo non fosse mai passato. Nell’atmosfera immobile, i varchi al lebbrosario erano senza cancelli, ma nessuno osava entrare né uscire. Ero nel limite dell’isola grigia che separa i malati dai sani come se fosse un girone dantesco. Il “dentro” lontanissimo dal “fuori”. Ho stracciato le carte dei miei progetti pensati a tavolino, e sono entrato a Van Mon come un neofita.
Mi ha accolto un direttore gentile ma guardingo. Io prete, lui ateo, ufficiale di un governo comunista. Una storia più grande di noi ci pesava addosso: decenni di diffidenze verso ogni fede. Mi aspettavo un “che vuoi da me prete?”. E, invece, dopo tanto discorrere insieme, l’ateo mi disse: “La religione e i volontari sono importanti per la mia gente, in fondo di anima e di corpo siamo fatti”. Venivamo da mondi diversissimi, eppure una pietas comune ci trascendeva».
 
I vecchi e i bambini
«A Van Mon c’è un medico e il governo passa una somma di circa 9 dollari al mese per ogni ospite. Non è facile assicurare, con queste risorse, adeguato cibo e assistenza. Ma ciò che fa più male è l’abbandono affettivo, la sensazione tremenda di essere all’ultimo posto nel mondo.
Bop aspetta una visita di suo fratello da decenni. L’hanno messo qui dentro a 9 anni e da allora ha visto la sua famiglia una sola volta. Ora di anni ne ha 70, la lebbra l’ha sfigurato, l’ha reso cieco e storpio. Aspetta l’altra vita per rivedere il sole. Un’anziana minuta, gli arti consunti, sta sdraiata sulla stuoia: “Su questo giaciglio è morta la mia unica amica. Spero che il Signore venga a prendere anche me”. Delle camerate piene di letti e di corpi sfigurati, mi consola solo il senso di dignità che sprigiona dalle poche cose ordinate con cura. Ogni letto è come una piccola casa, per alcuni quasi un nido, una culla, dove si sta tutto il giorno rannicchiati a immaginare il verde delle risaie fuori dalle due muraglie. Mi accorgo – ne ho ormai l’esperienza – che nessuno di loro è ancora malato. Sono tutti, come si dice in gergo, “casi bruciati”, la malattia è passata, lasciando le devastazioni e le gravi disabilità. Non è quindi la lebbra che bisogna curare, ma le sue conseguenze nell’anima e nel corpo.

Ma ciò che più mi spiazza sono i bambini. Li vedi girare in questo luogo da vecchi, naufraghi in quest’isola grigia. Sono circa sessanta, in apparenza tutti sani, hanno dai 2 ai 14 anni, sono i figli, ma molto più spesso i nipoti degli ammalati, abbandonati dai genitori andati lontano in cerca di lavoro. D’altronde qui nessuno segnato dalla lebbra potrebbe mai avere un futuro. Non esiste una medicina efficace contro il pregiudizio. Tra tutti mi attira una bimba, Vivian, di circa 10 anni, l’unica sfigurata in volto, la pelle raggrinzita. Mi dicono che non è lebbra ma probabilmente una malattia causata dall’agente Orange, un diserbante usato dagli americani per stanare i nemici durante la guerra. La madre, una malata di lebbra, l’ha abbandonata qui insieme con suo fratello gemello, che ha lo stesso male.

E lei nel suo buio affettivo ha trovato un amico, forse un surrogato di padre. È un uomo taciturno e solo, dallo sguardo tristissimo, accartocciato dalla lebbra e dagli anni. Lo chiamano Bangkok quasi per scherno, perché viene dalla Thailandia ed è straniero. “Un giorno – mi racconta un mio confratello, Joseph, che viene spesso qui in missione – la piccola Vivian era irrequieta e dava fastidio a tutti. Con lei in braccio mi sono seduto vicino a Bangkok. Lui è rimasto impassibile, come sempre. Ma ho notato uno sprazzo di luce nei suoi occhi nerissimi. O forse mi è solo sembrato. Da quel giorno, quando Vivian gli si avvicina, la guarda a lungo e la prende per mano. Stanno così per molto tempo, senza parlare”. Vivian si calma e Bangkok ora ha un piccolo spazio verde nel grigio di Van Mon.
Osservo Vivian, comprendo quante storie spezzate ci siano qui dentro. Quante famiglie sgretolate. Quanti affetti distrutti e persi. Mi chiedo che cosa possiamo fare noi frati per loro, per tutti loro. Occorrono maggiori risorse materiali e sanitarie. Certamente. Ma occorre soprattutto un ponte tra il “dentro” e il “fuori”, una realtà che riapra gli orizzonti e riporti il verde delle risaie vietnamite nel cuore grigio di Van Mon.
Io e l’ateo ci guardiamo negli occhi: vogliamo entrambi la stessa cosa».
 
 
Zoom
La lebbra
Un tempo considerata una maledizione divina, oggi la lebbra è curabile ma causa ancora una forte emarginazione sociale dovuta alle pesanti menomazioni che essa procura negli stadi più avanzati. Si tratta di una malattia della povertà, ha un periodo d’incubazione dai cinque ai vent’anni ed è provocata da un bacillo, il Mycobacterium leprae, isolato nel 1873 da Gerhard Armauer Hansen.

Da allora la malattia è anche detta morbo di Hansen. Essa non causa la morte del malato ma distrugge i nervi e provoca una progressiva insensibilità agli arti che vanno così soggetti a continue ferite e successive mutilazioni. Dagli anni ‘80 esiste una cura efficace, ma il retaggio di secoli di emarginazione è duro a morire e continua a provocare isolamento e povertà assoluta in chi contrae il morbo e in tutta la sua famiglia. Oggi nel mondo si stima che più di 6 milioni di persone soffrano per le conseguenze fisiche e sociali della lebbra.
(Fonte Aifo)
 
 
Il progetto della Caritas Antoniana

Il «ponte» di cui parla padre Abram è un sogno disegnato sulla carta. Un progetto scritto a più mani, che coinvolge anche il direttore del carcere e padre Martin Mai, il frate vietnamita nostro referente a Van Mon. Si tratta di un edificio a due piani, che sarà costruito su un terreno a ridosso della colonia. In esso si raggrupperanno più funzioni sanitarie e sociali.
Dal punto di vista sanitario non si tratterà solo di un presidio per la prevenzione e la cura della lebbra, ma di un centro medico aperto a tutti i villaggi vicini, per facilitare l’accesso alla sanità di base, oggi assai lacunoso in quel territorio. È previsto anche un ambulatorio ortopedico per la riabilitazione e la costruzione delle protesi, in modo da consentire ai malati più gravi di recuperare le abilità residue. Altra attività importante sarà quella di avviare corsi di formazione per infermieri, per renderli in grado di diagnosticare la lebbra e di curarla a domicilio in tutti i villaggi del distretto, in modo da eliminare alle radici le cause della ghettizzazione.

Fondamentale sarà anche l’aspetto sociale: una parte dell’edificio sarà adibita all’accoglienza dei bambini della colonia, in modo da toglierli dallo squallore della quotidianità a Van Mon. Per loro saranno organizzate attività ricrea­tive e di rinforzo alla scuola.
Infine, un’altra parte del grande edificio diventerà il primo nucleo stabile della presenza dei frati di sant’Antonio a Van Mon. Qui verranno i frati semi­naristi a prestare il loro servizio agli ultimi, proprio nel periodo in cui si preparano a diventare frati per sempre. Un po’ come faceva san Francesco circa otto se­coli fa.
Le tante attività e interessi aiuteranno ad abbattere lo stigma e l’emarginazione: le famiglie toccate dalla lebbra non saranno più costrette a emigrare per cercare un destino anonimo in altre zone, e nessun bambino sarà più abbandonato a Van Mon. Ma anche chi, ormai annientato dalla lebbra, non potrà lasciare la colonia, avrà la possibilità di un’assistenza migliore.
Questo sogno costa 250 mila euro: un’altra sfida da affrontare uniti, in nome di sant’Antonio.

Per info e donazioni: www.caritasantoniana.it

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017