Pietre come semi
Pinuccio Sciola ha gli occhi chiari, una testa leonina di capelli bianchi e le stesse mani forti e segnate dei contadini e dei pugili. Quando l’ho visto per la prima volta stava al centro di un parco ed era accomodato con disinvoltura su un dondolo a molla a forma di cavallino dal quale si godeva l’ascolto di uno spettacolo letterario in apparente noncuranza degli sguardi dei curiosi. L’ho rivisto poi molte altre volte, ma sempre mi torna in mente quella prima immagine di libertà infantile in cui lo colsi senza che mi vedesse: resta per me una chiave indispensabile per capire chi è quest’uomo di settant’anni capace di trarre suoni d’acqua dal calcare e di intuire dentro enormi blocchi di basalto un’anima ferrosa fatta di geometrie nascoste. Pinuccio è uno scultore, dicono. Io penso di no. Gli scultori maneggiano materiali inerti, mentre lui agisce come se tutto quello che tocca fosse vivo e gli proponesse dialoghi e relazioni. Nel suo sguardo chiaro è presente la stessa capacità di intuire il celato che è propria degli esorcisti e delle levatrici. Credo dipenda dal fatto che prima di scolpire la pietra Pinuccio era un contadino. Per lavorare la terra ci vuole visionarietà, perché devi credere nei semi e coltivare insieme al solco la speranza che ogni cosa apparentemente piccola possa stupirti, superando la sua apparenza.
Uno sguardo del genere è molto utile anche con le persone e Pinuccio lo sa bene, perché quando aveva diciotto anni qualcuno in quel modo ha guardato anche lui. Non erano anni facili. Chi nasceva nel primo dopoguerra da famiglia numerosa e non abbiente si poteva considerare già fortunato se arrivava a prendere la terza elementare. Pinuccio arrivò sino a lì e poi fece quello che avevano già fatto tutti i suoi fratelli: andò in campagna a lavorare. A differenza loro Pinuccio, però, aveva una passione: ogni volta che il campo gli lasciava un minuto libero si cercava una pietra, la sceglieva con cura, poi la scolpiva. Basalto. Arenaria. Calcare. Tra una vigna e un oliveto quel ragazzo dalle mani grandi scolpiva tutto quello che trovava. A diciotto anni ebbe l’opportunità di recuperare un po’ di studio e si iscrisse alle serali per arrivare alla quinta elementare, senza smettere mai di lavorare la pietra, ogni volta che ne aveva il tempo. Sarebbe vissuto così tutta la vita, Pinuccio, contadino di mestiere e scultore a tempo perso, se la scuola d’arte di Cagliari non avesse indetto un concorso artistico per gli allievi delle scuole elementari. I giudici erano gente seria, presidi e artisti, gente che se ne intendeva. Con i disegni, i gessi e i piccoli pasticci dei bambini delle elementari, si videro arrivare anche un’opera di pietra scolpita con una tale maestria che mai l’avrebbe potuta fare un bimbo. Sbalorditi, andarono al paese di San Sperate a vedere chi fosse lo scultore di diciotto anni che faceva le elementari alle serali e trovarono solo sua madre, perché Pinuccio era in campagna a zappare. Si fecero mostrare tutte le sue sculture e capirono che quel ragazzo aveva un talento. «Ma quando scolpisce suo figlio, signora?» – dicono che abbia chiesto il rettore della facoltà di Architettura –. E lei pare abbia risposto: «Eh, quando scolpisce... scolpisce quando ha tempo dalla campagna!». Il rettore commentò: «Signora, un giorno suo figlio scolpirà tutto il giorno e quando avrà tempo e voglia forse si curerà di un orto».
Quarant’anni dopo è stata una scultura di Pinuccio a essere scelta come prima pietra di costruzione del Parlamento europeo e decine di sue opere sono esposte nei più importanti musei del mondo o nelle piazze delle grandi città. Le collaborazioni con i grandi architetti non si contano più e le pietre sonanti di Pinuccio – pietre vive simili a menhir che, se sfiorate, diffondono suoni di vetro e di ferro, di legno, e persino simili alla voce umana – sono un’attrazione che ha portato la scultura molto oltre il recinto degli appassionati della pietra e delle sue forme. Renzo Piano ne ha messa una enorme nel Parco della musica di Roma e quando ci sono stata per lavoro e l’ho riconosciuta ho sentito come un suono dentro. Un uomo così, nato in un paese dove per definizione non c’è niente, avrebbe avuto l’occasione di vivere altrove con facilità. Invece è rimasto lì. Il mondo lo ha girato in lungo e in largo, le sue opere sono nei luoghi d’arte più prestigiosi, ma già negli anni ’70 Pinuccio ha deciso che San Sperate era il suo catalizzatore e che la sua principale azione artistica sarebbe stata quella di non lasciarlo uguale a come lo aveva trovato. Ha chiamato artisti che dipingessero i muri del paese con i bambini e le bambine. Ha scolpito sassi con i loro padri e fatto fotografare le loro madri dai più grandi maestri dell’obiettivo che conosceva. Ha costruito installazioni di materiali di ogni tipo con i vecchi e le vecchie. Ha aperto una scuola di scultura dove vanno a imparare i giovani talenti di tutto il mondo. Ha battezzato la nascita di un festival multiarte che coinvolge tutto il paese, strada per strada, e riempie di bellezza ogni angolo di San Sperate, chiamando a raccolta artisti di ogni disciplina. Qualcuno di loro si è talmente innamorato di questo modo di stare al mondo insieme che ha scelto di trasferirsi a San Sperate e di viverci e morirci, come ha fatto il grande fotografo di origine argentina Pablo Volta. In quarant’anni di quest’opera Pinuccio ha cambiato il volto della sua comunità fino a farne un laboratorio di artisti che vive in un paese-museo sempre in mutamento, un paese di cui si è accorta anche l’Unesco. L’altra sera, mentre guardavo Pinuccio suonare le pietre nel suo agrumeto, ho pensato che a volte, davvero, basta un solo uomo con una sola vita a disposizione per fare tutta la differenza che serve.