Lo spirito di Assisi nella terra dei talebani

Sono circa seicento uomini e donne, tra religiosi e laici, i francescani che vivono la loro missione nel difficile contesto del Pakistan, segnato da discriminazioni e sofferenze per le minoranze religiose.
27 Giugno 2012 | di

Lo «spirito di Assisi», sinonimo di incontro e accoglienza verso ogni uomo, soffia nel Punjab, cuore pulsante del Pakistan. Prende forma tra le suore francescane nell’ospedale di Rawalpindi, tra i frati che visitano i villaggi rurali, tra i laici che lavorano a fianco dei musulmani – lievito evangelico nella massa – in città come Lahore. Lo «spirito di Assisi» si incarna nella vita di donne, uomini, laici e religiosi che fanno del dialogo e del servizio al prossimo la loro missione, in una testimonianza caratterizzata da umiltà e compassione.

Sono i francescani del Pakistan, una pattuglia di amanti del Poverello che, in una terra dove la vita per i cristiani è segnata da discriminazioni e sofferenze, hanno il coraggio di farsi «strumenti di pace», di portare amore dove c’è odio, di proporre perdono dove c’è offesa, di infondere gioia dove regna tristezza. I francescani nella «terra dei talebani» – sempre più forti in Pakistan, non solo al confine afgano, ma anche nella centralissima provincia del Punjab – sono circa seicento, tra religiosi e laici.

«Un popolo delle beatitudini, che semina pace e speranza», come ama definirli il francescano Sebastian Shaw, vescovo ausiliare di Lahore, la capitale del Punjab, centro economico e culturale del Paese.
Sono gli eredi dei missionari francescani che, fin dal XIII secolo, e poi nella seconda metà del XIX al seguito dei colonizzatori inglesi, portarono nel subcontinente indiano l’annuncio del Vangelo e il colore inconfondibile del saio. Allora il Pakistan non esisteva ancora, era un tutt’uno con l’India, da cui si staccò solo nel 1947, quando l’impero britannico sancì la partizione che diede vita a due Stati indipendenti: uno per gli indù e uno per i musulmani.
 
Al di là delle barriere
Il riferimento ideale per l’atteggiamento dei francescani in Pakistan è l’episodio dell’incontro voluto da san Francesco col sultano d’Egitto Melek el Kamel. In tempi di guerre di religione, il fraticello di Assisi si avventurò senza paura in terra musulmana per predicare il Vangelo. È anche grazie a quel gesto profetico che oggi lo spirito francescano può vivere e fiorire in Pakistan – dove i cristiani sono una esigua minoranza, meno del 3 per cento su circa 200 milioni di abitanti –, perché è un messaggio di fraternità universale, al di là di ogni divisione di casta, etnia, religione e classe sociale. Bella sfida in un Paese che brucia per il radicalismo religioso, per la violenza settaria contro le minoranze cristiane e indù, ma anche contro quelle musulmane di sciiti e ahmadi. Questo stile – che dopo l’incontro internazionale tra leader religiosi organizzato da Giovanni Paolo II nel 1986 è stato definito «lo spirito di Assisi» – è sconvolgente. Ha la forza non violenta, ma proprio per questo dirompente, dell’amore al nemico, è il segno di contraddizione che, in definitiva, la stessa croce di Cristo rappresenta. «I cristiani, in alcune aree del Pakistan, sono in croce.

Sono perseguitati a causa della fede o sono vittime di povertà e discriminazioni. Ma le piaghe di questa sofferenza portano alla vita» spiega il vescovo Shaw, dell’ordine dei frati minori, che ha scelto come motto episcopale la frase «Dio fammi strumento della tua pace». Morte e violenza hanno sferzato i cristiani pakistani nell’ultimo periodo: basta ricordare il caso di Shahbaz Bhatti, il ministro cattolico ucciso un anno fa, o quello di Asia Bibi, la donna ingiustamente condannata a morte per blasfemia. Ma la speranza vive: «Se il chicco di grano non muore non porta frutto», ripete il vescovo.
I frati cappuccini del Punjab, con il loro servizio ai poveri, ne sono testimoni. Come agnelli in mezzo ai lupi, viaggiano senza sosta con l’ardore apostolico di chi, ogni volta, pone la vita nelle mani della provvidenza. Visitano i piccoli villaggi rurali nelle campagne intorno a Lahore, Faislabad, Multan. Povere case di mattoni di argilla, poche famiglie che vivono grazie a un campicello o al possesso di una bufala. Niente luce, rete idrica, fogne. Solo un manipolo di cristiani a tenere viva la fiamma della fede, tra mille difficoltà, sotto lo sguardo torvo di imam locali contagiati dal radicalismo, sotto lo schiaffo di chi li ritiene «inferiori e impuri» perché cristiani, sotto la costante minaccia di false accuse di blasfemia.

Eppure «la nostra missione è il dialogo», racconta padre Francis Nadeem, frate cappuccino che a Lahore ha creato il Consiglio nazionale per il dialogo interreligioso. Con seminari e iniziative varie, ma ancor di più con la semplicità e lo spirito di fraternità, il Consiglio si è guadagnato l’appoggio e la stima di eminenti leader musulmani, come Syed Muhammad Abdul Khabir Azad, imam della «moschea reale» di Lahore, la più grande del Pakistan. L’abbraccio cordiale tra il frate e l’imam è la moderna rivisitazione dell’incontro tra Francesco e il sultano. «Il dialogo islamo-cristiano in Pakistan – spiega padre Nadeem – è intessuto con la vita: sviluppiamo rapporti fraterni, siamo vicini negli eventi felici e in quelli dolorosi, viviamo insieme esperienze di solidarietà, com’è stato per l’aiuto agli alluvionati».
 
L’attività di suore e laici
Nella tragedia delle alluvioni, che per due anni consecutivi hanno colpito le province di Punjab e Sindh, a dare il meglio di sé sono state le suore francescane. Venti milioni di sfollati si sono ritrovati senza casa, senza terra, privi di qualsiasi sostentamento, sommersi dalle acque e dalle lacrime, asciugate con pazienza e misericordia dalle francescane di Cristo Re, dalle religiose del Sacro Cuore di Gesù e dalle terziarie francescane di Lahore. Per aiutare i bisognosi, queste donne coraggiose hanno aperto le loro case agli sfollati, in maggioranza musulmani, o approntato «squadre di emergenza» che si sono spinte fino ai villaggi abbandonati, dove la protezione civile non era arrivata. Le francescane missionarie di Maria non sono state da meno. Proprio loro che, con la forza della testimonianza, hanno segnato la storia del Pakistan: nel 1947, nel corso del primo conflitto tra India e Pakistan, quattordici consorelle furono trucidate nella regione del Kashmir. Oggi, le religiose cercano di «sanare le ferite, fasciare le fratture, richiamare gli smarriti», come disse san Francesco. Così, decine di malati cronici o terminali trovano riparo nell’ospedale San Giuseppe, centro di eccellenza gestito dalle suore a Rawalpindi. Qui, oltre alle piaghe fisiche, tante «ferite spirituali» vengono sanate con il sorriso e un’invidiabile forza d’animo.

La stessa benignità verso il prossimo anima i francescani secolari, le cui fraternità sono attive a Lahore, Karachi, Islamabad. Vivono, con le loro famiglie, seguendo le orme di san Francesco nella società, al lavoro, nella scuola, nei rapporti quotidiani. A caratterizzarne la presenza è l’impegno per la giustizia e la pace, che significa offrire un costante supporto a quanti soffrono discriminazioni, ingiustizie, persecuzioni.
Ospitalità, solidarietà, aiuto concreto: per Innocent Mehboob, il ministro nazionale dell’Ordine francescano secolare (Ofs), l’importante è «stare tra i poveri e i sofferenti, portare un lieto annuncio agli emarginati, spesso anche analfabeti», perché, in definitiva, «evangelizzare è portare un messaggio di amore e testimoniarlo».
 

Zoom

Sant’Antonio e Shahbaz Bhatti

 

Della chiesa di mattoni rossi del villaggio di Kushpur Shahbaz Bhatti, il ministro cattolico delle minoranze religiose ucciso nel marzo del 2011, era un frequentatore assiduo.
E spesso si fermava a pregare nel piazzale antistante, davanti al piccolo santuario dedicato a sant’Antonio di Padova, dove ancora oggi molti fedeli implorano grazie speciali. Shahbaz era nato e cresciuto in quel borgo contadino tra Lahore e Faisalabad, nel centro del Punjab. Kushpur, che significa «villaggio della felicità», porta impressa l’impronta francescana, dato che fu fondato agli inizi del Novecento dai padri cappuccini belgi.

È un’oasi dove i 5 mila abitanti cristiani costituiscono il 99 per cento della popolazione. Qui c’è la casa natale di Bhatti, dove abita ancora suo fratello Skandar. C’è anche la sua tomba, e saranno presto allestiti un museo e un monumento in sua memoria. A Kushpur, in umili case di argilla, vivono le famiglie di agricoltori, che non mancano di gremire ogni sera la chiesa per la recita del rosario, segno di una fede viva e radicata che, grazie anche alla tragica sorte del martire Bhatti, si rafforza nel cuore di giovani, vecchi e bambini.
Il Santo di Padova guarda i piccoli giocare spensierati nel piazzale della chiesa. E, nel mese di giugno, la popolazione di Kushpur omaggia Antonio con la novena che, tradotta in urdu, campeggia ai lati della sua statua. Alla protezione del Santo si affidano il raccolto, la famiglia, il futuro dei figli. Quel futuro che padre Wassem Walter, parroco nella poco distante cittadina di Jhang, cerca di garantire gestendo una scuola elementare che ospita 350 alunni. Tutti appartenenti a famiglie povere, tutti altrimenti destinati al lavoro minorile o alla strada. Tre classi oggi fanno lezione nella chiesa, per carenza di aule. Per questo la Caritas Antoniana sostiene il progetto di costruire tre nuove aule per la scuola di Jhang. Oltre quattrocento famiglie, cristiane e musulmane, ringraziano. Anche perché da queste parti i talebani si stanno facendo strada, e la scuola, cioè la cultura, è l’unica «arma» per combatterne il fondamentalismo.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017