Marco Astorri. Come ho trovato la plastica pulita
Le grandi idee iniziano dai sogni. Solo così si può spiegare come mai due piccoli imprenditori, che non hanno mai fatto studi particolari di chimica né chiesto un euro di finanziamento in banca, siano riusciti, primi al mondo, a creare una plastica completamente biodegradabile in un piccolo stabilimento tra le coltivazioni di barbabietole del bolognese. «Un biopolimero che potenzialmente può sostituire qualsiasi tipo di plastica esistente, dalla bottiglia agli oggetti, ai tessuti» spiega uno di loro, Marco Astorri, mentre guida nelle stradine dell’entroterra di Minerbio, intorno campi a perdita d’occhio e la luce gialla del sole d’ottobre. Ha poco più di 40 anni, tre figli e un telefonino che ribolle di chiamate. Nel 2007 ha fondato, insieme al socio e amico Guy Cicognani, la Bio-on, una start up, come si dice in gergo, cioè un germe di un’impresa che ha tutta l’aria di diventare un nuovo miracolo all’italiana.
Astorri parla con entusiasmo misurato, sa che davanti ha un orizzonte enorme, la possibilità di un mondo liberato dagli effetti nocivi della plastica da petrolio, una rivoluzione, ma sa anche che i passi da fare sono tanti e che la loro impresa è ancora una barchetta fragile in un grande mare.
Lui e Cicognani avevano una partecipazione in una ditta che produceva skipass: «Non si può dire che fossimo degli ecologisti nati (lavoravamo con chip in silicio, quanto di più antiecologico esista), né che il nostro prodotto fosse qualcosa di creativo: ci limitavamo ad assemblare pezzi già esistenti». Mancava insomma la scintilla, qualcosa di unico, innovativo, che aggiungesse «valore» – parola che Astorri usa di continuo – alla loro vocazione imprenditoriale.
E la scintilla arriva quando notano che i loro skipass restano numerosi sul terreno allo sciogliersi della neve. Non solo poco originali, dunque, ma anche dannosi: se nessuno li raccoglie, rimarranno lì per centinaia di anni. Possibile che non esista un materiale con le stesse performance ma capace di biodegradarsi? È un attimo, la strada s’illumina. Decidono di provare la via dei biomateriali, una sfida che cambia la vita. Prelevano la loro quota di denaro dalla vecchia azienda, si chiudono per due mesi in un ufficio davanti a un computer collegato a internet, per studiare, capire. «Il campo era agli albori – racconta Marco Astorri –, per cui le proposte erano poche. Le abbiamo valutate una a una da profani, ma soprattutto da imprenditori che avevano entusiasmo e un po’ di soldi da investire».
Ma quel campo è anche lastricato di errori o di riuscite parziali: «L’esperienza degli altri ci ha fatto capire che cosa dovevamo cercare, così abbiamo stilato una lista: i nostri comandamenti. Per fare la bioplastica non dovevamo usare cibo né solventi organici, non dovevamo inquinare, né provocare alcun tipo di danno all’uomo o all’ambiente, non dovevamo ricorrere agli organismi geneticamente modificati ma soprattutto il prodotto doveva essere biodegradabile dalla natura, a prova di stupidità umana». Ma c’è un ultimo punto, altrettanto importante: «L’innovazione doveva sostituire il maggior numero di plastiche esistenti, non limitarsi a coprire piccole nicchie di mercato». Insomma nessuna scorciatoia. Una lista che diventa un mantra, per tenere il timone sull’obiettivo, per rimotivare e rimotivarsi.
Un batterio insaziabile
Nel giro di un anno la soluzione arriva: un batterio naturale, già scoperto nel 1925, che si ciba di scarti alimentari, è in grado di produrre sotto forma di riserva, di «ciccia» insomma, un polimero, un polidrossialcanoato (PHa) del tutto simile alla plastica. Una scoperta rimasta nel cassetto per quasi cent’anni, sepolta dall’avvento del petrolio e da un’altra scoperta epocale avvenuta vicino a Minerbio, a Ferrara: il polipropilene isotattico, il padre di tutte le plastiche del mondo, sintetizzato negli anni ’50 da Giulio Natta che per questo vinse il Nobel. La storia si ripete ma all’incontrario, a sessant’anni e 20 chilometri di distanza. Una coincidenza che ha dell’incredibile.
Astorri e Cicognani investono in proprio, comprano alcuni brevetti, ma ora occorre passare ai laboratori, alla ricerca. Dove trovare i soldi? «Né dalle banche, né dalla finanza, né da un fondo pubblico o privato – risponde Astorri, stavolta sì, con malcelato orgoglio –. In fatto di soldi Bio-on ha un codice». E snocciola un altro mantra: «Niente debiti, niente crediti, pagare subito i fornitori, assumere a tempo indeterminato, puntare sulle relazioni. Mai fare il passo più lungo della gamba. Non a caso, sono figlio di agricoltori». Ma chi vi ha sostenuto allora? «Una cooperativa – la CoProB – di 7 mila agricoltori, coltivatori di barbabietole e secondi produttori di zucchero in Italia. Gli scarti della loro produzione, la melassa e i sughi, erano un ottimo cibo per il nostro batterio e il loro business comunitario era una garanzia di continuità». La cooperativa, attanagliata da una grave crisi del settore, cercava all’epoca nuovi sbocchi per sopravvivere. Un circuito virtuoso d’intenti e d’interessi. «Solo le persone – chiarisce Astorri – portano avanti le idee. Chi presta denaro ha altri obiettivi: le scadenze e i profitti facili e immediati, quanto di più distante dall’innovazione. Se ti vendi, muori». È tassativo l’imprenditore in questa sua convinzione, inusuale e controcorrente, impopolare pure, in un mondo che vive di finanza. La plastica biodegradabile non sembra più l’unica innovazione di questo germe di futuro nel cuore della provincia italiana.
Astorri ferma la macchina accanto a un piccolo capannone che ospita la start up, a destra il grande zuccherificio della cooperativa, intorno solo campi. Qui a mesi sorgerà il primo stabilimento industriale, che produrrà 10 mila tonnellate di PHa all’anno. Ci investe un odore dolciastro. Il cuore di Bio-on batte qui. Anzi, è al centro del piccolo laboratorio, sotto forma di un contenitore trasparente nel quale ribolle un composto marrone-grigiastro. «È la coltura del nostro batterio» spiega Simone Begotti, anche lui sulla quarantina, occhiali da scienziato e un passato da chimico farmaceutico. È lui il mago del processo fermentativo che porta alla bioplastica e di cui rivela il minimo indispensabile, non con sussiego ma con un certo divertimento e autoironia. Con lui un pugno di periti che non hanno neppure 30 anni. «Il segreto è fare in modo che il microrganismo lì dentro si abbuffi, accumulando al suo interno quanto più PHa possibile così da avere più produzione al minor costo. È una ricerca sempre aperta». Poi passa a spiegarmi la loro creatura e ripete il mantra: non inquina, non è dannosa, non è Ogm, proviene dagli scarti della barbabietola, è riciclabile, è biodegradabile «tra l’altro in poche settimane, meglio del legno». La porta accanto conduce a un capannone colmo di macchinari, grandi contenitori e tubi di collegamento. Un gigante d’acciaio, che alla fine del percorso vomita una polvere bianca, sottile al tatto quasi come la calce: è il polimero estratto dal batterio, il prodotto finale, che Bio-on ha ribattezzato Minerv. Il cerchio si chiude: dall’idea, al laboratorio, al processo industriale.
Manca una tessera: l’applicazione su un prodotto. Gongola Begotti mentre estrae da una scatola, come un mago dal cappello, un oggetto che in apparenza è in policarbonato: è una lampada di Flos, Miss Sissi, presentata, nella versione in bioplastica, al Salone del mobile di Milano lo scorso aprile. Sorride Marco Astorri: «È stata una sfida meravigliosa. Piero Gandini, l’amministratore delegato della Flos, mi chiamò appena sceso dall’aereo: aveva finito di leggere un articolo su di noi pubblicato su “Wired” (la rivista di tecnologia più famosa al mondo) e ora chiedeva una versione in biopolimero di una delle sue lampade più famose». Non è certo la plastica più facile con cui cominciare, un battesimo del fuoco che però apre gli orizzonti. Altre grandi ditte nel campo tecnologico, dell’alimentare e degli accessori da viaggio stanno uscendo sul mercato con i loro prodotti, «ma è troppo presto e non è corretto fare nomi».
La fabbrica chiavi in mano
Risaliamo in macchina, il sole è caldo, quasi accecante. Che cosa farete di tutto questo? «Avevamo due scelte – risponde Astorri –: tenere tutto per noi, creando un grande stabilimento di produzione, o condividere l’innovazione. Ci siamo presto detti che la prima scelta non aveva senso, come avremmo potuto da soli soddisfare un mercato che oggi raggiunge i 300 milioni di tonnellate all’anno? E poi per me il futuro non può più essere high profit (ad alto profitto) ma low profit, cioè arrivare a un profitto più diffuso, con unità produttive che ritornano nei territori.
Per questo abbiamo deciso di vendere licenze, di fare un contratto esclusivo con una multinazionale specializzata in impianti produttivi, la Techint, che costruisca in tutto il mondo fabbriche con le caratteristiche che diciamo noi, che poi a nostra volta consegniamo all’acquirente». Praticamente la fabbrica chiavi in mano, una specie di franchising. Nel 2012 Bio-on ha venduto due licenze in Italia, le prossime saranno in Germania, Svizzera, Francia e Stati Uniti.
Sembra l’opposto della globalizzazione. Ad Astorri brillano gli occhi all’osservazione: «Ci piacerebbe molto che la nostra esperienza diventasse un simbolo di rilocalizzazione, di ritorno delle filiere nei diversi territori. Vede, la nostra bioplastica non è una semplice innovazione è una piattaforma che non ha limiti come lo fu l’invenzione della plastica a suo tempo. Ogni giorno scopriamo qualcosa di nuovo: che si può fare bioplastica con diversi tipi di scarti alimentari, che può essere impiegata nel biomedicale perché non dà rigetto, che fonde a temperature molto più basse rispetto ai polimeri derivati dal petrolio, facendo risparmiare tantissima energia. Ogni territorio potrebbe avere bisogno di una bioplastica particolare a seconda delle colture e delle attività produttive. Se tutto va bene non mi basterà la vita per vedere tutte le ricadute di questa idea».
Astorri riavvolge il filo dei sogni, siamo alla stazione di San Pietro in Casale. Ci salutiamo appena prima che il suo cellulare squilli per l’ennesima volta. L’orologio segna le 13 e 20, il calendario offre l’ultima sorpresa della giornata: oggi è il 4 ottobre, san Francesco, patrono d’Italia e degli ecologisti. Inutile nasconderlo, l’ennesima coincidenza strappa un sorriso.