Ritornare bambini a Van Mon

Chiuso il progetto di giugno 2011 realizzato a Van Mon, in Vietnam: una nuova casa dei frati minori conventuali ospita 60 bambini del lebbrosario e offre servizi sanitari e assistenza ai 900 malati. Intervista a padre Giorgio Abram referente del progetto.
27 Novembre 2012 | di

Qualcosa di nuovo, di bello è nato accanto al lebbrosario di Van Mon a Thai Binh, villaggio a 250 chilometri da Hanoi, nel Nord del Vietnam. Sotto l’albero di Natale sessanta bambini dai 2 ai 14 anni, tutti figli, e più spesso nipoti, di ex lebbrosi troveranno un futuro nuovo. Si è infatti concluso il progetto, lanciato nel giugno del 2011, che mirava ad attenuare l’isolamento dei circa 900 malati, tutti poverissimi e affetti da gravi mutilazioni, e di accogliere in un luogo più sano e più adatto i bambini costretti a vivere nel lebbrosario.

Un edificio a due piani, che ha di fronte una statua del Santo ad altezza naturale, ora sorge accanto alle vecchie mura di quello che è considerato uno dei luoghi più emarginati della terra, l’ultimo baluardo di uno stigma duro a morire. L’edificio, voluto e gestito dai frati minori conventuali vietnamiti, ospita un ambulatorio sanitario, la casa famiglia per i bambini di Van Mon e il primo nucleo della presenza dei frati in questa zona. Referente del progetto è padre Giorgio Abram, minore conventuale ed esperto di lebbra; a lui si deve la sconfitta dell’epidemia in Ghana. Un’esperienza che ha spinto il generale dell’ordine, padre Marco Tasca, e i frati del Vietnam a chiedere il suo aiuto per Van Mon.

Msa. Dopo trent’anni di lotta alla lebbra in Africa, che cosa ha significato trovarsi dall’altro capo del mondo a fare la stessa cosa?
Padre Abram. All’inizio è stato uno smacco. Sono andato a Van Mon avendo a modello ciò che avevo fatto in Africa: un sistema di cura a domicilio per non ghettizzare la persona e convincere la comunità che la lebbra non era una maledizione ma una malattia, per giunta guaribile. Mi sono trovato di fronte un lebbrosario, con novecento persone devastate dal male, circondate da due cinte di mura e due cancelli in ferro. Un brusco ritorno al passato. Ho stracciato i progetti e ho cominciato daccapo.

Ma il Vietnam è ormai un Paese emergente e la lebbra può essere facilmente sconfitta. Come si spiegano tali sacche di arretratezza?
A ogni latitudine lo stigma è duro a morire: ci vogliono generazioni. È stato così anche da noi. Poi ogni cultura ha le sue peculiarità. Incredibilmente, anche nei tempi più bui, le persone lebbrose in Africa erano emarginate dal villaggio ma non ghettizzate. Quella di Van Mon è stata per me un’esperienza del tutto nuova. La malattia se ne era andata, anche se aveva lasciato segni terribili, privando le persone degli arti o della vista, ma lo stigma era ancora intatto. Il lebbrosario era come una nave alla deriva, sospesa nel tempo, piena di persone senza speranza, con l’unica prospettiva della morte.

Come mai la presenza di così tanti bambini in un posto come questo?
Alcuni sono figli di lebbrosi, la maggior parte sono nipoti. Il motivo è che chiunque sia a contatto con la lebbra non trova, a Thai Binh, alcun tipo di lavoro. I genitori poverissimi emigrano e lasciano i piccoli ai nonni, che purtroppo non hanno mezzi per farli vivere in un luogo diverso. Con conseguenze gravissime: se non si spezza in qualche modo il circolo vizioso dell’emarginazione, per questi bambini non c’è futuro. Perciò il fine ultimo del nostro progetto è certamente quello di migliorare la condizione di vita dei bambini e degli ex malati, ma soprattutto quello di creare ponti tra il lebbrosario e i villaggi circostanti. Questo è il motivo, per esempio, per cui nel nostro centro abbiamo istituito un ambulatorio medico aperto a tutti, servizio utilissimo in una zona con scarsi presidi medici, che però abitua le persone al contatto con la real­tà del lebbrosario e le persuade gradualmente a non averne più paura.

Le autorità del posto come hanno accolto il vostro intervento?
Il direttore del lebbrosario, un ufficiale del regime comunista, all’inizio era guardingo. Temeva la nostra ingerenza. Non c’era un problema personale, credo che su di noi pesassero decenni di diffidenza del regime verso ogni fede. Quando ha capito le nostre intenzioni, ci ha aperto le porte con un gesto concreto. Mi ha condotto fuori dalle mura e mi ha mostrato un pezzo di terra, coltivato a risaia, che ci avrebbe donato per il nostro progetto. In quel momento ho immaginato per la prima volta quale poteva essere il nostro intervento. Da allora abbiamo lavorato sempre insieme.

Il progetto è già a regime?
Abbiamo inaugurato l’edificio il 6 settembre scorso, con una grande festa a cui hanno partecipato seicento ospiti del lebbrosario. Da allora due frati si sono trasferiti a Thai Binh per gestire la struttura e accogliere i primi sessanta bambini residenti a Van Mon. Un gruppo di suore locali aiuta questo primo nucleo dei frati a curare e seguire i bambini in tutte le loro necessità fisiche e psicologiche, rinforzando anche il loro rendimento scolastico. Per loro, abituati a vivere nelle camerate affollate e senza servizi del lebbrosario, significa un cambiamento considerevole della qualità di vita. È iniziata anche l’attività di ambulatorio, grazie a due infermieri che stanno intraprendendo il percorso per diventare frati. In futuro, man mano che il progetto si consoliderà, potremo accogliere altri bambini. La nuova casa ospiterà periodicamente i seminaristi dell’ordine, per fare esperienza del servizio agli ultimi, come auspicava san Francesco. E forse, chissà, da qui nasceranno altre cose, progetti, vocazioni…

È già possibile percepire segni di cambiamento anche per Van Mon?
È presto per dirlo, però ho fatto esperienza di alcuni mutamenti, a mio avviso importantissimi. Il direttore, presente anche all’inaugurazione, ci ha tenuto a farmi sapere che il corpo sta bene quando l’anima sta bene. Frase irrituale sulla bocca di un ufficiale comunista e ateo. Ma più importante della frase è ciò che ha fatto: ha smantellato una delle due cinta di mura, tolto i cancelli, abbattuto l’arco con la scritta «lebbrosario» per sostituirlo con un altro su cui c’è scritto: «Ospedale per la lebbra e la dermatologia». Un gesto simbolico che ha trasformato gli ex lebbrosi da «condannati» a «persone malate». Se questa non è conversione…
 
 
Il progetto in breve

Costruzione edificio di due piani per:

– casa famiglia per bambini dell’ex lebbrosario
– ambulatorio medico
– ambulatorio ortopedico
– locali per i frati

Durata:
giugno 2011 - settembre 2012

Costo totale:
euro 250 mila

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017