Da Facebook a faceback ritorno al buon vicinato
Una serie di ritratti fissati a un filo con le pinze da bucato, lungo un muro di mattoni rossi. Facce come panni stesi al sole. Volti di anziani, di giovani e bambini. Occhi chiari e visi rugosi; aperti sorrisi e sguardi enigmatici; espressioni fiere e berretti di lana indossati come corone. Chi fosse passato per via Fondazza – strada nel centro storico di Bologna famosa per essere stata la via del pittore Giorgio Morandi – i primi giorni del febbraio scorso, non poteva fare a meno di domandarsi come mai illustri sconosciuti fossero immortalati come star del cinema. Il titolo della mostra, «I volti di via Fondazza», non lasciava dubbi: gli abitanti di quella via, una come tante a Bologna, con i portici e i palazzi colorati, rivendicavano la loro appartenenza. Con un orgoglio inusitato.
Via Fondazza è la prima social street («strada sociale») d’Italia e forse del Pianeta e i suoi abitanti, ribattezzati «fondazziani», come fossero esseri d’altri mondi, rappresentano «uno dei più interessanti laboratori d’innovazione sociale del momento». A parlare è Luigi Nardacchione, 64 anni, manager di ricerca e sviluppo del settore farmaceutico ora in pensione, amministratore della social street di via Fondazza. È metà marzo, e ci siamo dati appuntamento giusto al centro della strada, al civico 43, in corrispondenza del fruttivendolo Masood, pakistano d’origine, fondazziano entusiasta. Gran parte di quelle foto, appese in strada appena un mese prima, sono state scattate proprio di fronte al suo negozio. Un set fotografico in piena regola proprio accanto alle sue arance. «La social street – continua Luigi – non è un club, non è un’associazione, non è un partito, è un gruppo di persone che vivono nello stesso posto e che hanno scelto di socializzare, di scambiarsi informazioni, favori e competenze, e di fare delle cose insieme». Il buon vicinato, insomma, che risorge a dispetto dell’anonimato delle città moderne. Incredibile e normale al tempo stesso.
Nel vicino parchetto Lavinia Fontana, cuore verde di via Fondazza, stiamo per incontrare gli altri. Federico Bastiani, 36 anni, giornalista, è il fondatore di questa esperienza, nata quasi per caso. «Era settembre dell’anno scorso – racconta –. Vivevo a Bologna da poco, avevo un figlio di 2 anni e non conoscevo nessuno, neppure nel mio palazzo. Mi sono chiesto semplicemente come potevo contattare altre famiglie per far giocare insieme i bambini. Ho creato un gruppo chiuso in Facebook, “Residenti in via Fondazza”, e appeso i volantini in zone strategiche per avvisare dell’iniziativa. Credevo mi rispondessero in tre-quattro: mi è arrivato un diluvio di contatti». Da quel momento via Fondazza esce dalla cronaca di Bologna, rimbalza sui media prima italiani e poi stranieri. Ed esplode il fenomeno social street: quarantacinque a Bologna, poco meno a Milano, poi Roma e poi una pletora di nuove esperienze diffuse su tutto il territorio nazionale. «A oggi le social street italiane sono oltre duecento e 10 mila le persone coinvolte – afferma Saverio Cuoghi, consulente d’azienda, promosso sul campo amministratore della rete nazionale –. Crescono al ritmo di due nuove esperienze al giorno». Da qualche settimana fioccano richieste anche dall’estero, tanto che Federico, per forza di cose, si sta un po’ specializzando: «In due settimane sono nate quattro social street a Lisbona, una a Santiago del Cile, una a Fiume, in Croazia, un’altra vicino a Nelson, in Nuova Zelanda. Non è facile seguire tutto, perché ognuno di noi ha un lavoro, impegni familiari e siamo tutti volontari. Ci è capitata una cosa eccezionale e non ci tiriamo indietro».
Gratis è social
In una social street, chiunque abbia bisogno di un’informazione o abbia qualcosa da mettere in comune scrive nella bacheca virtuale: «Sono qui da poco, qualcuno mi sa indicare un medico?». «Sto per andare in vacanza e ho verdura fresca in frigo: qualcuno la vuole?». «Sono uno studente e ho bisogno di un letto, chi mi può aiutare?». «Attenzione: ci sono truffatori che si presentano come impiegati dell’Enel». Ebbene quei messaggi lanciati via Rete non restano mai senza risposta: «Anzi, – testimonia Luigi – appena scrivi, ti contattano almeno in tre, quasi in tempo reale. Pian piano senti che sei dentro una comunità, che è sempre meno virtuale e sempre più reale. A un certo punto, per regalare la sedia o per prestare il trapano, sei costretto a scendere in strada e a incontrare il vicino. Dopo un po’ scopri che vivi accanto a persone interessanti e che è bello andare a prendere un caffè insieme e magari invitarsi a cena la sera».
Facebook fa da apripista, smorza la diffidenza, abbassa le difese, il resto lo fa la conoscenza diretta. Insomma, con un gioco di parole, potremmo dire: da Facebook a faceback, cioè al ritorno del face to face, il «faccia a faccia». Quei volti in mostra non sono solo un esercizio di buon vicinato, sono il ritorno alla socialità, alla solidarietà, alla gratuità. Partendo dalla Rete. «Dal virtuale al reale, dal reale al virtuoso» chiosa Luigi mal celando la soddisfazione.
«Questa esperienza è eccezionale da più punti di vista – spiega Marina Artusa, sociologa e giornalista argentina che su via Fondazza e sulle social street italiane sta facendo un dottorato di ricerca –. A differenza degli altri esperimenti di aggregazione dal basso, qui il motore dell’esperienza non è un interesse comune o un problema da risolvere, ma il desiderio di socialità, di fare comunità senza alcuno scopo. L’altra eccezionalità riguarda il mezzo: Facebook qui è usato al rovescio. Normalmente serve a mettere in contatto i lontani, qui invece fa entrare in relazione i vicini. Non ha più senso quindi nascondersi dietro altre identità, ci devi mettere la faccia».
Mentre parliamo seduti sulla panchina del parco, tra le grida dei bambini e le corse dei cani, la gente passa e saluta. Si conoscono tutti. Qualcuno si ferma. Social street e social intervista. Ci sta. A prima vista, questa socialità sembra la riscoperta dell’acqua calda, il ritorno al piccolo mondo antico dei nostri nonni. «Ma non è così – irrompe Luigi –, l’abbiamo capito da poco. Un tempo era normale salutarsi, socializzare, scambiarsi aiuto, oggi è come se fossimo tornati indietro ma su una spirale ascendente: siamo arrivati allo stesso punto ma su un livello superiore. La socialità oggi non è scontata, la devi volere, te la devi guadagnare, perché tutto rema contro». La fretta, la solitudine, la diffidenza, i legami spezzati, le case come dormitori, il tempo che è diventato denaro e la convinzione che «se qualcosa è gratis è una fregatura» conclude Marina. Quasi seguendo il filo dei pensieri, Luigi continua: «Inizio a credere che questa sia una rivoluzione. Se ci facciamo caso, ognuno di noi vive solo all’interno del lato economico della vita, come se al di fuori non esistesse altro. La social street rompe questa logica, libera dagli schemi tutte le relazioni».
Ma non c’è il rischio che sia un fuoco di paglia, il classico sogno che svanisce all’alba?
Saverio, dall’alto delle oltre duecento social street italiane, non nasconde le difficoltà: «È importante che ci siano amministratori di social street attivi, responsabili, capaci di sacrificarsi. Meglio se sono un gruppo, come noi. Qualcuno deve tenere le fila, altrimenti l’esperienza si blocca». L’altra cosa importante è «non perdere l’anima»: «Bisogna mantenere la barra dritta sull’obiettivo, che è la socialità – spiega Federico –, altrimenti il rischio è di essere strumentalizzati o di riproporre in modo diverso lo schema economico dominante». Non è importante neppure che tutti partecipino immediatamente: «La situazione è così sclerotizzata – spiega Luigi – che per invertire la rotta ci vogliono tempo e pazienza. In via Fondazza ci sono 850 iscritti, ma solo una cinquantina di essi si mette pienamente in gioco. Eppure, giorno per giorno, man mano che la comunità si crea, la curva degli attivi aumenta».
Un laboratorio a cielo aperto
L’economia non è l’obiettivo, ma non è bandita. «C’è un’economia di ricaduta che è accettabile e auspicabile – continua Luigi –. Per esempio, tornare ai piccoli negozi della via nei quali, mentre ti affettano la mortadella, puoi scambiare due chiacchiere. Magari si compra poco e spesso, perché la merce è un po’ più cara, ma si evitano gli sprechi e ci si guadagna in socialità. Quella che ci piace è l’economia del calzolaio Antonio, che è gentile con tutti ma fa gli sconti solo al vecchio che conosce da sempre, perché sa che con 500 euro al mese è duro vivere». «Potrebbe anche essere – aggiunge Saverio – che nel tempo, da un’esperienza così, nascano occasioni di lavoro: penso, per esempio, al fatto che solo gli abitanti di un quartiere conoscono così bene il territorio da essere in grado di gestirlo al meglio o di coglierne le potenzialità». Ma tutte queste sono ricadute, frutti maturi di una comunità che cresce.
L’esperienza delle social street è ricca di spunti, ma anche di lati ancora poco chiari. Può bastare l’appartenenza a una strada per creare comunità? «E chi lo sa? – ammette candidamente Luigi – . Nelle social street prima viviamo e dopo, se è il caso, teorizziamo. Ripeto, siamo un laboratorio, possiamo anche finire domani. Tuttavia credo che per creare comunità bisogna puntare su ciò che unisce. Per esempio, abbiamo cercato di dare a tutti “la maglia di via Fondazza” nella speranza che tra di noi ognuno dismetta tutte le maglie che possono dividere: quelle di destra e di sinistra, di povero o di ricco, di giovane o di vecchio, di extracomunitario o di locale. In alcune strade d’Italia i ragazzi insegnano agli anziani a usare Facebook, mentre quelli come Masood, il nostro fruttivendolo pakistanfondazziano avvisa delle iniziative tutti quelli che Facebook non ce l’hanno».
Che creare una social street non sia un gioco da ragazzi ora è assolutamente chiaro. Eppure il contachilometri delle nuove social street in Italia e nel mondo continua a girare. Ora chiamano anche dal Brasile e dalla Francia, per capire che cos’è questa novità dei «pittoreschi italiani». Come mai tanto entusiasmo? È l’inconsapevolezza dell’impegno o il bisogno di un orizzonte nuovo?
«Io credo – afferma Marina – che la crisi abbia messo in luce una vulnerabilità collettiva dovuta all’incertezza, alla precarietà. Vulnerabilità che può anche tradursi in stanchezza per un sistema, in pesantezza della solitudine, in bisogno di riconoscersi parte di un tutto e di avere relazioni significative. Il sociologo Zygmunt Bauman nel suo Voglia di comunità afferma che l’identità è un surrogato della comunità, viene dopo. Il bello di quest’esperienza è che io sto vedendo applicate spontaneamente teorie sociologiche correnti, secondo le quali in questa società dei consumi e della globalizzazione l’unica speranza è riscoprire il capitale sociale e investire sul legame di fiducia e solidarietà. Quando, tempo fa, leggevo queste tesi, pensavo: “Sì, magari!” Figuratevi ora che ne ho un esempio vivente giusto di fronte agli occhi».
Le meraviglie di Manuela
Tricase (LE), 20 mila abitanti, un borgo antico e caratteristico, nel lembo estremo del Salento, nel Capo di Leuca. Qui è nata, nell’ottobre scorso, una delle prime social street del Sud Italia, per iniziativa di Manuela Baglivo, tenace e creativa 36enne, esperta di comunicazione nel lavoro e, a quanto pare, anche nella vita.
Msa. Perché, Manuela, hai iniziato questa esperienza?
Baglivo. A volte le scelte sono frutto della propria storia. Io tornavo a Tricase dopo tredici anni di studio e di lavoro, vissuti tra Roma, Bologna e Torino. Tornavo a casa, ma mi sentivo spaesata, non conoscevo più nessuno. I miei coetanei erano in maggioranza fuori e il clima sociale era cambiato. Nei primi tre anni avevo frequentato sempre le stesse persone, sentivo che dovevo fare qualcosa. Poi, per caso, lessi un articolo su via Fondazza: mi sembrò un regalo. Qualche ora dopo avevo aperto il gruppo Facebook «Centro storico Tricase» e appeso un volantino sul portone di casa, proprio nel cuore del Paese.
Convinzione comune è che al Sud ogni via sia una social street, che sia normale per la gente socializzare e aiutarsi. E invece?
E invece no. Ci si saluta magari, ma poi ognuno si rinchiude nella propria casa. Credo sia colpa della crisi, perché nella mia infanzia ricordo lunghi pomeriggi di gruppo passati dalla vicina di mia nonna: noi bambine giocavamo, mentre le donne passavano il tempo a ricamare, a pregare, a scambiarsi confidenze.
È stato facile rompere il ghiaccio?
No, affatto. A novembre e dicembre ancora stentavamo a partire, tanto che mi domandavo se continuare o meno. La diffidenza era grande. La gente mi chiedeva: «Ma tu cosa ci guadagni?». E io continuavo a ripetere: «Niente». Io, però, sono tenace: oggi siamo in 120, la mia casa è un porto di mare e nel centro storico c’è molto fermento. Sento felicità nell’aria.
Secondo te, perché è successo?
La socialità era stata messa da parte, ma in realtà mancava a tutti. Oggi non solo ci si saluta, ma ognuno di noi sa che può contare sui vicini. Dagli incontri al caffè nascono idee e progetti. Per esempio, domenica riprenderemo in mano le scope, come facevamo un tempo, e puliremo il pezzo di strada davanti alle nostre case. Pianteremo fiori nei vasi e il nostro centro storico sarà più bello. La bellezza è energia, non permette a nessuno di abbattersi. Poi, da cosa nasce cosa, e così ultimamente due insegnanti in pensione danno ripetizioni di latino e inglese gratuitamente a un gruppo di ragazzi, due o tre volte alla settimana. Oggi gli anziani vanno su Facebook grazie ai figli o ai nipoti, tutti sono informati di ogni iniziativa.
Che cosa ti ha stupito di più?
Molti che collaborano ai gruppi sono laureati: il loro attivismo, importantissimo per la nostra comune causa, mi fa pensare che, però, c’è poco lavoro. D’altro canto, ho incontrato tanti giovani laureati che sono ritornati nella loro terra e oggi hanno mille idee. Alcune le hanno pure realizzate: c’è chi ha aperto botteghe particolari, chi fa l’interior designer, chi ha fondato una cooperativa agricola.
Qual è il tuo sogno nel cassetto rispetto a questa esperienza?
Vorrei che tutte queste social street entrassero in collegamento reale e insieme trovassero le idee per cambiare il modo di stare insieme, per riattivare qualcosa che non c’è più. Mi piacerebbe che la Puglia andasse in Emilia Romagna, un po’ come fanno i grandi con i congressi, solo che noi lo faremmo per i cittadini. E che magari un poco alla volta riuscissimo a cambiare anche la politica.