Matera, capitale della cultura e della bellezza
«Io qui ci sto bene, non me ne voglio andare, ma con mia madre e mio padre andiamo in vacanza in camper e ho capito che nel mondo c’è un sacco di roba da vedere. Ogni tanto uscirò, ma qui ci voglio vivere». Kevin, dieci anni e un nome straniero sentito nei film, è un ragazzino sveglio dalla parlata piena di congiuntivi e sa già cosa vuole fare nella vita: il materano. L’ho incontrato al quartiere Serra Venerdì, periferia di quella Matera Capitale europea della cultura 2019 che è un guscio di calcare abbagliante, ma anche una città dove la storia è una ruota che ha girato all’inverso rispetto ad altri centri della provincia italiana.
Molte comunità hanno avuto passati gloriosi e poi un declino che le ha lasciate ricche soltanto di lussuose rovine, invece Matera questo percorso lo ha fatto a ritroso, come una vecchia che abbia vissuto sempre povera e abbia ereditato un capitale quando era troppo tardi per crederci. In questa città nessuno è abituato a sentirsi dire «vivi in un posto bellissimo». Ti ascoltano, ti ringraziano, ma lo capisci che non basta un complimento per riscattare la marginalità di un passato ancora troppo vicino, lo stesso di tutti gli sconfitti del Mezzogiorno, ma qui ancora più duro.
Agli inizi del Novecento Matera era definita la vergogna d’Italia per i suoi spaventosi tassi di analfabetismo. I suoi famosi Sassi – oggi patrimonio dell’umanità per l’Unesco – erano grotte dentro alle quali i più poveri vivevano come fiere, in nuclei familiari numerosi e senza servizi igienici. Un verminaio, la definì sconvolto il presidente del consiglio Giuseppe Zanardelli nel famoso discorso tenuto a Potenza a conclusione di un viaggio di due settimane nella Basilicata nel 1902: «Cinque sesti della popolazione materana abitano in tuguri scavati nella nuda roccia, addossati, sovrapposti gli uni agli altri, in cui i contadini non vivono, ma a mo’ di vermi brulicano squallidi, avvolti nella putredine di letame in fermentazione e nella promiscuità innominabile di uomini e bestie».
Un mondo rurale estremo che sembrava fuori dalla storia, come se Cristo – avrebbe scritto quarant’anni dopo Carlo Levi – si fosse davvero fermato a Eboli, lasciando Matera fuori dalla grazia. Pasolini, con l’ironia iconoclasta che lo caratterizzava, Cristo ce lo ha portato davvero a Matera, facendone lo scenario per il suo indimenticabile Vangelo secondo Matteo, ma la verità è che per anni sono stati gli uomini a dimenticarsi della Basilicata, non Dio. Il nome della Lucania non evoca alcun paesaggio nello studente italiano medio che abbia fatto quel tanto di geografia che si impara alla scuola dell’obbligo. Della Sardegna tutti immaginano le spiagge, se dici Toscana appaiono vigneti e capolavori d’arte, e in Romagna sanno tutti che ci sono stabilimenti adriatici e dolci colli coltivati.
La Basilicata invece fatichi anche a ricordarti dov’è, perché ciò che non è immaginato non esiste. Per questo l’attore lucano Rocco Papaleo ha potuto affermare che la Basilicata è come Dio: o ci credi o non ci credi. Negli anni ci hanno creduto in pochi: nonostante abbia vinto l’ambito riconoscimento europeo, tutt’oggi Matera resta l’unico capoluogo di provincia italiano a non essere raggiunto dalla ferrovia e le opportunità del turismo rischiano di svilupparsi deformi, senza alcuna logica di comunità. Fare attività culturale perché sia motore di cambiamento in una terra così è una sfida grande, eppure un gruppo di persone con questa volontà a Matera io le ho incontrate.
Sono gli uomini e le donne di un’associazione chiamata Gigli e Gigliastri e quando ho accettato il loro invito a una rassegna – irresistibilmente titolata Amabili Confini – credevo che sarei andata tra i Sassi, ormai restaurati e resi bed and breakfast chic con il brivido della camera da letto nella roccia. Invece mi hanno portata nelle periferie, in quei rioni popolari nati dopo il 1952 dallo sfollamento delle famiglie che abitavano nelle grotte, e mi hanno fatto conoscere la cosa più interessante che c’è da vedere in questa strana città: i suoi abitanti. Non ero lì per parlare delle mie storie.
Il progetto prevedeva che ascoltassi io le loro e così mi sono trovata davanti bambini e vecchi, donne e uomini, persone di tutte le età alla maggior parte delle quali forse un racconto non l’aveva chiesto mai nessuno. Li hanno scritti soprattutto i ragazzi come Kevin e nelle loro righe c’erano non solo parole autentiche di accoglienza per i migranti, ma una lucidità capace di riconoscere nei propri stessi genitori la paura sociale di chi, povero fino a ieri, dei poveri oggi ha paura. Mettere i propri sogni per iscritto e farli leggere davanti a tutto il rione è stato per quei bambini un atto insieme poetico e politico, una pedagogia al contrario dove la lezione era per i grandi che ascoltavano, per noi lì seduti.
Non eravamo in un bel teatro, ma in una piazza. Le sedie le abbiamo scaricate insieme da un camion. Il cielo prometteva pioggia, ma nessuno è andato via e le parole hanno echeggiato con una forza che nei festival sponsorizzati non si avverte mai. La progettazione culturale, quando è fatta sul serio, non fa eventi, ma costruisce tessuto sociale, relazioni e appartenenze. Vorrei che tutti visitassero Matera ora, non nel 2019, quando forse la troveranno diversa.
Quella città merita un atto di fede fatto prima che il suo miracolo si realizzi, perché la rinascita non verrà dai riconoscimenti del mondo, per quanto preziosi, ma dalle mani di chi quel confine lo abita e pensa che sia amabile già così.