Salvate mio figlio
I figli «so piezz’e core». Per ogni madre. Anche per quelle che appartengono alla più chiusa e impenetrabile delle organizzazioni criminali: la ’ndrangheta. Ne sa qualcosa Roberto Di Bella, presidente del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, che da alcuni anni raccoglie il grido di dolore di queste madri coraggio. Donne che sfidano un silenzio atavico nel tentativo di salvare i figli da una sorte già scritta: la tomba o il carcere. Per questo si rivolgono in segreto a un giudice, la voce rotta dall’emozione: «Sono la madre di Rosario, di anni 15, sono anche la sorella di Alessandro che lei ha giudicato per omicidio negli anni ’90 e che ora si trova all’ergastolo. Sono la sorella di Francesco, condannato per aver picchiato un carabiniere, sorella di Umberto e figlia di Antonio, che sono stati uccisi di recente in un agguato di mafia. Sono venuta qui in occasione del processo penale che si celebrerà oggi nei confronti di mio figlio Rosario per segnalarle la mia forte preoccupazione di madre per la sorte dei miei figli e in particolare di Rosario e di suo fratello più piccolo di anni 13. Loro non sanno che io sono qui da voi, presidente. Temo che possano finire in carcere, o essere ammazzati, come mio padre o mio fratello o come mio suocero». Concetta (i nomi sono inventati) non è qui per tradire né per collaborare con la giustizia. È stanca dei lutti, della galera, di una vita passata col fiato sospeso, in attesa di una notizia fatale. «I miei figli sono ribelli, violenti… – continua il verbale – sono affascinati dalla cultura della ’ndrangheta e attratti dalle armi. Mio figlio Rosario pensa che andare in carcere sia un onore… Non riesco a controllarli più… La prego, mandi i miei figli lontano da Reggio Calabria, vorrei che avessero delle regole forti perché altrimenti non hanno rispetto di nulla... La prego di comprendere quanto sia sofferta la mia decisione che per la prima volta esterno davanti a un giudice». Ci vuole coraggio per essere una madre così. Ci vuole un amore più grande della paura, del senso di vuoto per la separazione dai figli, dello sgomento per la contraddizione insanabile tra il proprio essere madre e i rigidi codici delle ’ndrine (le famiglie malavitose).
Un fenomeno così non si era mai visto prima in Calabria. E invece, da tre anni a questa parte, avviene sempre più spesso, provocando una crepa nella struttura monolitica della ’ndrangheta. Un fenomeno che è figlio di un’intuizione: «Da vent’anni lavoro nel settore della giustizia minorile: sedici di questi li ho passati a Reggio Calabria – racconta Di Bella –. Un’esperienza che mi ha permesso di constatare che oggi, nel 2016, il Tribunale dei minorenni sta giudicando i figli o i fratelli minori di coloro che erano stati processati negli anni ’90 e nei primi anni del 2000».
La malasorte di padre in figlio
La storia, insomma, si ripete identica da decenni, senza che nessuno tenga in debita considerazione che la ’ndrangheta tramanda il suo potere di padre in figlio. Ed è un passaggio del testimone che gronda sangue e ipoteca vite. Dagli anni ’90 a oggi il Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria ha trattato più di 100 provvedimenti per reati associativi di criminalità organizzata. Più di 50 per omicidio e tentato omicidio, tutti perpetrati da minorenni. Oggi, molti di quei ragazzi sono stati uccisi in faide locali o sono sottoposti al regime penitenziario duro del 41 bis; altri ancora sono latitanti o hanno preso le redini della ’ndrina di appartenenza.
Come interrompere questo circuito perverso? «Proprio partendo dai dati – spiega il presidente – abbiamo preso la decisione di cambiare orientamento giurisprudenziale e di censurare il modello educativo mafioso, così come facciamo con i genitori che maltrattano i figli o che sono tossicodipendenti o alcolisti. Interveniamo, quindi, con provvedimenti di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale e, se il caso lo richiede, con l’allontanamento dei minori dalla famiglia». Nei primi tempi la svolta è durissima. C’è chi accusa il Tribunale di deportare i bambini. Sono proprio le madri quelle più agguerrite, ricorrono all’appello, si oppongono aspramente, poi, lentamente, capiscono. Forse si sta realizzando il sogno inconfessabile. I loro figli fuori dalle faide, fuori dall’inferno. In un certo senso hanno un alibi. Qualcun altro agisce al loro posto. Un sollievo.
«Non interveniamo mai solo perché la famiglia è mafiosa – ci tiene a precisare Di Bella –. Lo facciamo unicamente quando il metodo educativo mafioso determina un pregiudizio per l’integrità psicofisica dei ragazzi, nei casi, per esempio, in cui essi vengono coinvolti negli affari illeciti della famiglia o quando commettono una serie di reati che evidenziano una progressione verso il crimine, che non viene ostacolata dai genitori. Altro caso è quando è in corso una faida che mette a rischio l’incolumità del minore». I provvedimenti sono sempre temporanei e decadono con il compimento del diciottesimo anno d’età.
L’impegno concreto per il bene dei ragazzi col tempo trasforma il Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria in una specie di terra di nessuno, dove i nemici di sempre s’incontrano e si parlano, solo sulla base della comune umanità. «Non siamo più considerati un’istituzione nemica – spiega Di Bella –, e questa è una conquista in un contesto in cui il rapporto tra Stato e mafia è altamente conflittuale. Lavoriamo molto anche con le famiglie; siamo sempre franchi e disposti a spiegare che la nostra logica non è mai punitiva. Al centro ci sono sempre e solo i ragazzi, il resto viene dopo».
Ma «il resto» è comunque rivoluzionario: «Alcune madri stanno cominciando a chiederci di farle uscire dal circuito criminale. Vogliono vivere la vita di tutti, libere e serene accanto ai loro figli. Ma noi non siamo un ufficio di collocamento né abbiamo una rete di servizi. Così ci rivolgiamo alle associazioni di volontariato specializzate sul fenomeno mafioso, come Libera o Addiopizzo».
Suona stonata questa eco di solitudine. Ora che la politica ha una via percorribile e può fare qualcosa per questi ragazzi e per queste madri, dov’è? Un tribunale così non può, non deve essere un’isola. «Anche i ragazzi sono seguiti da volontari. Il nostro intento è duplice: il primo è fornire a giovani sfortunati un’adeguata tutela per la crescita psicofisica; il secondo è di offrire loro l’opportunità di sperimentare un’alternativa culturale, sociale, psicologica e, perché no, anche affettiva. In poche parole vorremmo renderli liberi di scegliere il proprio destino». Sembrerà strano, ma è proprio la conoscenza di mondi nuovi il primo deterrente: «Nei contesti angusti e chiusi dei piccoli paesi del reggino come San Luca, Bovalino, Platì, un’alternativa alla ’ndrangheta non si contempla, perché non si sa neppure che esista. La ’ndrangheta è habitus psicologico, tradizione familiare».
Il confronto tra i due codici e le due culture può essere dirompente: «Crea spaccature all’interno delle stesse famiglie, per esempio tra un marito in carcere e una moglie che è fuori, toccando corde intime e provocando lacerazioni in un tessuto che sembra impermeabile. È un dato su cui bisognerà riflettere. Una riflessione che non può essere lasciata solo sulle spalle di un Tribunale dei minorenni, con un organico ridottissimo in uno dei territori a più elevata densità criminale d’Italia».
L’esperienza di questi tre anni sta dando buoni frutti, ma è ancora a un livello sperimentale e in gran parte volontaristico: «Avremmo invece bisogno di reti di supporto ai provvedimenti – spiega Di Bella –, cioè équipe di operatori, assistenti sociali, educatori, psicologi adeguatamente formati, esperti del fenomeno mafioso, che studino la storia del ragazzo e siano in grado di accompagnarlo giorno per giorno, dal momento difficilissimo dell’allontanamento fino al raggiungimento dell’autonomia esistenziale e lavorativa. Il lavoro è complesso, non ci si può improvvisare». Insomma, occorrono persone e investimenti. Ma il modello c’è già: «Sulla scia della nostra esperienza abbiamo presentato un progetto al Ministero, che si chiama, non a caso, “Liberi di scegliere”. È chiaro che l’appoggio al progetto sarebbe un grande passo avanti per il nostro lavoro».
Eppure, nonostante le difficoltà, l’ultima minaccia a questa iniziativa, secondo Di Bella, non viene dalla ’ndrangheta: «La riforma del Processo civile prevede ora l’accorpamento dei tribunali per i minorenni a quelli ordinari. Ma se il nostro tribunale non sarà più riconoscibile in modo autonomo, una madre di ’ndrangheta sarà ancora disposta a rivolgersi a un giudice? La spending review non andrebbe mai fatta sulla pelle dei minori. Loro sono la nostra speranza di cambiamento e il nostro futuro».
LO PSICOLOGO
Liberare le menti
31 anni, psicologo, esperto in psichismo mafioso, volontario di Addiopizzo Messina, Enrico Interdonato è proprio il tipo di operatore che ti immagineresti accanto ai ragazzi di ‘ndrangheta. Non a caso offre il suo lavoro volontario a servizio del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria. «I ragazzi di ’ndrangheta sono adulti in miniatura. Lo vedi da come si vestono e persino dal taglio di capelli. Sono intrisi di cultura mafiosa, che assimilano tramite i legami affettivi. La ’ndrangheta è l’unica associazione criminale in cui la famiglia biologica coincide perfettamente con quella criminale. Quindi l’appartenenza per loro è una coerenza, non è una devianza, come invece succede in tutte le altre forme di criminalità minorile». Mentre parla, si capisce che la conoscenza profonda della ‘ndrangheta è il primo ingrediente del buon operatore: «Nei loro paesi di 3 mila abitanti, come Rosarno o San Luca, sono i “principi ereditari”, alla William d’Inghilterra. Sono le élite della criminalità e dei coetanei, non sono dei disadattati. Su di loro la ‘ndrangheta ha un grande magnetismo: offre potere senza la fatica dello studio e il sacrificio del rispetto delle regole richiesto a tutti gli altri ragazzini. L’appartenenza per loro è un dovere e un privilegio».
Msa. Non dev’essere facile allontanarli dalla mentalità mafiosa. Qual è il punto debole?
Interdonato. Sotto l’orgoglio dell’appartenenza c’è un’adolescenza negata. La ‘ndrangheta è rigida, chiusa, soffoca ogni tipo di libertà. L’identità non matura, si cristallizza in una rigida coerenza. Loro non sanno chi sono veramente. Sono chiamati senza appello a fare schiera, a servire interessi che non li riguardano, facendo a meno del loro mondo interiore. Sono condannati all’anaffettività per non tradire e non tradirsi. Si regala loro il Rolex ma non si fa loro una carezza. Al fondo, però, sono ragazzi come gli altri. Che succede se scopri di poter essere ciò che veramente vuoi e non uno dal destino segnato?
In che cosa consiste il suo lavoro?
Accompagno i ragazzi per i quali è stato chiesto l’allontanamento dalla famiglia. È un lavoro lento, complesso, che si fa sul campo giorno per giorno e che si nutre di tanti piccoli gesti e parole, che passa attraverso i dettagli: un modo di guardare alle cose o di accendersi una sigaretta. Per me l’allontanamento è come l’Erasmus, permette al ragazzo di vivere una realtà completamente diversa e di cogliere, grazie all’aiuto dell’operatore, tutte le differenze culturali: il modo di stringere relazioni, di divertirsi, di innamorarsi di una ragazza. Noi operatori offriamo un’esperienza elaborata attraverso la nostra emotività, per far scoprire al ragazzo il proprio mondo interiore. Lo aiutiamo a capire chi è veramente, che nulla è già scritto e che è libero di scegliersi la vita che vuole. Nient’altro.