Ascoltare il silenzio
Immersi nel rumore, travolti e confusi da una valanga di informazioni, abituati a riempire ogni piccolo vuoto: siamo così noi uomini d’oggi, ormai incapaci di vivere un silenzio diventato insieme rarità da ricercare e spazio angosciante, lusso e condanna. E così, se da un lato aspiriamo alla quiete delle campagne o all’ombra dei chiostri, dall’altro difficilmente sappiamo godere del silenzio, incapaci come siamo di rallentare, di ascoltare, di stare con noi stessi.
Negli ultimi anni il silenzio ha ottenuto una particolare attenzione: non solo vacanze nei monasteri, ma pacchetti «tutta quiete» offerti dagli alberghi, silent party (d’importazione statunitense) cioè feste silenziose dove non si parla, non si ascolta musica, non si balla; per finire addirittura con un festival dedicato proprio al silenzio. Questa «moda» del silenzio ha invaso pure le librerie e le sale cinematografiche. Per esempio, ha stupito non poco il successo di pubblico de Il grande silenzio, un film lentissimo e praticamente muto, scandito dai suoni del monastero della Grande Certosa all’interno del quale è stato girato. Dal canto suo, la pubblicità ha creato spot sublimi e memorabili, pure immagini senza parole né musiche che fanno scoprire a tutti noi quanto sia assordante l’assenza di rumore.
Inizia qui un breve viaggio alla riscoperta del silenzio insieme a Nicoletta Polla-Mattiot, psicologa, direttrice di «Per me» e «studiosa del silenzio». Innazitutto, che cos’è questa dimensione «misteriosa»? «C’è una bella poesia di Wisława Szymborska, Attimo, che recita: “Quando pronuncio la parola Silenzio / lo distruggo. / Quando pronuncio la parola Niente / creo qualcosa che non entra in nessun nulla”. Insomma il silenzio non si può definire». Non possiamo coglierlo con la parola, e, secondo recenti studi, neppure con l’udito. «Siamo talmente circondati dai rumori, da non riuscire più a percepire suoni sotto i 60 decibel». Sempre più difficile anche ritrovarlo in se stessi: «Ognuno di noi, durante i tempi “morti”, trova subito il modo di rompere il silenzio: una telefonata al cellulare o la musica dell’i-pod».
Il silenzio è sempre più strozzato anche nei nostri discorsi: «Alcune ricerche dimostrano che mentre parliamo lo spazio tra le parole è sempre più corto, diciamo molte più cose in meno tempo», prosegue la psicologa.
Se non lo definiamo, non lo percepiamo e tutto sommato non lo vogliamo, ha ancora una parte il silenzio nella nostra vita? Polla-Mattiot sorride: «La nostra quotidianità è piena di silenzi, ma noi non ne siamo coscienti: c’è il silenzio dei sentimenti e quello del rispetto, il silenzio dell’autorità e quello della buona educazione, il silenzio dell’amico e quello dello psicologo, il silenzio dello stupore e quello dell’imbarazzo, il silenzio del sapiente e quello dello sciocco, quello del coraggioso e quello del codardo. C’è un’intera gamma di sentimenti, sensazioni e significati che senza silenzio sarebbe impossibile. Il silenzio aumenta le nostre possibilità di comunicare». C’è poi un silenzio importantissimo, che segna il limite delle nostre identità: «Chi straparla ci infastidisce, colonizza il nostro spazio. È sbagliato e forse falso dirsi sempre tutto. Anche all’interno della coppia. C’è una parte di noi che neppure noi conosciamo totalmente e che rimane nell’ombra: il suo confine è il silenzio».
Il silenzio poi è la «misura» di ogni parola. Senza le pause non ci sarebbero il dialogo, l’incontro con l’altro, la comunicazione: «Quando parliamo con qualcuno usiamo delle regole, un ritmo misurato di parole e silenzio per permettere all’altro a sua volta di esprimersi e ascoltare». Senza la pausa non c’è significato: «Se dico tutto di seguito nessuno capisce che cosa sto dicendo. È la pausa che permette di capire i significati. Più in fretta parlo, meno cose rischio di comunicare».
Se il silenzio è già tra noi perché non lo valorizziamo? «Perché pensiamo che il silenzio sia solo quello con la “s” maiuscola, quello dei monasteri e dei mistici. Invece il silenzio è un mezzo, uno strumento preziosissimo per aumentare le nostre possibilità di espressione, per migliorare la nostra vita. Per questo io vedo di buon occhio tutto questo parlare di silenzio: è bene battersi per la sua introduzione “omeopatica” nella vita di tutti i giorni. Il silenzio è anche il modo per recuperare spazi interiori, per rallentare l’azione e far riprendere forza al pensiero. Riscoprirlo e averne coscienza vuol dire aumentare le possibilità dell’essere».
A parole è facile, ma in pratica che cosa possiamo fare? «Smettere con i miti del tipo: mi ritiro una settimana e poi mi ributto nel flusso. Più difficile, ma molto più produttivo, allenarsi a trovare piccoli spazi di silenzio personale, casalingo, giorno dopo giorno».
i libri
Elogio del silenzio e della parola
Massimo Baldini, Rubbettino, € 26,00
I nuovi eremiti
Isacco Turina, Medusa, € 16,80
Riscoprire il silenzio
a cura di Nicoletta Polla-Mattiot, Baldini Castoldi Dalai, € 14,40
intervista
La parola «dal» e «nel» silenzio
A colloquio con Massimo Cacciari, ordinario di Estetica all’università Vita-Salute San Raffaele (Milano).
Msa. Del silenzio nel corso dei secoli si è evidenziata soprattutto la dimensione ascetica, «verticale». Perché?
Cacciari. L’enfatizzazione della dimensione «verticale» del silenzio è dovuta essenzialmente all’equivoco intorno a una sua pretesa «sublimità». In realtà, del silenzio occorre anzitutto parlare come della pausa nella composizione musicale, e cioè in termini di struttura, secondo un’accezione «funzionale». Il silenzio è anzitutto elemento immanente nella parola, anzi: nello stesso atto della parola, nel suo risuonare «all’aperto». Poiché nella parola è evidente la sua provenienza proprio dal silenzio, e la voce della parola è a un tempo destinata a tacere. Non si può insomma né pronunciare né ascoltare parola se non «dal» e «nel» silenzio. Allorché, all’opposto, si esalta unilateralmente la prospettiva per cui la parola si rivolge a ciò che la eccede, si fa del silenzio qualcosa di assoluto dalla parola, una dimensione in cui la parola non tace ma si annulla. Ma allora diviene propriamente impossibile parlare anche di silenzio, poiché il nulla in cui la parola riesce è il nulla sia della parola che del silenzio.
La tradizione cristiana riconosce nel silenzio una dimensione «innocente» (il silenzio che apre all’infinito) e una «colpevole» (il silenzio di chiusura)...
Tutta l’autentica mistica, almeno occidentale, ha appunto compreso, proprio in base alle considerazioni che ho appena svolto, come il fare del silenzio un assoluto dalla parola comporti un «colpevole» isolamento, una «colpevole» pretesa di «innocenza» rispetto a ogni pericolo di fraintendimento, di incomprensione, di «tradimento» implicito in ogni colloquio. Ed è del tutto ovvio che una tale falsa mistica del silenzio possa psicologicamente costituire il sintomo di immaturi narcisismi, egoismi, risentimenti. Guai a parlare del silenzio secondo un «gergo dell’autenticità»! La dimensione del silenzio nella quale vivono le grandi tradizioni mistiche sia cristiana che giudaiche e islamiche è propriamente, io credo, quella della preghiera: e cioè della parola più pura e intensa che si esprime nel cuore allorché lo sforzo della ricerca di sé giunge al proprio fondo e lì incontra il proprio «Tu». Il silenzio è dunque la preghiera del cuore.
L’individuo ha più paura o nostalgia del silenzio?
La nostra è l’epoca del rumore, anzi: della velocità del rumore. Rumori rapidissimamente ci assalgono e altrettanto rapidamente scompaiono, senza lasciare traccia neppure nella memoria. Ma ciò non vuol dire affatto che la nostra epoca non possa «ricordare», e cioè riportare al proprio cuore, anche il senso che il silenzio aveva per la mistica di cui ho parlato. Quel silenzio non dipende da luoghi o edifici, non viene «onorato» né su monti né in templi specifici. Soffia dove vuole. Guai all’individuo che fugge dinanzi al rumore! Vuol dire che ne è più debole. Guai all’individuo che dinanzi al rumore sogna silenzi assoluti! Vuol dire che non sa parlare.
Lettera dall’eremo
Il silenzio è anche la casa dei ritorni
Si dice: «Il silenzio c’è quando non si ha nulla da dire». Certo, il silenzio può essere anche un segno di vuoto, perché, nel continuo chiacchierare di oggi, non aver nulla da dire sembra un assurdo, un segno di miseria. E se invece fosse la continua chiacchiera a essere un segno di miseria, perché manifesta la volgarità? Per pronunciare una parola piena, infatti, occorre molta fatica e un abisso di silenzio, lo stesso affrontato dal seme che marcisce e si alza nella vita.
Eppure, anche il fatto di non aver nulla da dire dice tanto: le cose più importanti, lo sa chi le conosce, non si dicono a parole (il silenzio alla fine di una melodia, l’incertezza trascolo-rante dell’alba, un bacio, una carezza, il suono del picchio che comincia il nido in pieno inverno). Chi incontra l’infinito sa che non può dirlo. Può essere che in una sola parola venga condensata l’intera vita (Joyce), tutto l’essere, perché ogni parola è una «forma di vita» (Wittgenstein).
Il silenzio non è assenza dal mondo, ma patria delle voci. Chi è stordito dal rumore non accoglie l’infinito. Ne è prova il silenzio del biologo che nel laboratorio coglie e ripensa all’immenso infinito che si esprime nell’ingegneria di una sola cellula. Oppure il silenzio della madre che sta crescendo nel proprio grembo un figlio: in tutti resta indelebile il ricordo del battito del cuore materno, al contempo rassicurazione e apertura verso l’eterno, che si ritrova poi nel ritmo delle onde, nell’ondeggiare degli abeti al vento, e anche nell’ossessivo ritmare del rock. O, ancora, il silenzio del poeta e del matematico che inventano-trovano «l’oltre che è il vero di tutto», proprio perché costeggiano le sponde dell’infinito. A volte ci coglie la tristezza di vivere in una Chiesa che non sa farsi «ricreare dal silenzio»: quante volte i riti sommano parole a parole, senza spazi di silenzio come adorazione, sosta di accoglienza, contemplazione dei simboli. Non è forse un segno di volgarità il gettarsi fuori, senza vivere gli inaccettati silenzi di Gesù, i lunghi silenzi che Dio impone a se stesso affinché abbia luogo la libertà umana?
Il monaco vive il prezioso e nascosto gioire della vita nel silenzio che ascolta: ascolto dello Spirito che unisce al Padre; ascolto della Parola di vita; ascolto delle parole della vita di tutti. Nell’eremo giunge nella notte il rumore della vita che rotola sull’autostrada del Sole, giù in valle; è un esodo, questo continuo andare, che il monaco porta nella sua preghiera davanti a Dio. Nel silenzio del suo eremo, egli vive il privilegio di portare silenziosamente a Dio il «rumore» della storia, per rendere presenti i ritmi della vicenda umana. Quando l’orante porta a Dio il segreto bisogno di tutti, ha la certezza che il vagare lascia posto all’andare verso una meta, finalmente all’approdo.
La casa del Padre resta aperta per tutti, anche quando si va lontano e si sperimenta che il molto che si è tentato di avere è tanto poco dinanzi al tutto. Allora si può ritrovare il posto: quello dal quale si è partiti. L’orante nel silenzio è l’umanità che ritorna al Padre («prometto il cambiamento del mio modo di vivere» dice la professione monastica). Il silenzio è, anche, la casa dei ritorni.
don Paolo Giannoni, eremo di Mosciano
curiosità
Il Museo del silenzio di Fara Sabina
A Fara Sabina, ameno borgo medievale nei pressi di Rieti, sorge il secentesco monastero di Santa Maria della Provvidenza, delle clarisse eremite.
Qui, nel solco di una tradizione consolidata nei secoli, si è deciso anni fa di creare un museo dedicato al silenzio. Un tema forte quanto astratto, non facile da rendere. Dalle ispirate intuizioni degli architetti Di Martino e Benedetti è nato, quindi, nel 2004 un museo innovativo nel linguaggio e nella struttura. Lo spazio espositivo è stato ricavato all’interno dell’antica chiesa di Santa Maria in Castello, al cui interno spicca un affresco della Madonna riferibile al 1480. Collocato in una sala di forma rettangolare di circa 60 metri quadri, l’allestimento rievoca in modo toccante gli ambienti e la vita delle monache di clausura.
Nell’accedere alla sala, il visitatore si trova in uno spazio completamente buio, dove viene coinvolto, attraverso un sistema di luci e suoni, nell’osservazione di una serie di oggetti originali, simbolo delle principali attività svolte nel convento (preghiera, penitenza, cucito, spezieria, cucina, lavoro artigianale). In contemporanea, un sistema informatizzato gestisce la proiezione, sulla volta della sala, di immagini che sottolineano la funzione degli oggetti. Attraverso questo allestimento, semplice e penetrante, il visitatore può toccare da vicino la profondità del silenzio, vissuto come scelta attiva e consapevole, condizione necessaria per una perfetta coincidenza di significati tra azione (fatto materiale) e intenzione spirituale.
Info: Museo del Silenzio; tel.: 0765 277021.
www.clarisseremite.com
A. Tiso - I. Piccioni
Il silenzio di Dio
Dov’eri, Signore, nei drammi della storia?
Parlando del silenzio, delle sue caratteristiche positive come dei suoi risvolti negativi, non si può non approdare, a un certo punto, al discorso che tematizza il silenzio forse più radicale, più angosciante e drammatico, vale a dire il silenzio di Dio. Se nelle Scritture incontriamo quasi a ogni piè sospinto un Dio che parla, comunica attraverso la sua Parola, varrebbe forse la pena di guardare al rovescio della medaglia: spesso e volentieri Dio tace, sembra assente, è invocato dall’orante ma non risponde. Soprattutto di fronte al dolore dell’uomo sopraffatto dalla malattia, dalla disgrazia, oppure che si sente prossimo al baratro della morte, Dio resta muto. E accanto alle tragedie personali, non mancano i drammi collettivi di fronte ai quali il «perché» si solleva come un coro assordante di voci. Perché Dio non squarcia i cieli e soccorre, perché non si sporca le mani con le stridenti contraddizioni della storia, perché non ristabilisce la giustizia, perché permette violenze, stragi, perfino genocidi?
Nel maggio 2006, nel corso della sua visita in Polonia, papa Benedetto XVI – figlio della nazione tedesca – con un atto di coraggio si reca in visita all’ex campo di concentramento di Auschwitz. Avvertendo tutta la fatica di prendere la parola in quel luogo, il Papa inizia il suo discorso dando voce alle domande più vere: «In un luogo come questo – dice – vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio, un silenzio che è un grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». Più avanti richiama il lamento dell’Israele sofferente espresso dalle parole del Salmo 44: «Svegliati, perché dormi, Signore? Destati, non ci respingere per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione?».
Sono interrogativi che hanno solcato la storia ogni volta che questa si è persa nei meandri e nei pantani della «valle oscura», interrogativi che molti uomini e donne rilanciano nel momento della prova e del dolore. Se da una parte Benedetto XVI invita a non violare questo silenzio di Dio, a non volerlo scrutare in modo razionalistico con il risultato troppo scontato di collocare Dio sul banco degli imputati, dall’altra incoraggia l’umile ma insistente grido verso l’Altissimo: «Svegliati!». Mantenendo fermo questo grido, l’uomo è anche in grado di rientrare in se stesso e di fare esperienza della presenza nascosta e silente di Dio. Sì, nessuno di noi può dispensare se stesso dall’esercitare l’umile mestiere di cercatore di Dio nel silenzio, e forse scoprire, nel venir meno della risposta facile e apparentemente risolutiva, un rimando in profondità, a un sottile e più coinvolgente parlare di Dio stesso.
Ugo Sartorio