Casa di bambole in terra d’Abruzzo

Mara ha 41 anni, due figlie, un lavoro nella fabbrica di torroni più antica d’Abruzzo e una casetta di legno, costruita di fronte al suo vecchio appartamento, buono solo per le ruspe.
28 Ottobre 2009 | di


Che significa rinascere dopo un terremoto? Che sapore ha l’esilio in casa propria? Com’è la vita quando i riflettori si spengono sul teatro di una tragedia? È sull’onda di queste domande che rispondiamo all’appello di Mara Marinangeli, 41 anni, due figlie, Giorgia e Ilaria di 10 e 8 anni, un lavoro a Sorelle Nurzia, l’azienda di torroni più antica d’Abruzzo e una casina di legno, costruita insieme al marito Valter, giusto di fronte al suo appartamento in classe «E», buono solo per le ruspe. «Sono in trincea dal 6 aprile – aveva scritto al “Messaggero” a fine agosto – e molto dovrò ancora combattere. Ho vissuto l’allucinante esperienza di rimanere incastrata sotto le macerie con mia figlia Giorgia: se da lì sotto sono uscita viva devo e voglio diventare uno strumento per qualcosa di bello e di buono. Non lasciateci soli».

Mara ci aspetta nel suo ufficio di Sorelle Nurzia, perché quel «qualcosa di bello e di buono» di cui parla parte proprio dal suo lavoro. Lo stabilimento è a Bazzano, proprio di fronte a Onna, l’icona mediatica della tragedia: è quasi intatto, ma intorno la zona industriale sembra morta. Ci viene incontro una donna solare, allegra, energica, i capelli biondi e gli occhi azzurro mare: «Niente retorica da tragedia – chiarisce subito –, vorrei che vedeste il bello, la nostra voglia di ricominciare. Ognuno di noi ha perso qualcosa, qualcuno o tutto in soli 20 secondi, ma non permetteremo, non permetterò, che questa azienda venga inghiottita dal terremoto».

È un’impiegata, Mara, ma ha il carisma di un capo popolo. Il suo computer è collegato con il mondo, ha bussato a tutte le porte, molti ricordano le sue incursioni indignate alla Protezione civile, perché fossero comprati i prodotti aquilani. Le ditte artigianali vicine le chiedono una mano, negli stipi c’è di tutto: dal vino al salame, al caffè e nascono così, dal basso, le iniziative in comune per provare a uscire dal tunnel.


Mara non lo dice. Non ama i quadri a tinte fosche ma molte aziende dell’aquilano sono in ginocchio, i cassaintegrati sono più di 16.500 mentre da mesi si parla dell’istituzione di una zona franca, che alleggerisca il peso fiscale alle imprese. Ma tra un rinvio e l’altro monta la rabbia.
Poco prima al centro commerciale, l’unica piazza rimasta agli aquilani, abbiamo incontrato Giorgio Stringini, presidente del Cna locale: «Dal primo gennaio dobbiamo restituire le tasse sospese per il terremoto. Ho l’impresa ferma dal 6 aprile, come sopravviveremo?».

Mara ci guida tra le impastatrici e i pistacchi, le file di torroni e le carte colorate. Nella zona confezioni c’è Ilaria, sua figlia, che attacca le etichette: «La scuola per lei non è ancora iniziata e i nonni sono sfollati sulla costa. Non ho alternative» si schernisce. «Per fortuna qui è come una famiglia e anche in questo ci si dà una mano».

Dopo il lavoro ci invita a casa sua. Colpisce la casetta in legno nel giardino condominiale. Tre piccole stanze, con le assi a diverse stagionature, segno di una costruzione fatta a più riprese. In fondo, una palazzina. Al pianoterra c’è il suo vecchio appartamento e intorno il solito silenzio strano. Ci avviciniamo alla sua «casa rotta», come la chiama lei. Mara entra con naturalezza, io e Simonetta, la fotografa, con l’ansia dei topi in trappola. Lei se ne accorge e dice: «Vedi? Il terremoto ti caccia di casa e tu entri a prendere qualcosa di tuo, come se fossi un ladro». Sulle assi portanti grosse crepe a croce, muri in bilico, detriti ovunque, vistosi squarci verso l’esterno. In camera da letto, lei ricorda «quella notte»: il rumore assordante, la polvere, il dolore, il buio, il terrore di non riuscire a sentire la figlia che le dormiva accanto e poi il sollievo della liberazione. La morte in agguato, nel posto più sicuro.

Mentre mi parla in questa distruzione mi viene in mente Luigi, un signore di altri tempi. La sera prima ero a cena a casa sua, l’unica casa rimasta in piedi intatta «l’ha costruita mio padre, in famiglia facevamo anche i mattoni». Gli avevo chiesto perché tutte le altre erano crollate. Mi aveva preso la mano sotto il braccio, ed eravamo andati a guardarcele una ad una le case in bilico. «Qui manca il ferro, lì c’è un garage sotterraneo a filo muro, là hanno rotto le pietre antiche per inserirci gli impianti». E aveva concluso: «Mancano i mastri di una volta, mancano gli uomini».

Mara guarda i calcinacci lì dove c’era il letto: «Vivi, siamo tutti vivi, ti rendi conto che miracolo? Il Signore mi ha dato un’altra possibilità. Non ho niente e ho tutto. Al sabato vado a fare la spesa, molti altri fanno la spola al cimitero. Sento di dover qualcosa anche a loro». Parla con una passione inusuale, autentica. È tutto troppo grande. Non c’è misura, non c’è logica. «Il terremoto mi ha scosso alle radici. Ho pensieri, parole, sensazioni che non ho mai avuto prima. Sono io e sono diversa».

Il terremoto è dentro. Me l’hanno detto in tanti all’Aquila. Mentre Mara si racconta ho in mente l’eco di altre parole, quasi fossero un’unica storia: «Non sopporto la vista dei palazzi imbrigliati, sono come persone ferite»… «Non pensavo di ricominciare a cinquant’anni»… «Quale vita vuoi che ti racconti, quella in questa o nell’altra dimensione?»… «Non ce la faccio a dormire tra quattro mura»… «Con mia moglie non funziona più, chissà se ci incontreremo ancora». Un blob di smarrimento e di dolore.

Ora Mara è di fronte alla sua nuova casa, due cani le scodinzolano intorno: «Li abbiamo adottati, sono terremotati anche loro». In fondo al giardino, qualche gallina, «per avere l’uovo fresco».

Poi apre la porta, con orgoglio malcelato. E dentro è un tripudio di colore, di azzurro, di rosso, di rosa. Una casa di bambole per le sue bambine, in questo silenzio insopportabile. «Sembra tutto grigio, ma io voglio il colore, sui muri, sui mobili, sulla nostra vita». Non ha mai pensato di andarsene: «Il mio cuore, le mie pulsazioni, stanno su questa terra». Ogni cosa ha il suo valore: «Vedi questo bagno? Per me è la stanza più bella, è la dignità della famiglia. Quando devi fare la fila anche per lavarti i denti, sei un uomo a metà». Nel piccolo soggiorno, che profuma d’abete appena tagliato, lei apre uno sportello, e c’è una lavatrice: «Per mesi mi alzavo all’alba per lavare i panni alla tendopoli. Tornavo qui, stendevo, e andavo a lavorare. La prima volta che ho sentito la centrifuga a casa mia, mi veniva da piangere». Ogni piccola cosa è una conquista: «Oggi ho “riscoperto” il fuoco», dice indicando una stufa a pellet, nuova fiammante, in un angolo del soggiornino. «Devo insegnare alle mie figlie che ogni giorno si rinasce un po’, come Bambi nella foresta desolata».

Sgrana gli occhi grandi, Mara, due occhi aperti su un nuovo orizzonte. Sa che ha il dovere della testimonianza, per la sua famiglia, per sé, per la sua azienda, per gli altri. Tiene insieme caparbiamente tutti i tasselli in un unico puzzle, con la forza dell’anima. È questo «il bello e il buono» che ha promesso alla sua seconda vita. 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017