COME NASCE UN PROGETTO
«C'è un abisso tra l'idea che tu hai di un paese povero e quello che effettivamente trovi quando decidi di andarci. Dalla tua comoda poltrona, dalla tua tavola imbandita, dalle tue comodità scontate pensi di sapere, di capire quali siano i bisogni degli altri. Perfino ti illudi di poterli risolvere. Ti accorgi all'istante che non sapevi e non capivi. E che forse la tua era ingenua presunzione. Accanto al tuo mondo convivono tanti mondi possibili». C'è qualcosa di più intenso del solito nelle parole di padre Luciano Massarotto, segretario della Caritas antoniana. È tornato da qualche giorno dall'Africa, dove è andato a controllare alcuni progetti sostenuti negli anni precedenti e a verificare alcune nuove richieste di aiuto.
«Ero partito con l'idea di andare solo in Uganda. Durante lo scorso inverno avevamo ricevuto moltissime richieste di sostegno dai parroci della diocesi di Masaka, nel Centro-Sud dell'Uganda, che riguardavano l'assistenza agli orfani. Bisognava controllarne la fondatezza». Ai membri della Caritas antoniana sorse qualche sospetto: è convinzione comune in Occidente che in Africa non esistano orfani, in quanto la struttura familiare allargata tende naturalmente a occuparsi di loro. Inoltre, altre organizzazioni umanitarie avevano avuto spiacevoli esperienze; dopo aver finanziato i progetti si erano accorte che era tutto falso: persone, carte, firme e timbri episcopali.
Ma anche senza truffe, la gestione a distanza di un progetto di sviluppo sarebbe proibitiva: occorre conoscere i posti, rendersi conto di persona dei bisogni, avere dei referenti locali e, soprattutto, entrare in sintonia con culture molto diverse dalla nostra. «La prima cosa che mi balzò agli occhi, arrivato nella diocesi di Masaka, fu che quello che pensavo sugli orfani africani era completamente sbagliato. Non solo il problema esiste, ma è drammatico. Nella diocesi su 2 milioni di abitanti, 500 mila sono bambini orfani. E purtroppo Masaka sintetizza tutti i problemi dell'Uganda. Nel paese, infatti, si è quasi estinta la popolazione tra i 25 e i 35 anni, falciata dalle guerre tribali e soprattutto dall'Aids. Alla morte dei genitori, i 3 o 4 figli sono allevati dagli zii, che magari a loro volta sono ammalati. Insomma, si arriva all'assurdo che un capo famiglia si trovi a dover sostenere 30 o più figli e francamente non è possibile».
Una deriva peggiorata dalla scia di sangue e crudeltà , tipica delle guerre tribali. Il Rwanda insegna. Un baratro nel quale affondano non solo le giovani vite ma tutti i valori che contraddistinguono la società africana. La famiglia si sgretola, i giovani fuggono nelle città in cerca di soldi e divertimento, e per farlo sono disposti a tutto. Dall'Occidente hanno imparato solo questo. Ma si sa, dove la violenza raggiunge i suoi limiti estremi, tanto da non essere immaginabile, dilaga la promiscuità , lo squallore, la perdita di sé. E dilaga l'Aids.
Che ne sarà di tutti questi bambini, figli della violenza, del terrore, della malattia? «A casa - afferma padre Luciano - pensavo che avrei controllato le richieste e ne avrei scelte alcune. Poteva essere la costruzione di una scuola o di una casa famiglia o di un orfanotrofio. Ma quando il bisogno è più vasto di un mare ti chiedi: ma non si può fare di più? Perché a questi sì e a quelli no? Ma se non cambi le cause, i valori che motivano le persone, cosa vale un mattone?».
Sgomento. Ti senti perso davanti a una cosa più grande di te. Dalla convinzione di sapere alla totale ignoranza il passo è breve. Solo dopo essere ridiventati una pagina bianca si può ricominciare. «Presi a informarmi dal vescovo Kaggwa come si stava organizzando la diocesi di fronte a questa grave emergenza - continua padre Luciano - . Il vescovo mi spiegò che la valanga di richieste che mi erano pervenute erano dovute al fatto che le parrocchie avevano iniziato ad affrontare il problema autonomamente». I parroci, infatti, raccolgono gli orfani nelle scuole primarie, così i piccoli per sette anni hanno almeno due stracci di certezze: un'istruzione di base e un pasto al giorno. Per garantire quest'ultimo lusso, vicino alla scuola di solito ci sono un banano, un campo di mais e un paio di mucche. Ma a 12 o 13 anni, quando finisce la scuola, per gli orfani c'è solo la strada. «Mi resi conto - riflette padre Luciano - che a nulla valeva costruire, per esempio, un grande orfanotrofio, la cultura africana non lo avrebbe assimilato». Bisognava agire servendosi della struttura tribale e della capacità di capire e organizzare che solo un uomo del luogo poteva avere.
«Nel vescovo Kaggwa trovai un alleato ideale, fu lui stesso a suggerirmi che era bene mantenere e valorizzare le strutture parrocchiali spontanee, ma era necessario riorganizzarle in un disegno comune a tutta la diocesi. Solo così si poteva ottenere il massimo risultato con il minimo spreco di risorse. Il prossimo mese mi arriveranno le sue indicazioni e il progetto su cui lavoreremo».
Promuovere lo sviluppo, oltre l'aiuto momentaneo che dà sollievo ma non risolve: questo dovrà sempre più essere il fine della Caritas antoniana e dei suoi tanti sostenitori.
Viaggio nella solidarità antoniana |
Il viaggio di padre Luciano Massarotto è partito dall'Uganda ma si è poi esteso al Ghana e al Kenya per controllare i progetti che la Caritas antoniana sta sostenendo in quei Paesi. «Mi ritengo soddisfatto di ciò che ho visto - afferma padre Luciano - ; non solo le opere sono state effettivamente realizzate, ma è stato rispettato un principio fondamentale della Caritas antoniana: lo sforzo di superare i problemi rispettando la realtà e la cultura del luogo. Insomma, ho avuto la percezione di uno sviluppo sostenibile, fatto a modo loro».
Ecco le tappe del viaggio:
GHANA Takoradi: scuola primaria. Sunyani: scuola primaria e pozzi Nsawan: centro ortopedico per bambini malformati o vittime di incidenti (progetto 1998). KENYA Nairobi: progetto Kivuli, per bambini di strada (progetto giugno 1998). |