Con le mani nella vita lodando Dio
Trasmettere la Parola tramite la solidarietà , vivere la missione in comunione con gli ultimi, testimoniare la propria fede accogliendo e amando la vita, dalla nascita alla malattia, alla morte. È questo il filo rosso che unisce e illumina i quattro progetti che vi proponiamo in occasione del 13 giugno, festa del Santo. Per la prima volta, negli ultimi quindici anni, tutti i progetti sono pensati e curati dai nostri frati francescani conventuali, missionari in Burkina Faso, Brasile, Indonesia e India. Nelle loro mani affideremo il frutto della vostra solidarietà , per un impegno davvero gravoso in questi tempi di crisi economica: 735 mila euro, tutti a favore delle persone più svantaggiate: i bambini senza accesso ai servizi sanitari in Burkina Faso, le famiglie senza acqua potabile nel Nord-est del Brasile, gli sfollati del maremoto in Indonesia, i malati terminali di aids in India.
Quattro progetti in cui le storie di missione dei frati s'intrecciano con le culture e le aspirazioni dei popoli, in cui la fede è seme di speranza e di condivisione, in cui le persone s'incontrano oltre gli steccati e provano a pensare a un mondo nuovo.
Sarà un'occasione per tutti noi, lettori, sostenitori, frati, di seguire le orme di Antonio, realizzando tessere di Vangelo vissuto. In Burkina Faso, costruiremo una struttura sanitaria per fronteggiare le emergenze: gravi infezioni, malattie in bambini denutriti, complicazioni della gravidanza (foto grande); in Brasile, realizzeremo 300 cisterne per famiglie che non hanno accesso all'acqua potabile (foto 1); in Indonesia costruiremo 45 case per le famiglie di sfollati del maremoto (foto 2); in India allestiremo un centro di cure per gli ammalati terminali di aids, abbandonati dalle famiglie (foto 3).
Burkina Faso
La tua vita mi sta a cuore.
Costruiremo un centro sanitario per le emergenze e per salvare i bambini denutriti.
Ero ammalato e mi avete visitato. Quando fra Giacomo arrivò a Sabou (diocesi di Koudougou) in Burkina Faso, insieme ai confratelli della provincia d'Abruzzo, il 5 novembre del 2002, non pensava che il passo evangelico di Matteo sarebbe divenuto un aspetto fondante della missione dei frati in quell'angolo di mondo.
Appena arrivati, non pensavamo a una struttura sanitaria. Per offrire servizi sanitari ci vogliono soldi - spiega -. Quando inizi una missione, vuoi farlo in punta di piedi, vuoi entrare tu come persona, non come quello che porta i soldi. Ma la realtà era dura, troppo dura. Le mamme morivano di parto, i bambini soffrivano di malnutrizione grave e si spegnevano per un nonnulla.
I frati, nel frattempo, avevano aperto in un garage un ambulatorio di fortuna dove curavano le ulcerazioni della pelle, molto diffuse in quella zona, avevano costruito otto pozzi d'acqua per i villaggi che ne erano sprovvisti e avviato un Centro nutrizionale per i bambini, con un contributo della Caritas antoniana.
Poi, un giorno, l'ennesima tragedia li spinse a pensare più in grande. Seguivamo Omar, un neonato di pochi mesi. La mamma era morta nel parto. Lo nutrivamo con il latte di un'altra donna, integrandolo con quello d'asina. Ma il piccolo era sempre malnutrito. La nonna era disperata, gli spuntavano piaghe nel corpicino. Nonostante tutti i nostri sforzi, non siamo riusciti a salvarlo. È morto a otto mesi, tra lo sconcerto di tutti. E ti domandi perché un bambino debba morire così.
C'era bisogno di un centro sanitario, soprattutto per le cure di emergenza e per salvare i bambini, i più esposti alle infezioni. I due ospedali di Koudougou e Ouagadougou erano troppo lontani e sovraffollati, mentre in zona non c'erano servizi sanitari per una popolazione di circa 80 mila presone, sparsa su un territorio di 320 chilometri quadrati.
Nel frattempo, la missione è passata sotto la giurisdizione della provincia polacca: oggi ci sono cinque frati (due polacchi, due italiani e uno del Togo), a condividere la nuova sfida. Diversi tra loro per cultura e tradizione, sono un drappello ben assortito. Michel, il frate del Togo, è proprio africano, un cuore d'oro, un vulcano di idee ma disordinatissimo.
I frati polacchi, padre Marek, il guardiano, e Casimiro, controbilanciano, più riflessivi, ordinati, pronti all'ascolto e al silenzio. Padre Massimiliano, l'altro italiano, è il più anziano del gruppo, soffre tremendamente il caldo, ma non si ferma, va per i villaggi, si dona con sacrificio e la gente apprezza perché vede quanto gli costa.
Fra Giacomo è il più giovane: Amo andare con Michel tra la gente, al mercato, nelle case, per condividere la loro vita. Ora che ci arrangiamo a parlare la lingua, le persone sono contentissime e noi ci sentiamo parte di loro. Ormai i frati sono un punto di riferimento e la gente appoggia con tutte le forze il progetto sanitario che stanno portando avanti. Siamo già riusciti a raccogliere 100 mila euro per l'acquisto del terreno, del pozzo e del gruppo elettrogeno. Per quanto riguarda il personale medico e infermieristico, ci aiuteranno le Sorelle minori di Maria Immacolata che hanno nella loro missione questo impegno, mentre ci aspettiamo che il governo faccia la sua parte affidandoci dei medici. I confratelli d'Abruzzo stanno stringendo contatti con medici e infermieri italiani, perché passino alcuni periodi da noi. Ora ci mancano i fondi per la costruzione del centro sanitario che noi vorremmo dedicare a san Massimiliano Kolbe. Per questo speriamo nel vostro aiuto.
Per uno che si salva, tanti che muoiono. Come si fa a superare la frustrazione? S'impara a guardare in piccolo, alla maniera francescana. Se hai solo uno sguardo complessivo, sei annientato dalla quantità di male, ma se guardi al singolo che hai salvato, per lui la vita va avanti. E quella goccia di bene è un mondo che continua.
Brasile
Ti dono sorella acqua
Doneremo trecento cisterne per restituire l'accesso all'acqua potabile alle famiglie della regione Semi-arida.
Donare sorella acqua. Niente ha più valore e senso per la gente del Semi-arido, una vasta regione rurale a Nord Est del Brasile, dove a piogge torrenziali seguono lunghi periodi di siccità . Lo sa bene padre Luciano Bernardi, trevigiano, da ventidue anni in Brasile, alle spalle una vita dedicata ai senza terra, i contadini poveri, soffocati dai latifondi dei grandi proprietari e dal continuo braccio di ferro con madre natura, avara di piogge e di raccolti. Del suo Brasile, padre Luciano porta i segni nel viso scavato dal sole, nell'allegria dei gesti e nella musicalità del suo italiano.
Gli occhi grigio-azzurri e vivaci, richiamano il nome del gruppo popolare Olho vivo di cui fa parte, attivo a Itaberaba, città dello stato di Bahia. Olho vivo, significa occhio vivo, aperto, vigilante, per cogliere i bisogni della gente e trovare insieme soluzioni. Il movimento, nato una decina di anni fa in seno alla Chiesa brasiliana, ora fa parte di una galassia di piccoli gruppi popolari, riuniti nell'Articolazione del Semi-arido (Asa), al fine di dialogare e, se serve, duellare con le istituzioni e ottenere terra, acqua e giustizia. Qui la gente è povera. Ha piccoli appezzamenti di terra che non bastano alla sopravvivenza. Arrivano piogge torrenziali e poi neppure una goccia per settimane. E la gente perde il raccolto, una, due, tre volte di seguito. Ti impressiona la loro resistenza. Senza un lamento, abbarbicati a questa terra secca. Da loro ho imparato la tenacia, la pazienza, la mitezza. Qui ho capito ancora meglio che cos'è il francescanesimo.
Ride, padre Luciano, ricordando le sue prime messe nel Semi-arido: quest'acqua dal color paglierino, attinta dalle pozze, bollita e portata all'altare per purificare il calice. E poi, dopo la messa, la diffidenza malcelata quando i parrocchiani gliela offrivano mista all'aranciata. L'occhio aveva avuto una consolazione, ma lo stomaco....
La soluzione: cisterne per raccogliere l'acqua piovana, era scritta nella tradizione popolare già dalla fine dell'800, ma era sempre stata snobbata dalle istituzioni, come rozza e poco tecnologica. Invece arrivarono con trivelle per costruire pozzi, con pompe e desalinizzatori, tra gente analfabeta che annaspava per vivere: Fu un fiasco. Qui la terra è ricca di cristalli di sale e dopo qualche mese anche l'acqua dei pozzi è imbevibile e dannosa per l'ambiente, perché raggiunge i fiumi e li salinizza.
La misura era colma. La Chiesa per prima ha capito che era ora di dare un volto concreto al Vangelo che predicava, aiutando questa gente a risorgere: È stato difficile. Il contadino del Nord-est è discendente degli antichi schiavi, è da sempre ritenuto un cittadino di serie B. Ha imparato a sopportare, ad aspettare, a essere fatalista, mai a essere protagonista del proprio sviluppo. Nel tempo, la lotta per l'acqua, sostenuta soprattutto dalla Chiesa, è diventata lotta per il diritto alla cittadinanza e alla partecipazione politica, che fa oggi del Brasile un laboratorio di democrazia. Un percorso lento che ha portato, nel gennaio del 2003, all'elezione del presidente Lula, d'estrazione popolare, e al suo programma Fame zero e sete zero, che comprende anche la costruzione di un milione di cisterne per la regione del Semi-arido.
La politica, tra mille contraddizioni, finalmente ha ascoltato il grido della gente, ma non ci sono soldi. Nonostante gli sforzi, ancora molte famiglie sono senza cisterna. Qui, ad Itaberaba ne occorrerebbero almeno 1800, ma dal 2001, ne sono state costruite meno di trecento. Un centinaio grazie all'aiuto del gruppo Olho Vivo e al lavoro comunitario delle persone. Per questo vi chiedo di aiutarci a costruirne almeno altre trecento. Sarebbe un grande passo in avanti in questa lotta della povera gente.
Ma che significa avere finalmente l'acqua per una famiglia del Semi-arido? «Significa che le donne non sprecano più gran parte della giornata alla ricerca dell'acqua potabile. Significa che i nonni e i bambini si ammalano di meno, significa soprattutto che insieme si può risorgere». E poi ricorda Mariela, 8 figli, un marito emigrato che si è ormai fatto un'altra famiglia: «Mi disse, Padre, ho perso mio marito, ma questa cisterna e quest'acqua sono come il fazzoletto di Dio che è venuto ad asciugarmi le lacrime che verso di notte, quando i miei figli dormono».
Indonesia
Insieme a te guardo al futuro
Ricostruiremo quarantacinque case per le famiglie degli sfollati dal maremoto a Banda Aceh, una delle città più colpite.
Dopo trentasette anni di missione in un Paese islamico, come l'Indonesia, padre Ferdinando Severi pensava di aver già accumulato sufficiente esperienza. Era ancora fresco il ricordo dei giorni che seguirono il suo arrivo nella parrocchia del Sacro Cuore a Banda Aceh, nel Nord dell'isola di Sumatra, la sua ultima sede di missione. Era il 1993. L'imam della moschea, giusto di fronte alla sua chiesa, aveva annunciato il suo arrivo, attraverso l'altoparlante esterno: Attenzione al frate, è venuto a convertirvi. Padre Severi non s'era perso d'animo, san Francesco era stato chiaro in materia: i frati non causino dispute ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio. Così alla polizia, che gli tributava frequenti visite, diceva: Non sono venuto a convertirvi. Il mio Dio è universale e mi insegna che devo amare tutti, anche i fratelli musulmani. Lo dimostrava con i fatti, aprendo a chiunque avesse bisogno le porte della sala operatoria dell'ospedale cattolico di Medan, dove medici stranieri venivano a operare gratuitamente le persone con gravi handicap fisici. All'inizio, c'era grande diffidenza ma poi proprio la figlia di un fondamentalista, affetta da labbro leporino, osò andare da padre Severi e riferire ai suoi che quel frate aveva fatto per lei quello che i ferventi musulmani non avevano mai neppure pensato. Senza chiederle niente in cambio. Padre Severi si guadagnò così il rispetto e persino l'amicizia di molti musulmani.
Ma la vita aveva in serbo per lui l'ultima prova: era a Meulaboh, la cittadina più colpita dallo tsumani il 26 dicembre scorso, quando arrivò la grande onda. Si salvò per miracolo, appeso, per ironia della sorte, proprio alle strutture di una moschea. Ma vide tutto: la devastazione, i morti, lo strazio dei superstiti. Tornato a Banda Aceh, gli crollò il mondo addosso: nella sua missione cinquanta erano i morti, quarantacinque le case distrutte e novantaquattro quelle deprivate di ogni contenuto. La scuola era allagata e la chiesa in rovina. La sua missione stava per morire.
Quando siamo riusciti a riaprire la nostra scuola - scrive nella sua ultima lettera -, su quattrocento allievi erano rimasti soli in quindici. Un bimbo di prima elementare piangeva all'ingresso, attaccato a sua madre, perché non c'erano più i suoi compagni.
E racconta di una madre, quattro figli, tre annegati, l'ultimo sfollato a Medan. Erano tutti allievi della nostra scuola. La madre è venuta da me piangendo e mi ha detto: Padre, al mio dolore di mamma si aggiunge il tormento di non avere una tomba su cui piangere. Che strazio pensare a quei corpicini nudi nel fango, sepolti in una fossa comune. Un dolore che penetra il cuore dell'anziano padre, che a settant'anni deve trovare la forza per dare speranza ai figli suoi: Vi scrivo con le lacrime agli occhi. Aiutatemi a ricostruire le quarantacinque case. Venite ad asciugare tutte queste lacrime. Il buon Dio vi ricompenserà .
India
Per te oltre sorella morte
Costruiremo un Centro di cure palliative per gli ammalati di aids, all'ultimo stadio della malattia.
Curare l'ammalato di aids con lo stesso amore con cui san Francesco abbracciava i lebbrosi. A questa conclusione sono arrivati i frati della custodia dell'India, quando, dopo venticinque anni di vita con la gente (sono arrivati in Kerala nel 1980), si sono accorti che i veri poveri, i nuovi paria, non avevano più razza né religione né differenze di censo o cultura. L'aids è riuscito ad abolire le caste, la rigida divisione che regola la società indiana: dietro la malattia è rimasto solo l'uomo, nudo e crudo, con la sua miseria e la sua dignità ferita.
Non è una sfida da poco. A tutt'oggi, chi si avvicina all'aids s'infetta di pregiudizio: in un recente studio, il 36 per cento degli indiani è convinto che il malato si meriti la malattia, e il 34 per cento non vuole avere a che fare con persone infette. Il risultato è straziante: malati di aids che muoiono per strada, senza neppure il conforto di un parente. Un crinale pericoloso per un Paese che ha quasi un sesto della popolazione mondiale, per lo più in povertà e con scarso accesso ai servizi sanitari. Quell'1 per cento di infetti, una cifra all'apparenza modesta, si traduce in milioni di casi. E il futuro, secondo le Nazioni Unite, è nero: nel 2015 si arriverà a 12,3 milioni di morti.
Quanta solitudine e quanta disperazione per l'India - afferma padre Mathew Purayidom, frate della missione indiana, indiano lui stesso -, se nessuno aiuterà ad abbattere i pregiudizi, a consigliare e a confortare, a insegnare la misericordia. Una sfida per noi frati.
Da qui la decisione di costruire un Centro di cure palliative, cioè di trattamento delle patologie provocate dal virus, con cinquanta posti letto per i malati in stadio terminale, di preparare tre frati a questo scopo e di chiedere l'aiuto delle suore francescane. L'Assisi Snehalaya Hiv/Aids rehabilitation centre sorgerà in una zona cruciale, Ettimadai, nel distretto di Coimbatore, vicino ai distretti di Madurai, Selam, tutte zone di commercio con slum densamente popolati che si trovano nel Tamil Nadu, uno degli stati indiani con più casi di aids. Vorremmo aiutare le famiglie a venire a patti con la malattia, tramite un servizio di counselling, ma soprattutto vorremmo restituire alle persone il diritto a morire con dignità , con tutte le cure possibili, circondati dall'amore. Già da tempo frati e suore francescane fanno apostolato tra i malati. La maggior parte degli assistiti appartengono ad altre religioni. Che cosa significa accompagnare un indù o un musulmano verso sorella morte? Padre Mathew accoglie con un sorriso la provocazione: Significa semplicemente stargli accanto, stringergli la mano. Sa che cosa ci ha detto uno di loro? Finalmente attraverso di voi ho visto il volto del mio Dio. Che regalo ci ha fatto!.