Dignità e lavoro per fuggire dalla strada
La «Copperbelt Province» è una vasta regione dello Zambia, composta da dieci distretti, famosa non solo per essere il luogo in cui si produce più rame al mondo (copper in inglese significa «rame»), ma anche perché è il centro delle attività commerciali e industriali del Paese. La vivace economia ha richiamato nelle città molta gente dalle campagne, provocando un inurbamento selvaggio che ha messo in ginocchio i principali servizi: la sanità, la scuola, la rete idrica, i collegamenti stradali. Due fatti recenti – la privatizzazione delle miniere e il taglio di molti posti di lavoro – hanno peggiorato la situazione economica e sociale. Oggi due terzi degli abitanti dello Zambia vivono in povertà. Inoltre dilaga l’aids: sedici contagiati ogni cento abitanti, più di 600 mila orfani; sono cifre che relegano lo Zambia tra i Paesi con il più alto tasso d’incidenza della malattia al mondo.
Ndola, il luogo in cui è stato realizzato il progetto che vi presentiamo, con i suoi 600 mila abitanti, è la seconda città della Copperbelt Province. Girando per le sue strade, i mali di questo territorio sono particolarmente evidenti. In periferia continuano a crescere i quartieri illegali e degradati, che possono arrivare a ospitare più di 40 mila abitanti abusivi (squatters). È in questo contesto che opera «Ipusukilo street woman rehabilitation club», un progetto per il recupero delle prostitute dei quartieri poveri della città.
Alle radici del progetto
Il progetto, nato nel 1999, è stato voluto dalle suore francescane missionarie di Assisi e dall’«Associazione Papa Giovanni XXIII», fondata da don Oreste Benzi, e presente in Zambia dal 1985.
«Eravamo preoccupate – racconta Maria Mercedes Rossi, responsabile del progetto – per il crescente numero di ragazze che si prostituivano: vivevano in condizioni davvero disperate. Abbiamo deciso di andarle a incontrare di notte, nei bar e nelle taverne. Quindici di loro si sono avvicinate a noi per avere un supporto spirituale. Tutte avevano storie difficili alle spalle: alcune erano orfane, altre avevano fratelli e sorelle più piccoli da sfamare, altre erano vedove dell’aids, altre ancora ragazze madri con due o tre figli. In Zambia è difficile per una donna sola trovare lavoro e un modo per sostenere la prole. La vendita del proprio corpo rimane, a volte, l’unica risorsa».
Le quindici ragazze sono state seguite da due operatrici per tre mesi. «Dovevano essere coscienti che la strada della prostituzione non le avrebbe portate a nulla – continua Maria Mercedes –; solo allora sarebbero state pronte ad affrontare un processo di cambiamento». Un processo culminato nella frequentazione di un corso professionale e nell’inserimento in uno schema di microcredito: le donne hanno avuto cioè la possibilità di ottenere un piccolo prestito per finanziare un’attività in proprio (comprarsi, per esempio, la macchina da cucire o il materiale per realizzare oggetti d’artigianato). C’è chi è diventata fiorista, chi cuoca, chi maestra d’asilo, chi artigiana, chi sarta. «Sono loro a dirci che cosa vogliono diventare, e noi cerchiamo di assecondarle».
Il risultato è stato eccezionale: otto di loro oggi lavorano in proprio e riescono a guadagnare abbastanza da sostenere la famiglia; una è impiegata presso la casa di ospitalità diocesana; sei non sono ancora del tutto autonome e, per ora, lavorano presso la mensa aziendale della «Mission Press», una tipografia gestita dai frati francescani. Esperienza, quest’ultima, che ha permesso a due di loro di aprire un’altra mensa in città, sempre per conto dell’«Ipusukilo street woman rehabilitation club» e di assumere un’altra ragazza appena uscita dalla strada. «Alcune donne sono positive all’hiv e hanno bisogno anche di aiuto psicologico e cure mediche. Abbiamo cercato di metterle in contatto con altri progetti di assistenza collegati all’aids».
Solidarietà tra donne
Risultati importanti, che si stanno moltiplicando nel tempo. «Qualche anno fa – continua Maria Mercedes –, le ragazze ci hanno chiesto di fare qualcosa in favore delle compagne ancora sulla strada. Volevano offrire il loro esempio per aiutarle a recuperare la dignità e il vero senso della vita». Hanno formato un gruppo e sono andate di notte nelle strade, teatro della loro vecchia vita: «Quella sera stessa abbiamo incontrato venti donne – racconta la responsabile del progetto –. Il giorno dopo, già dodici di loro ci chiedevano un aiuto; alcune erano venute con altre compagne. Oggi sono in trenta a seguire i nostri corsi per rafforzare la loro volontà di uscire dalla prostituzione. Le donne del primo gruppo le aiutano finanziariamente, pagando ogni mese il cibo e le rette scolastiche dei loro figli. Ogni giorno ci arrivano nuove richieste, ma noi non ce la facciamo a rispondere a tutte. È già difficile continuare il percorso con le donne che abbiamo. Per questo vi chiediamo un aiuto». Le richieste sono molte: una sede per il progetto, il pagamento delle rette scolastiche (ogni donna ha almeno due figli) e di alcuni corsi, l’acquisto di materiale per i laboratori professionali, l’affitto di un negozio per un anno per esporre e vendere i manufatti artigianali ecc. Tra tutte, Caritas Antoniana ha scelto di donare 4 mila 200 euro per aumentare il fondo rotativo, cioè il denaro per i prestiti, in modo da offrire a un numero maggiore di donne la possibilità di avviare delle piccole imprese casalinghe. «Ogni donna – afferma padre Valentino Maragno, direttore della Caritas Antoniana –, restituendo il prestito, consentirà a un’altra donna di cambiare la propria vita. Un circolo virtuoso che potrà far fruttificare la generosità dei lettori.