Dios les pague

La domanda sul senso del dolore è uno dei grandi interrogativi dell’uomo di sempre. Il dolore pone problemi, apre interrogativi, può creare scandalo. Occorre, però, riflettere sul significato profondo della sofferenza, per passare dal grido dello scandalo
13 Aprile 2000 | di

Sulla carta geografica dell`€™Ecuador, San Nicolà s non si trova. Da quanto scrivono Peppo e Adriana Piovanelli, due coniugi bresciani, missionari in Ecuador da oltre 20 anni, la località  in cui ora vivono dev`€™essere un puntino microscopico vicino a Pujili, una cittadina delle Ande sopra i 3200 metri, nella regione del Cotopaxi. Un posto sperduto, a un centinaio di chilometri a sud della capitale, Quito, popolato in maggioranza da contadini poveri di origine quechua. Per strano che possa sembrare, la nostra solidarietà  è arrivata fino a lassù, da dove, giurano i coniugi Piovanelli, si stenta a percepire il grido dei poveri: «La voce della povertà  `€“ scrive Adriana `€“ è sommersa, è appena udibile, è solo un lamento, un canto come di ninna nanna... questa povera gente indigena, contadina, canta questa flebile nenia quando soffre, un pianto nel silenzio...».
Scorrono queste righe e vengono in mente le Ande, il cielo corrucciato di montagna, la vegetazione verde scuro e rada d`€™alta quota, il volo del condor nel silenzio. La missione cambia l`€™anima, il punto di vista, la sensibilità . Una triste nota di poesia invade le lettere, i documenti, le foto.
I rapporti con la famiglia Piovanelli risalgono al 1997. Per caso, scrissero al «Messaggero» e padre Giacomo Panteghini, il direttore di allora, scomparso di recente, recapitò la lettera alla Caritas antoniana. Fu, per Peppo e Adriana, il segno della provvidenza. Da quasi un anno, essi stavano affrontando una situazione difficilissima: un terremoto aveva distrutto il collegio-scuola professionale «Juan Pablo II» per ragazzi poveri e aveva raso al suolo le baracche di anziani e malati. La nenia dei poveri si era levata, eppure nessuno dalla capitale aveva mosso un dito
La casa di oltre 300 anni, che ospitava il collegio, era completamente inagibile; in pochi minuti era sparito l`€™unico centro professionale bilingue, quechua e spagnolo, che valorizzava la cultura indigena e insieme offriva formazione umana e la conoscenza del mestiere di falegname o di scultore del legno. Era frequentata da oltre 250 ragazzi, 60 vivevano nel collegio. Questi ultimi, non si diedero per vinti. Dormirono per mesi sotto le tende, sfidando la pioggia, il freddo, il sole. I vecchi, a loro volta, versavano in una situazione disperata. «Due anziani coniugi `€“ raccontano Peppo e Adriana `€“vivevano in una catapecchia di legno, plastica e fango. Gelida e piena di buchi. Abbandonati da tutti, anche dai figli, che abitavano lontani. Soffrivano di stenti e di freddo... la povertà  li aveva come accartocciati. Volevamo regalargli una casetta in muratura, ma non abbiamo fatto in tempo. L`€™uomo morì di polmonite, rimase Maria. Un`€™icona raggrinzita di dolore». La casetta per Maria e per altre 34 persone come lei diventò un`€™urgenza dell`€™anima. Ma anche il collegio per i ragazzi non poteva aspettare.
I giovani e i vecchi, l`€™alfa e l`€™omega della vita, s`€™incontravano nello stesso disagio e nello stesso dolore. Si rafforzò il senso di comunità , così profondo, così viscerale per gli indios, i quali per cultura si sentono figli della stessa Madre terra. Quando arrivarono i finanziamenti della Caritas antoniana, 122 milioni di lire in 4 rate, fu una vera festa e il canto di dolore si trasformò in un sussurro di gioia, in un impalpabile ringraziamento ...Dios les pague... «Dio vi ricompensi», le tipiche parole di gratitudine dell`€™indio povero. La frase è ripetuta in ogni lettera, in ogni ricevuta, in ogni foto, come un richiamo, come una preghiera.
Dopo lo studio e il lavoro, ognuno metteva a disposizione la sua opera, senza mai sottrarsi. L`€™inflazione erodeva il gruzzolo ogni giorno di più, ma loro supplivano alle perdite lavorando con maggior lena. Salivano sulle montagne per procurarsi la legna per le assi portanti del tetto. Sfruttavano le ore dopo cena, la notte e le domeniche. Nel giro di un paio d`€™anni, riuscirono a ristrutturare il collegio: 800 metri quadrati di dormitorio, aule, laboratori, biblioteca, cucina e refettorio. Finalmente le attività  ripresero a pieno regime. Da allora il refettorio ristrutturato è aperto alla comunità  dei poveri. A turno, ben 900 persone `€“ facce scavate dal tempo, bocche senza denti, bambini infreddoliti, ragazze madri `€“, fanno la fila per riempire una scodella di brodo caldo. Poi si siedono sulle panche, gli uni accanto agli altri. Per una volta a tavola, come tutte le persone normali.
Come nella parabola della moltiplicazione del pane e dei pesci, la solidarietà  della gente moltiplicò il valore di quei 122 milioni; furono costruite anche le 35 casette per i poveri: quella per mamma Rosa, la vedova paralitica che vive con i suoi 5 figli piccoli, quella per Isidora, la vecchietta che abita con un nipotino e un cagnolino color caffelatte, per Letizia e la sua figlia muta, per Ofelia, madre di 3 piccoli, per José e Celia, vecchi e poverissimi che vivevano in un tugurio di paglia, plastica e latta. Per ringraziare chi li ha aiutati, non hanno usato le parole. Si sono messi in posa davanti alle loro nuove case, dignitosi nella loro povertà , per regalare ai fratelli lontani l`€™immagine silenziosa della loro gratitudine.
Dios les pague.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017