Genius Loci. L'Italia dei talenti

Esiste un’Italia laboriosa, creativa, a volte decisamente geniale, che sa inventare nei territori opportunità di rilancio economico e sociale e che sa guardare al futuro con le radici in un grande passato.
27 Aprile 2011 | di

Che Italia siamo? Ce lo stiamo chiedendo un po’ tutti in questo primo squarcio di millennio, scosso dalla crisi economica e sociale e dal rafforzarsi dei particolarismi. Una domanda ancora più opportuna in questo 150º dell’Unità d’Italia così controverso. Siamo l’Italia dell’illegalità diffusa, dell’individualismo esasperato, della furbizia assurta a virtù, del provincialismo esibito, della gazzarra in parlamento, del rampantismo senza etica, della volgarità ostentata, oppure, al contrario, siamo l’Italia laboriosa e creativa, ricca d’arte e cultura, di borghi antichi e piccole e medie imprese, di prodotti tipici e sapiente artigianato, di volontariato e tradizioni solidali, un’Italia radicata nel territorio, ma aperta al confronto, orgogliosa della sua bellezza e della sua storia?

Dalla risposta a questa domanda dipende il futuro economico e sociale del nostro Paese. Ne è convinto Mauro Magatti, economista e preside di Sociologia alla Cattolica di Milano che fa parte del comitato scientifico del «Progetto Genius Loci», archivio della generatività italiana. Un archivio, promosso dall’Istituto Don Sturzo, nel quale si stanno raccogliendo, dall’ottobre scorso, esperienze e modelli della «buona Italia», l’Italia che già oggi genera valore e valori, che fa impresa senza tralasciare solidarietà e cura per il territorio. «Non usciremo mai da questa crisi economica e sociale mettendo insieme i cocci del passato o, peggio, facendo finta che non sia successo nulla. Non ne usciremo affidandoci solo all’efficienza, alla produttività e alla tecnica. Bisogna puntare invece sulle nostre vocazioni che hanno radici millenarie. Alcuni modelli, alcuni modi di produzione, di organizzazione del territorio, sono specifici della nostra storia. Quando un cinese viene in Italia e vede le nostre città, i nostri distretti industriali, un certo modo di lavorare, rimane a bocca aperta. È un retaggio unico e inimitabile, basato sulla ricerca della qualità. La tecnologia e la quantità sono invece più facilmente acquisibili, quindi se puntiamo solo su queste non potremo mai competere».
 
Ritorno al futuro
Il filo rosso che lega tutte le esperienze contenute nell’archivio Genius Loci è il concetto di generatività, che non è solo capacità d’impresa, ma è forza creatrice aperta al bene comune, un po’ come accade ai genitori quando mettono al mondo un figlio. Tre sono i tipi di esperienze presi in considerazione: le realtà del terzo settore (associazioni, cooperative, Onlus, Ong) più efficaci e innovative; le imprese il cui scopo non è solo fare profitto ma generare benessere nel territorio in cui sono inserite; le politiche portate avanti sia da amministrazioni locali che da soggetti sociali, che si sono distinte per la capacità di proporre nuove soluzioni ai problemi.
Al centro dell’agire delle realtà e imprese generative c’è la capacità di stringere alleanze inedite con i soggetti significativi e le risorse del territorio, creando un sistema integrato e virtuoso.
«Noi partiamo dall’idea che don Sturzo (fondatore del Partito popolare) ebbe, ormai cent’anni fa, rivisitandola con gli occhi di oggi. Anche allora l’Italia era in crisi e la Chiesa non aveva grande voce in capitolo, eppure don Sturzo iniziò a girare per i territori cercando le forze migliori dell’Italia del suo tempo: le mutue, le banche agricole, le cooperative, le singole azioni caritative, per trovare nella carne della società le parole di riferimento. Oggi, in assenza di istituzioni credibili, solo la Chiesa può farsi carico di questo. E così siamo tornati sui territori alla ricerca dell’Italia che funziona, per trovare le parole di riferimento e immaginare nuove prospettive. Ci siamo resi conto che una via d’uscita a questa crisi non si può inventare dal nulla, ma deve partire da ciò che già esiste, provando a capire cos’ha l’Italia di particolare e unico da offrire al mondo».
 
Il genio dei territori
E così Daniele Kihlgren, filosofo e imprenditore, rileva un intero borgo in rovina, incastonato nelle montagne abruzzesi e inventa Sextantio, un «albergo diffuso», apprezzatissimo dalla clientela internazionale grazie al suo restauro accurato, che fa rivivere atmosfere e paesaggi medievali. Presto arriva anche il successo economico, che porta l’imprenditore a rilevare altri dieci borghi abbandonati, con grande beneficio per i territori in cui sono ubicati.

Su tutt’altro versante, la famiglia Cappelluti riesce a trasformare il dolore della perdita del figlio Christian in una esperienza generativa di grande valore sociale in favore dei ragazzi di Anzio (RM). Regalano al Comune il «Chris Cappell College», la struttura scolastica più all’avanguardia del nostro Paese e, tramite una fondazione, sostengono la scuola e organizzano progetti che coinvolgono un gran numero di giovani del territorio. A Milano, la onlus Jonas trova un modo originale per rendere accessibile a tutti la psicoanalisi, che è di fatto terapia d’élite: il lavoro nel territorio dimostra il grande bisogno di affrontare adeguatamente disagi come depressione, disordini alimentari, dipendenze e iperattività infantile.

A Padova, Parinum, progetto gestito dalla Facoltà di Scienze della formazione, parte da specifiche richieste delle imprese e delle amministrazioni pubbliche e coinvolge in modo concreto università e giovani specializzandi. Per i ragazzi è un’occasione di crescita professionale e umana; per l’università, un’opportunità di ritagliarsi un nuovo ruolo di ricerca e di crocevia di saperi; per il territorio è una strada innovativa per incrementare il livello di eccellenza e competitività.
La domanda che sorge spontanea è se tutte queste esperienze siano frutto di un pugno di volenterosi e di sognatori o se invece siano le avanguardie di una realtà molto più vasta, che coinvolge un gran numero di persone e territori.
«Il progetto Genius Loci, archivio della generatività – continua Magatti – ha avuto una gestazione di un anno, necessaria per creare dei criteri scientifici di selezione delle esperienze. Una volta partiti abbiamo avuto decine e decine di segnalazioni spontanee, come se una fetta importante d’Italia avesse finalmente trovato un luogo dove esprimersi. Cosa che ci ha piacevolmente sorpresi. Nei protagonisti di queste esperienze c’è entusiasmo ma anche molta rabbia, perché le istituzioni non sono in grado di cogliere il valore del loro operato. La tentazione è quella di rinchiudersi in se stessi. Ho la sensazione che questa parte d’Italia sia molto più vasta e radicata di quel che si potrebbe sospettare. Solo che non ha saputo o potuto rendersi visibile, creando un’egemonia culturale. L’Italia rappresentata dal nostro archivio non solo già esiste ma è quella su cui politica e società dovrebbero investire. Non si tratta semplicemente di una scelta etica, ma forse dell’unica scelta possibile».
www.generativita.it


SE L'UNIONE FA LA SALUTE
di Cinzia Agostini
 
Un poliambulatorio pubblico, efficiente e aperto dieci ore al giorno, è diventato un centro propulsore di servizi e di cultura sanitaria. A volerlo, nove medici di famiglia, accomunati da un’idea.
 
Promuovere sviluppo, creare valore, dar vita a un qualcosa che continui nel tempo. Sono consapevoli di quanto l’idea iniziale sia cresciuta e abbia mutato gli orizzonti della loro provincia – aprendoli e ampliandoli – i medici di «Alassio Salute». Un progetto, il loro, entrato a buon diritto tra le esperienze selezionate dall’Istituto Don Sturzo per l’archivio della generatività italiana. «Penso che ci abbiano scelto per aver fondato una realtà di valore etico, radicata e innovativa, che ha attirato l’attenzione delle istituzioni ed è servita da traino per altre iniziative».
Chi parla è Francesco Bogliolo, il presidente di questa srl (società a responsabilità limitata) nata il 1° febbraio 2004 per volere di nove medici di famiglia, unitisi in un centro sanitario pubblico, aperto sette giorni su sette, per dieci e a volte dodici ore al giorno. «Per garantire questa copertura assistenziale bisogna essere organizzati e numerosi – continua Bogliolo –. Il gioco di squadra è essenziale, le competenze diverse si integrano; una sinergia che ha alle spalle una visione condivisa degli obiettivi. Ciascuno impara qualcosa dall’altro, così se ne avvantaggia anche la qualità della cura, oltre che la quantità. Si perfeziona il professionista, cresce la “produzione di salute”, migliorano le prestazioni per i nostri pazienti».
 
Medicina d’iniziativa
Il centro garantisce innumerevoli servizi: front office per il primo ascolto (diventato un punto di riferimento per l’intera città e non solo in ambito sanitario), cartelle cliniche informatizzate, centro unico prenotazioni per conto dell’Asl, centro prelievi (anche a domicilio per pazienti non deambulabili), primo soccorso con triage, ambulatori di igiene pubblica, ambulatori specialistici (per il diabete e i rischi cardiovascolari), diagnostica cardiologica ed ecografia di primo livello, ambulatorio di fisioterapia e odontoiatria. L’idea di base è quella del «sentiero di salute» in cui ogni assistito ottiene in modo razionale le prestazioni, con conseguente riduzione dei costi e notevole guadagno per l’Asl che, oltre alla continuità assistenziale sul territorio, vede diminuire i ricoveri impropri in pronto soccorso e le liste di attesa. Il gruppo sanitario garantisce uniformità e appropriatezza sui comportamenti prescrittivi, sull’applicazione delle regole. Si è sviluppata la medicina di iniziativa che, attraverso la prevenzione, aiuta ad anticipare le conseguenze delle malattie, e il centro ha acquistato notorietà in tutto il Paese grazie all’educazione alla pratica sportiva. Il modello di «Alassio Salute» è stato seguito da altri nel savonese: tanto che ora i medici stanno pensando a un consorzio dei centri, che si dedichi prevalentemente alle cure domiciliari.
«Se di questi tempi non abbiamo il coraggio di cambiare le regole del gioco, ognuno nella sua professione, siamo morti – conclude Boglioli –. Oggi è difficile fare il medico di famiglia da solo. Bisogna inventarsi regole nuove perché così chiedono il progresso e il mondo. Se ciascuno ci provasse, credo avrebbero inizio una forza di sviluppo e un’innovazione straordinarie. È ovvio che occorre rimboccarsi le maniche, rinunciare a qualcosa, avere il coraggio di rischiare: ma il risultato – lo vediamo ogni giorno – non ha prezzo».     
 
IL PIONIERE DELL'ENERGIA PULITA
di Alberto Friso
 
Precursore dell’energia alternativa e della valorizzazione dei rifiuti, già trent’anni fa trasformava gli scarti zootecnici in elettricità e humus bio­lo­gico. La vicenda di Antonio Bertolotto da Cuneo, fondatore di una società leader nel settore ambientale.
 
Questa è una storia di ingegno, caparbietà e, alla fin fine, di lungimiranza. Una storia color verde come l’ambiente, bruno come la terra e il concime, ma anche indistinto come i rifiuti in un immondezzaio. Una storia che ha radici profonde e ben localizzate, nella campagna piemontese di fine anni ’70, provincia di Cuneo, a un passo dal confine francese. Il protagonista è Antonio Bertolotto, oggi amministratore di una società da 40 milioni di fatturato e 150 giovani dipendenti, la Marcopolo Environmental Group, attiva nell’energia verde. Nel periodo in cui la vicenda ha inizio, Bertolotto è un giovane allevatore e commerciante di vitello piemontese tra Italia e Francia. La svolta nel 1976, con la legge Merli a imporre precisi limiti sul numero di animali allevabili per ettaro. «D’un tratto – ricorda – noi allevatori ci siamo trovati tutti fuori legge, senza i terreni equivalenti.

Quando mi sono reso conto di essere obbligato a smaltire i liquami in modo non legale, ho rifiutato di portare avanti quell’attività. Non volevo essere concausa dell’avvelenamento dei terreni e della falda freatica. Allora ho chiuso tutto e ho realizzato il primo impianto di produzione del biogas». Il procedimento non è troppo complesso: il materiale organico – in questo caso, letame – viene collocato in uno speciale serbatoio chiuso, o «digestore anaerobico», dove, in assenza di ossigeno, la naturale fermentazione genera il biogas da bruciare in appositi motori per produrre elettricità. «Ma l’Enel, all’epoca, non mi comprava l’energia come fa invece oggi. Così l’impianto in cui avevo investito tutto fallì. Avevo fatto il passo più lungo della gamba, ma sapevo di essere nel giusto. Il mio pensiero, la filosofia della filiera, il mio modello d’impresa basata sul rispetto dell’ambiente, del prossimo, dell’etica totale, avrebbe avuto i suoi tempi giusti». Nel periodo di pausa forzata dopo il fallimento – era il 1985 –, Bertolotto si mette a studiare, da autodidatta, chimica, biologia, microbiologia e agraria, confrontandosi con i docenti universitari che accettavano di riceverlo. Ma nel curriculum c’è anche un’altra materia: teologia – dogmatica e morale – in diocesi a Cuneo. «Lì ho imparato che la società non è a proprio uso e consumo. La società fa parte di te stesso, e ti risponde per quello che gli dai». Seguono tre anni tra Bolivia e Paraguay, come consulente per le grandi industrie dell’alimentare, a insegnare come recuperare gli scarti delle produzioni di ananas, canna da zucchero, banana, limitando il disboscamento e la desertificazione. Il progetto principale, ideato insieme con una cordata di aziende italiane, prevedeva il recupero dei rifiuti urbani di Santa Cruz, la più popolosa città boliviana. Ma non venne mai finanziato.
 
Elettricità dai rifiuti
Tuttavia, sono proprio l’esperienza maturata nelle discariche e i brevetti registrati in quel periodo a riportare l’esule in Piemonte, nel 1990. «Rientrato in Italia ricco di saper fare, inviai 800 lettere a enti che trattavano i rifiuti. Mi rispose solo Bassano del Grappa (VI): lì realizzai il primo impianto italiano di captazione e distruzione del biogas di scarico con produzione di energia elettrica». A quella prima discarica bonificata ne sono seguite altre quarantuno, per un totale di 50 megawatt installati e un grande calo dell’inquinamento atmosferico e terrestre. Infatti, la decomposizione dei rifiuti produce un gas tossico e nocivo che contribuisce all’effetto serra, al buco dell’ozono e al fenomeno delle piogge acide. Per distruggerlo e produrre energia, bisogna mettere in sicurezza la discarica e realizzare i pozzi di captazione, utili per convogliare il gas, che viene quindi depurato e bruciato nei motori. Se per riempire una discarica ci si impiega dieci-quindici anni, la produzione di biogas prosegue anche fino ai trent’anni successivi.

È stato calcolato che i quarantadue impianti di recupero energetico della Marcopolo evitano l’immissione in atmosfera di 12 mila 500 metri cubi di biogas ogni ora, pari al volume di un palazzo di 50 metri d’altezza con base 10 per 25. «Sono solo alcuni dei dati che spieghiamo alle persone, quando individuiamo una discarica da bonificare. Per prima cosa parliamo con i proprietari. A loro garantiamo la messa in sicurezza, la distruzione del gas, la produzione di energia e una royalty del 2 per cento sull’incasso. Poi ci sono i vicini, che odiano la discarica per la puzza, la confusione, o perché magari hanno avuto le piante del giardino bruciate dall’inquinamento che si è infilato nel terreno. Spieghiamo loro che col nostro lavoro nel giro di qualche tempo tutti questi fattori scompariranno. Allo stesso modo, andiamo a trovare il parroco, il farmacista e il commerciante che vende la granaglia agli agricoltori della zona. Creo un’opinione positiva nella società. È il nostro saper fare. Perché quando vai in casa d’altri devi diventare di quel posto: io non faccio il colonizzatore».
 
Il ritorno al bovino
Ma le discariche non sono l’unico campo d’azione della Marcopolo, che sta diversificando la propria attività con interventi nel fotovoltaico, eolico, geotermico, idroelettrico. E, soprattutto, con impianti di recupero energetico delle deiezioni zootecniche. Per Bertolotto è la chiusura del cerchio, perché dopo trent’anni torna al punto di partenza, ovvero quei letami in eccesso prodotti dagli allevamenti che ancora, con la nuova normativa nitrati europea, arrivano a essere il 30-40 per cento del totale. Marcopolo acquista questo surplus, lo ritira in loco, lo pesa, verifica, campiona, lo fa decomporre per sessanta giorni nei digestori anaerobici, dove produce il biogas e quindi l’energia elettrica sufficiente a sostenere i consumi medi di 2.500 famiglie. Il tutto avviene nell’impianto inaugurato lo scorso luglio non distante dalla sede principale di Borgo San Dalmazzo, a Vignolo (CN), il primo esempio al mondo di centrale di valorizzazione delle biomasse zootecniche di filiera a ciclo chiuso. Nel frattempo un impianto gemello è partito ad Alessandria e altri diciotto sono a piano. «Lavoriamo con allevatori di filiere di qualità, che hanno firmato il disciplinare dei formaggi dop, come il grana o il castelmagno, perché se l’animale si nutre bene fa deiezioni pulite, e anche il biogas è migliore.

Sostenendo questi allevatori, ai quali garantiamo contratti ventennali, sosteniamo le tipicità e le eccellenze italiane, risolvendo loro un grave problema». Ma non è finita qui, perché il digestato, ovvero la biomassa che rimane dopo i sessanta giorni, viene ancora trattato e integrato, fino a ottenere un ristrutturante microbiologico dei terreni, conosciuto sul mercato con il marchio registrato di «humus anenzy». «È un prodotto senza patogeni, con proprietà fitoterapeutiche e ricco di microrganismi, che serve per degradare i residui chimici presenti nel terreno agricolo». Tant’è che diversi presidi Slow Food lo usano per garantire la massima qualità ai propri prodotti. Gli intrecci sono tanti in questa filiera, che se per definizione è chiusa, in realtà sembra allargarsi all’intera società, in modo positivamente contagioso. «Il futuro – conclude l’imprenditore – è andare a trattare quelle sostanze che se non vengono trattate creano problema». Come, ad esempio, le scorie radioattive di cui tanto si parla dopo il disastro giapponese. A Bertolotto brillano gli occhi. «Io un’idea ce l’avrei, tirando in campo la biologia…». Vuoi vedere che da Cuneo salta fuori una soluzione inedita anche per gli scarti del nucleare?      
 
NON SOLO «DAR CASA»
di Laura Pisanello
 
Se i nomi delle strade, via Beato Angelico, piazza Guardi, ci portano nel cuore della storia dell’arte italiana, basta percorrere queste strade di Milano per accorgersi che la città è già multietnica. In via Canaletto, 10 (in fondo a un cortile) ha sede la cooperativa Dar=Casa. Dar in arabo significa appunto casa e la scelta di questo nome si deve alla finalità: mettere a disposizione case in affitto soprattutto per gli immigrati.
Una corte luminosa, sette persone impiegate e una decina di volontari che lavorano in uffici pieni di storie e di colore. Nel 1991 un gruppo di persone volle dare una risposta concreta, attraverso un’impresa sociale, al problema abitativo degli immigrati. Vent’anni di fatiche hanno consentito di affittare a immigrati circa 220 alloggi a canone calmierato (circa 50 euro al metro quadro, quindi fra i 350 e i 400 euro mensili per un bi-trilocale).Dar=Casa ha provveduto in questi anni a impegnative ristrutturazioni di alloggi avuti in comodato da enti pubblici (soprattutto Comuni o Aler) o, in piccola parte, ha acquistato alloggi e li ha quindi assegnati ai soci. E questo ribaltando spesso luoghi comuni e pregiudizi di chi temeva che il proprio quartiere venisse così ulteriormente svalutato.
«Nel caso del quartiere Quarto Oggiaro per esempio – racconta l’architetto Sergio D’Agostini, attuale presidente della cooperativa Dar=Casa – le case che abbiamo affittato vengono additate come modello di integrazione. Quindici anni fa il Comune ci assegnò lo stabile in condizioni di degrado, con macerie e mura “lastrate” per evitare occupazioni abusive. I comitati di quartiere erano all’inizio contrari al nostro intervento, ma poi si sono completamente ricreduti». La cooperativa può soltanto affittare ai soci, si finanzia attraverso i prestiti delle banche e grazie al deposito degli stessi soci. L’intervento più importante sul patrimonio pubblico è quello del quartiere Stadera, su una di quattro corti dove sono stati realizzati quarantotto alloggi.
«Con altre cooperative – prosegue D’Agostini – abbiamo fatto un intervento, il Villaggio Grazioli, di nuova costruzione su area industriale dismessa, che ci ha consentito di avere altri ventuno alloggi». E presto saranno disponibili nel quartiere San Siro ulteriori quindici alloggi sempre affidati da Aler alla cooperativa Dar=Casa.

Un altro aspetto da non tralasciare è l’attenzione che la cooperativa mette nell’accompagnamento delle persone immigrate. «Lavoriamo in maniera coordinata con i servizi sul territorio – precisa Sara Travaglini, sociologa, dal 2005 impegnata nella cooperativa –. Non ci limitiamo a dare una casa, ma cerchiamo di rispondere alle varie esigenze, di contenere la morosità e di favorire relazioni. A Stadera, per esempio, abbiamo organizzato murales interculturali insieme alle scuole del quartiere e realizzato un video che racconta esperienze di donne straniere, in collaborazione con l’associazione Il telaio e il gruppo Tutti i mondi».
Ci sarebbero tante storie belle da conoscere: «Un nostro socio, un profugo dal Congo – racconta Sara – ha appena ottenuto la cittadinanza italiana e ciò anche grazie alla continuità abitativa. Ora potrà ricongiungersi ai suoi figli. Uno degli ultimi progetti sperimentati, anche alla luce della crisi occupazionale degli ultimi due anni, è quello di mettere in rete le competenze professionali dei soci, aiutandoli a trovare delle opportunità di lavoro anche temporanee. Cerchiamo di far emergere le loro capacità che sono generalmente più elevate rispetto al lavoro che hanno da noi».
Conclude D’Agostini: «Ci saremmo aspettati una maggiore rispondenza da parte delle amministrazioni pubbliche che hanno grandi patrimoni inutilizzati. Abbiamo sempre pensato che il risultato positivo avrebbe portato altre cooperative a fare altrettanto. Invece siamo stati molto lodati, ma troppo poco imitati. Basterebbero altre dieci cooperative come la nostra e l’offerta per Milano sarebbe già significativa». Tante gocce possono fare un mare.
           
ARIA NUOVA IN SALENTO
di Nicoletta Masetto
 
Un grande Comune virtuale. Con una sfida ancora più alta: diventare il centro più popoloso del Salento. Anche più grande del capoluogo, Lecce, che conta ben 100 mila abitanti. L’idea reca la firma degli studenti delle terze e quarte classi dell’istituto tecnico commerciale «Costa» di Lecce. Partita a dicembre con la creazione su Facebook del gruppo «Salentini Sparpagghiati» (sparpagliati, sparsi nel mondo), l’iniziativa conta oggi più di 2.500 iscritti.
E così capita che ogni sera i salentini sparsi nel mondo si ritrovino per una chiacchierata, magari anche in dialetto e senza spostarsi da casa, chi a New York, chi in Australia e chi a Londra.
Basta accendere il computer e collegarsi al sito www.salentide.it.


Un sogno realizzato dagli studenti del «Costa» nell’ambito di Arianoa («aria nuova» nel dialetto locale), una società cooperativa a responsabilità limitata voluta per creare un inedito raccordo scuola-lavoro. «“Salentide” potrebbe diventare il Comune più popoloso del Salento – spiega l’anima di questo progetto, il professor Daniele Manni, docente di informatica –, basti pensare alle tante persone che, negli ultimi sessant’anni, si sono allontanate per lavoro e agli studenti che hanno deciso di frequentare l’università altrove. Oltre alla piazza virtuale, a Salentide funzionerà l’anagrafe, con i dati e i luoghi di origine e di lavoro di tutti i cittadini. Ci sarà anche una descrizione delle attività, commerciali e imprenditoriali, che i salentini stanno svolgendo all’estero o in altre parti d’Italia». Scopo primario di «Salentide», e con essa della cooperativa Arianoa, è dimostrare che la creatività può essere una fonte di lavoro, ossia che con l’inventiva, l’impegno e l’uso delle nuove tecnologie i giovani possono crearsi un futuro.
Arianoa nasce con l’intenzione di offrire un’opportunità di lavoro agli studenti della scuola immediatamente dopo il diploma.

L’iniziativa prende avvio come esperimento nel 2004 quando una quinta classe del «Costa» si trasforma in cooperativa di web design e marketing. In pochi anni sforna prima un calendario di promozione turistica e poi alcuni tra i più bei siti internet della Puglia. «I nostri giovani possono esercitarsi a diventare imprenditori, manager, essi stessi creatori di novità sviluppando la loro idea. Alla fine, è sempre più affascinante e più proficuo andare a lavorare fuori dalla propria terra – prosegue il professor Manni –. Io non fermo i miei ragazzi, non li scoraggio. Anzi dico loro: “Andate, apprendete, diventate bravi, ma tornate”». Come ha fatto lo stesso professore, nato in Canada e poi rientrato nella sua terra con il bagaglio di conoscenze acquisite all’estero.
 
Quando le idee hanno le ali
Nel 2004 erano diciotto ragazzi di quinta, oggi sono ben quattro classi di terza e quarta con oltre un centinaio di giovani ad aver dato vita, in questi anni, a numerose idee e progetti che hanno fatto crescere e conoscere Arianoa. «Persino le istituzioni si sono accorte di noi e ci corteggiano – prosegue il professor Manni –. Ciò che piace è il modo di lavorare giovane e immediato».
Tra i progetti di Arianoa c’è «Repubblica salentina», una res publica nel senso letterale del termine, ossia «cosa di tutti». L’obiettivo è quello di promuovere l’arte, la cultura e le tradizioni e sviluppare nuova economia e nuovi e più forti flussi turistici. E, nell’ambito dell’impegno per la costruzione di una società migliore, i figli del Salento hanno creato il movimento «Gpace-Giovani per la Pace», con tanto di manifestazioni organizzate sia a Roma che a Lecce contro tutte le guerre e l’uso dei bambini soldato. I ragazzi si sono trasformati in «poster viventi», per gridare anche visivamente il loro «no» alla guerra. A dimostrazione che da ogni idea buona, coltivata in un territorio, nascono valori che si aprono al mondo.       
 
QUANDO L'IMPRESA É UN GIOCO DA RAGAZZI
di Alessandro Bettero
 
Il successo del Gruppo Loccioni è inscritto nel talento del suo fondatore, Enrico, che ha saputo fondere tecnologia e tradizione. Con lo sguardo al futuro e le radici nel capitalismo illuminato europeo, da Olivetti a von Siemens.
 
Rivedendosi in calzoni corti nelle foto un po’ sbiadite dell’album di famiglia, scattate negli anni Cinquanta del secolo scorso davanti alla casa natale nella Valle di San Clemente, questo self-made-man marchigiano, di umili origini contadine, forse non se ne capacita ancora. Eppure Enrico Loccioni, un «giovanotto di 60 anni», si ritrova oggi a capo dell’omonimo Gruppo anconetano, con sede ad Angeli di Rosora, che fattura oltre 55 milioni di euro all’anno operando sul fronte dell’high-tech per i brand più noti a livello internazionale: Fiat, Siemens, Daimler, Continental, Electrolux, Eni, Bosch, Cisco, Enel. Questo grazie al talento, all’ingegno e alla creatività di oltre 300 collaboratori. Età media 33 anni.
Con la disarmante semplicità dei grandi capitani d’industria e con la contagiosa simpatia di un ragazzino, Loccioni continua a preconizzare scenari immaginifici perché, in fondo, non ha mai smesso di inseguire i propri sogni fin da quando, a bordo della sua Ape, faceva l’elettricista tra le vallate delle Marche, prima di approdare alla corte dei Merloni che hanno scritto la storia degli elettrodomestici in Italia con l’Ariston e la Indesit. È allora che al giovane Enrico, non ancora ventenne, viene il lampo di genio: perché limitarsi a fornire e installare impianti elettrici – si chiede – quando si possono concepire e approfondire con i clienti nuove soluzioni tecnologiche cucite su misura? Il concetto appare rivoluzionario. L’idea si trasforma presto in un progetto industriale che va ampliandosi negli anni. Enrico trova in sua moglie Graziella non solo l’amore di una vita, ma anche la donna che condivide con lui sogni, sfide e passioni. E con lei, più tardi, anche i figli Maria Cristina e Claudio. L’azienda cresce e pr

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017