I 60 anni del Cuamm. Andate e curate gli infermi
Pochi festeggiamenti e molti fatti. Per «Medici con l’Africa Cuamm» – la prima organizzazione non governativa in campo sanitario in Italia, nata a Padova il 3 dicembre del 1950 – l’occasione del sessantesimo anno dalla fondazione non serve a mettersi in mostra ma, come afferma don Dante Carraro, l’attuale direttore, «a trasmettere la passione che ci anima da così tanto tempo, a far conoscere l’Africa e i suoi drammi e, soprattutto, le risposte che in questi anni di lavoro accanto e insieme agli africani siamo riusciti a costruire».
In sessant’anni di attività il Cuamm, il Collegio universitario aspiranti medici missionari – che dal 2002 ha aggiunto al suo nome un significativo «Medici con l’Africa», a sottolineare lo stile collaborativo del suo impegno e l’opzione per l’Africa – ha inviato in missione 1292 tra medici e operatori, ha realizzato 160 programmi principali in 40 Paesi del mondo, raggiungendo la stratosferica cifra di 4330 anni di servizio effettuato. Attualmente è presente in 7 Paesi africani con 80 volontari, 37 progetti principali e un centinaio di minori in 25 distretti sanitari.
Nato come un semplice collegio per studenti italiani e stranieri desiderosi di dedicare un periodo della propria carriera a servizio degli ospedali missionari, all’inizio il Cuamm non era un’istituzione di cooperazione. Fondato dal professor Francesco Canova, un medico, con l’appoggio dell’allora vescovo di Padova Girolamo Bortignon, traeva ispirazione dal motto evangelico Euntes curate infirmos, «Andate e curate gli infermi».
«Anch’io sono stato attratto da quel motto – racconta don Luigi Mazzucato, presidente dal 1955 al 2008, e oggi memoria storica del Cuamm –. In verità, quando il vescovo mi mandò a dirigere il collegio, fresco di sacerdozio, poco o nulla sapevo di questa realtà». Però aveva 28 anni, don Luigi, era quasi un coetaneo di quei giovani medici di cui doveva prendersi cura e, elemento non trascurabile, era l’epoca della contestazione. «Il Cuamm era effervescente – ricorda l’anziano patriarca –, c’erano ragazzi da ogni parte del mondo, cosa rara in quell’epoca, e c’erano le assemblee fiume fino a tarda notte, che mettevano in discussione tutto: dal modo in cui gestivo il collegio al ruolo che doveva avere un medico in missione». C’erano anche forti tensioni: «Molti degli studenti venivano da Paesi ancora sotto il regime coloniale, alcuni addirittura in guerra tra di loro. Un miscuglio di lingue, culture, religioni diverse. A volte non era facile». Eppure il Cuamm è sempre stato una palestra di vita, una scuola di alterità come poche: «Sono entrato subito in sintonia con i miei ragazzi. Insieme a loro ho imparato uno stile: quello dell’accoglienza, del rispetto, del dialogo, della capacità di cogliere la ricchezza del diverso. La loro passione è diventata la mia e a essa ho dedicato la vita».
La svolta di Nyeri
Tutto era pronto per una grande svolta, che ebbe come teatro il primo convegno dei medici del Cuamm a Nyeri, in Kenya. Correva l’anno 1968, era appena finito il Concilio Vaticano II e papa Paolo VI aveva emanato la Populorum progressio, l’enciclica che affermava la centralità e la mondialità della questione sociale: «Mi invitarono a parlare dei nuovi documenti – racconta don Luigi – e io “friggevo” dalla voglia di andarci. Il vescovo accolse la richiesta titubante, poi lesse in faccia la mia delusione e mi disse, col suo tipico accento veneto: “Va ben, va ben”. Che sollievo».
Il Cuamm non era più solo il collegio che mandava i medici in missione con la letterina del vescovo, ma li seguiva sul campo e orientava la loro azione. Al convegno i medici missionari chiesero di poter intervenire sulle strutture sanitarie in cui operavano, di consentire l’ingresso del personale locale e, soprattutto, di integrare le strutture missionarie con il servizio sanitario pubblico e con i piani sanitari dei governi: chiedevano insomma a gran voce una sanità condivisa dalla gente locale e accessibile a tutti, che diventasse capitale sociale e culturale per l’intero Paese. «Quello fu il nostro Sessantotto» chiosa don Luigi.
Non fu questo il solo caso in cui la storia del Cuamm s’incrociò con quella della cooperazione in Italia. A cavallo tra gli anni ’60 e ’70 l’istituzione diventò un centro di relazioni con i Paesi di missione, ma anche con le istituzioni: «Eravamo come un porto di mare, qui ogni occasione era buona per incontrare qualcuno, anche ad alti livelli. All’epoca avevamo coraggio, scrivevamo a tutti, ministri compresi». Don Luigi lo omette, ma chi oggi, in occasione dei sessant’anni, sta ordinando l’archivio storico del Cuamm, ha avuto un soprassalto quando ha trovato il carteggio tra la direzione e l’onorevole Fernando Storchi nel quale si concordavano le linee guida della legge n. 1222/71, la stessa che nel 1972 portò al riconoscimento del Cuamm da parte del ministero degli Esteri come organizzazione idonea a svolgere incarichi di cooperazione diretta con i governi e le autorità pubbliche, la prima in assoluto in Italia. Era un sogno che diventava realtà e che ha portato a una ricchissima fase di progetti-Paese, di programmi cioè posti all’interno di accordi bilaterali tra l’Italia e i Paesi interessati.
Ma ci sono stati anche i momenti difficili, come quando il Cuamm decise di lavorare in Mozambico: «Avevamo ricevuto la richiesta da pochi mesi – ricorda don Luigi –, quando il Paese proclamò l’indipendenza dal Portogallo e si diede un governo ideologico che scacciò tutti i missionari dal suo territorio. Ci guardammo in faccia. E adesso che facciamo? Tutti fuori e noi dentro? Ma lì c’era estremo bisogno e rischiammo». Una scelta che fece conquistare al Cuamm la fiducia e la stima del Paese, come accadde quando l’istituzione entrò in Angola, in un momento di tregua apparente della guerra che aveva messo in ginocchio il Paese: «Dovevamo ripristinare degli ospedali nella provincia di Uige e in quel caso ci aiutò anche la vostra Caritas Antoniana. Ma una volta sul posto ci trovammo in mezzo alla bufera». Non è mancato chi ha perso la vita in queste missioni, a causa di incidenti o di epidemie devastanti, ma anche le difficoltà vissute accanto agli africani giorno per giorno nei luoghi più poveri e abbandonati del mondo hanno creato legami forti e consentito a milioni di persone di sopravvivere: «Se siamo riusciti a guadagnarci la fiducia – conclude don Luigi – è perché abbiamo sempre cercato di lavorare con rispetto, dedizione e professionalità. Non ci siamo mai fatti condizionare da nulla e da nessuno: per noi l’Africa e la salute della sua gente sono e sempre saranno ciò che ci sta davvero a cuore».
Notes. La collaborazione con Caritas Antoniana
Da molti anni Caritas Antoniana, l’istituzione di solidarietà dei frati del Santo, sostenuta dai nostri lettori, collabora con «Medici con l’Africa Cuamm». «Li abbiamo sempre ritenuti dei partner affidabili – afferma padre Valentino Maragno, direttore di Caritas Antoniana – e in linea con i principi della nostra solidarietà, a favore degli ultimi fra gli ultimi. Ricordo che in occasione del loro cinquantesimo celebrammo l’anniversario in Basilica insieme ai medici e che i nostri chiostri ospitarono per un mese la mostra fotografica dei loro progetti».
Ecco alcune delle più importanti realizzazioni sostenute da Caritas Antoniana negli ultimi anni.
- 2002 Dar es Salaam, Tanzania. Progetto «Nascere senz’Aids». Contributo: € 200 mila.
Angola, campagna contro la Tbc. Contributo: € 155 mila.
- 2003 Dar es Salaam, Tanzania. Fondo di microcredito per ammalati di Aids. Contributo: € 200 mila.
- 2006 Uige, Angola. Ristrutturazione ospedali Damba e Maquela Do Zombo. Contributo: € 227 mila.
L’intervista al direttore don Dante Carraro
Una grande campagna per salvare mamme e bambini
Msa. Don Dante Carraro che cosa significa questo sessantesimo?
Carraro. Significa fare tappa, osservare la strada fin qui fatta, riconoscere la nostra storia, verificare se siamo riusciti a essere coerenti con i nostri ideali. Da qui si riparte per progettare il futuro.
E nel vostro futuro prossimo che cosa c’è?
C’è un grande sogno: quello di incidere sulla mortalità materna e su quella infantile che sono rispettivamente l’obiettivo cinque e quattro del millennio. Ogni anno in Africa muoiono 4 milioni e mezzo di bambini sotto i cinque anni e 265 mila madri. Gran parte di queste morti sono dovute alla gravidanza e al parto. Sono numeri da sterminio di massa, che gridano attenzione. Per questo, proprio in occasione
del nostro sessantesimo, vogliamo lanciare una grande campagna per rendere sicuro il parto
e proteggere i neonati sotto il mese di vita.
Perché loro in particolare?
Perché mentre per i bambini dai pochi mesi ai cinque anni si è fatto molto in questi anni, per i più piccoli, appunto quelli sotto il mese, nessuno è ancora riuscito a ridurre la mortalità, che rimane elevatissima. E fare cooperazione, specie in favore degli ultimi fra gli ultimi, quelli che l’Onu chiama «l’ultimo chilometro», è diventato sempre più difficile.
A cosa si devono queste difficoltà?
È cambiato il contesto: prima c’era solo il missionario che partiva, poi il missionario è diventato cooperante, il cooperante va collegato a un progetto, il progetto deve essere dentro un programma che chiama in causa istituzioni locali, private e pubbliche fino a inserirsi nei piani sanitari nazionali dei Paesi. A ciò si aggiunge un’ulteriore complicazione: con la crisi della cooperazione e i tagli dei fondi da parte dei Paesi, gli interlocutori da cui avere i finanziamenti non sono più solo i nostri sostenitori diretti e le istituzioni pubbliche (ministero degli Esteri e Unione europea) ma una pletora di istituzioni ed enti privati, come per esempio le fondazioni, ognuno dei quali ha una sua linea e proprie esigenze. Questa è quella che noi chiamiamo «la Babele degli aiuti».
Qual è il rischio?
I vari enti-donatori privati sono coloro che ora, con la crisi della cooperazione internazionale, hanno ancora la forza di finanziarti. Tuttavia non è raro che essi ti impongano, in cambio dell’appoggio, il loro punto di vista e quindi, per esempio, c’è chi è disposto a investire solo nell’Hiv. Arriviamo all’assurdo di mamme che in certi Paesi sperano che uno dei loro molti figli si ammali, ovviamente della malattia giusta, così da poter curare attraverso di lui anche gli altri.
Qual è invece il vostro punto di vista?
Noi siamo contrari alle isole felici, contrari a chi propone un «intervento a malattia», contrari a chi tende a costruire sistemi sanitari paralleli: il nostro punto fermo è cooperare per rafforzare il sistema sanitario nazionale e renderlo accessibile a tutti. Il nostro approccio è lavorare insieme agli africani, in progetti a lungo termine, secondo un preciso piano strategico, stilato per il periodo 2008-2015. Solo tenendo la barra orientata sui nostri principi saremo sicuri di fare ciò che tecnicamente, politicamente e scientificamente riteniamo giusto. Rinnoviamo questo proposito nell’anno del nostro sessantesimo.