Il debito dei Paesi poveri: una questione morale. Schiavi per interesse

08 Dicembre 1998 | di

La somma dei debiti di tutti i Paesi poveri equivale all' 1 per cento del debito internazionale. Come mai, allora, il debito stritola solo i Paesi poveri? Perché le regole vengono imposte unilateralmente dai Paesi ricchi.

Il fardello del debito estero sta paralizzando la crescita e lo sviluppo di molti Paesi del mondo. I dati forniti dal Fondo monetario internazionale (Fmi) evidenziano che alla fine del 1997, il debito estero globale dei Paesi in via di sviluppo ammontava complessivamente a 2066 miliardi di dollari, e i pagamenti annui a 272 miliardi di dollari, cifra quasi raddoppiata rispetto al 1988. Ciò significa che, per rimborsare il debito, ogni anno i Paesi in via di sviluppo versano a quelli occidentali un importo triplo rispetto a quanto ricevono in aiuti. Di fronte a questa situazione si impone una domanda: davvero le ragioni dell' economia mondiale hanno ormai preso il sopravvento, condannando milioni di persone alla fame, alla malattia, al sottosviluppo? Sembrerà  strano, ma le sole ragioni economiche non spiegano tutto.

La legge del più forte

Il caso dello Zimbabwe è eloquente. Questo Paese africano aveva ottenuto una serie di prestiti, per un totale di 646 milioni di dollari, per lo più contratti con la Banca mondiale. Con una oculata gestione dei fondi, era riuscito a dare impulso alla propria economia. Aveva adottato misure di protezione delle proprie industrie, era autosufficiente dal punto di vista alimentare; era persino riuscito a diversificare la produzione per le esportazioni, e a piazzare i propri vini sul mercato europeo. Nel contempo aveva adottato un controllo degli scambi e fissato un elevato livello di spesa pubblica a favore dell' istruzione e della sanità .

Il risultato di questa politica economica aveva permesso allo Zimbabwe di pagare puntualmente i creditori, senza mai chiedere dilazioni, cosa assai rara nei Paesi in via di sviluppo. Ciò gli aveva consentito di evitare i programmi di aggiustamento strutturale della propria economia che gli enti finanziatori chiedono a garanzia del debito con conseguenze spesso pesantissime a livello umano. Come ad esempio la richiesta di eliminare le barriere commerciali e finanziarie per attrarre gli investimenti stranieri, che si traduce in una spietata liberalizzazione degli scambi con la conseguenza di una impari competizione tra le economie deboli dei Paesi poveri e quelle ben più forti dei Paesi ricchi. Oppure la richiesta di ridurre il deficit del governo con tagli alla spesa pubblica, in prevalenza nei settori della sanità  o dell' istruzione, due cardini fondamentali per lo sviluppo di un Paese. O, ancora, altre misure economiche quali la svalutazione della moneta, l' aumento incontrollato dei tassi d' interesse, una forte compressione dei salari: tutti provvedimenti che incidono sulla capacità  di acquisto e sulla qualità  della vita delle famiglie.

Ritornando allo Zimbabwe, la sua capacità  di onorare i debiti, invece di rallegrare la Banca mondiale, l' aveva messa in profondo imbarazzo tanto da spingerla a congelare un ulteriore prestito richiesto dal Paese. Colin Stoneman, docente della York University, esperto di questioni relative allo Zimbabwe così spiega l' accaduto: «Non volevano che lo Zimbabwe avesse successo adottando quella che era per loro la 'strategia (di sviluppo) sbagliata'».

Il caso limite dello Zimbabwe insegna almeno tre cose:

1) a guidare l' operato degli enti creditori non sono solo ragioni economiche ma anche ragioni ideologiche, quasi dogmatiche, che mirano a imporre un unico modello di sviluppo e a considerare il mercato capace di risolvere da sé tutti i problemi legati allo sviluppo;

2) evidentemente ai creditori internazionali non interessa tanto riavere i soldi, quanto piuttosto mantenere una forma di predominio sui Paesi indebitati;

3) ci possono essere modelli di sviluppo alternativi, più validi ed efficaci di quelli imposti dalle agenzie mondiali.

 

E io non pago

Cosa significa, in concreto, per un africano avere sulle spalle un debito estero pari a 440 dollari già  al momento della nascita? Bastino alcuni esempi: in Uganda il governo spende annualmente solo 3 dollari a persona per la sanità  ma ben 20-30 dollari per ripagare il debito ai creditori. In Mozambico il 33 per cento della spesa pubblica serve a pagare il debito estero, mentre solo il 7,9 per cento è destinato all' istruzione. In molti Paesi africani l' alimentazione dipende per il 30-40 per cento dalle importazioni; non esiste più l' agricoltura rudimentale di un tempo che prima garantiva la sussistenza. Nelle zone agricole sono spariti i piccoli appezzamenti dei contadini, domina il latifondo, spesso coltivato a un unico prodotto, quello che è richiesto dal mercato. I soldi in valuta pregiata, ottenuti dalle esportazioni, servono a pagare il debito. Se la richiesta del prodotto improvvisamente crolla, il Paese precipita nel baratro. Un' economia così ha un costo altissimo in vite umane: nel mondo oltre 800 milioni di persone soffrono di malnutrizione cronica, ogni giorno 11 mila bambini muoiono di fame (dati Fao, Organizzazione per l' agricoltura e l' alimentazione), ogni anno 2.500.000 persone muoiono di malaria, mentre nell' area a sud del Sahara si concentra il 70 per cento dei sieropositivi del pianeta (dati Oms, Organizzazione mondiale per la sanità ).

C' è da chiedersi se qualche responsabilità  ce l' abbiano anche i Paesi poveri. Se è vero che questi Paesi sono ricorsi al prestito con eccessiva facilità  e che i governi non hanno saputo spenderli a favore della propria gente, è anche vero che nessuno ha controllato la loro solvibilità  e come questi fondi venivano utilizzati. Gran parte di questo denaro è stata usata per costruire cattedrali nel deserto come un ospedale di 12 piani, in una zona desertica, senza scale e senza ascensore. Progetti, insomma, senza alcun impatto sullo sviluppo. Un quinto del debito mondiale, secondo Africanews, agenzia d' informazione africana, è stato speso per acquistare armi o per sostenere regimi oppressivi e corrotti.

Il problema del debito estero ha iniziato ad aggravarsi negli anni Settanta a causa della crisi petrolifera. I prestiti allora concessi a tassi d' interesse che dipendevano dalle variabili del mercato internazionale, si quintuplicarono. A ciò si aggiunga che gli interessi e le rate di ammortamento, allora come oggi sono rimborsati in valuta estera, sempre più rivalutata rispetto alle monete locali deprezzate per il progressivo impoverimento del Paese. A ciò si aggiunga ancora l' accumulo degli arretrati sugli interessi e sulle quote capitale. Nel 1982 esplose la crisi del debito: il Messico dichiarò la sua incapacità  di fare fronte al debito e la sua intenzione di non pagarlo. Il sistema da sempre dato per scontato, traballò come un castello sulla sabbia. Uno shock per le grandi istituzioni internazionali per lo sviluppo che, per la prima volta, furono costrette a ripensare i modi della cooperazione e a cercare soluzioni per il debito estero. Dal 1995 la stessa Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno avviato un programma che prevede un alleggerimento fino all 80 per cento del debito estero dei Paesi più poveri (iniziativa HIPC - High indebted poor countries), anche se in gran parte sotto forma di rinvii e di revisione dei tassi. Ma da allora ad oggi la situazione dei Paesi poveri è ulteriormente peggiorata a causa della crisi delle economie asiatiche e russe.

È ormai sempre più chiaro che la sorte dei popoli e lo sviluppo dei Paesi non può essere lasciato in balìa della sola economia globalizzata, occorre un ritorno al senso di responsabilità  dei governi, un recupero etico della solidarietà , una rivoluzione nell' architettura della cooperazione e la capacità  di aprirsi a nuovi modelli di sviluppo più sostenibili e consoni ai Paesi poveri.

Giubileo di riscatto

Anche la Santa Sede, attraverso organismi quali il «Pontificio Consiglio Giustizia e Pace», sta portando avanti proposte concrete per risolvere questo grave problema. Ma l' impegno della Chiesa in tale campo non è nuovo: i primi moniti contro il divario economico tra Nord e Sud del Mondo si levano dal Soglio di Pietro già  negli anni Sessanta.

Nell' enciclica Populorum Progressio del 1967, l' allora pontefice Paolo VI affermava che «sviluppo è il nuovo nome della pace», e auspicava un dialogo fra Paesi ricchi e Paesi poveri, perché solo così «i Paesi in via di sviluppo non correranno più il rischio di vedersi sopraffatti dai debiti il cui soddisfacimento finisce con l' assorbire il meglio dei loro guadagni».

Una posizione profetica, dunque, una denuncia solitaria e coraggiosa in anni contraddistinti dal silenzio attorno a questi temi. Ben nota è la posizione assunta dall' attuale pontefice Giovanni Paolo II che, in occasione del prossimo Anno Santo, ha chiesto una consistente riduzione del debito per i Paesi in via di sviluppo. Il Papa si riallaccia così al significato primo del Giubileo che, secondo la tradizione ebraica, rappresentava il tempo della liberazione degli schiavi, della restituzione delle terre ai legittimi proprietari e della cancellazione dei debiti.

Il primo documento ufficiale in cui Giovanni Paolo II tratta la questione debitoria dei Paesi del Sud del Mondo, risale al 1987. Nell' enciclica Sollecitudo rei socialis, scritta in occasione del ventennale della Populorum progressio, il Papa riprende alcuni temi presenti nell' enciclica di Paolo VI. In particolare ne sottolinea «l' insistenza sul 'dovere gravissimo' che incombe sulle Nazioni più sviluppate, di 'aiutare i Paesi in via di sviluppo'», e ricorda come il meccanismo del finanziamento internazionale, che deve servire da aiuto ai Paesi in via di sviluppo, sia diventato spesso un freno se non addirittura un' occasione di sottosviluppo.

Nel 1991 è la volta dell' enciclica Centesimus annus, nella quale Giovanni Paolo II afferma: «È certamente lecito il principio che i debiti debbono essere pagati; non è lecito però chiedere o pretendere un pagamento quando questo verrebbe a imporre, di fatto, scelte politiche tali da spingere alla fame e alla disperazione intere popolazioni. Non si può pretendere che i debiti contratti siano pagati con insopportabili sacrifici».

Il culmine viene raggiunto però nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente del 1994, nella quale il Papa sostiene: «... i cristiani dovranno farsi voce di tutti i poveri del mondo, proponendo il Giubileo come un tempo opportuno per pensare, tra l' altro, a una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte Nazioni».

Ultimo documento, in ordine di tempo, è la Incarnationis mysterium, la Bolla di indizione dell Anno Santo, del novembre scorso, nella quale il Papa ancora sottolinea: «Non poche Nazioni, specialmente quelle più povere, sono oppresse da un debito che ha assunto proporzioni tali da renderne praticamente impossibile il pagamento. (...) È necessaria una nuova cultura della solidarietà  e della cooperazione internazionali, in cui tutti - specialmente i Paesi ricchi e il settore privato - assumono la loro responsabilità  per un modello di economia al servizio della persona».

             
     

Come rilanciare la cooperazione internazionale

Nuove regole per lo sviluppo      

Tra tutti gli orientamenti emersi a livello internazionale per risolvere il problema del debito estero dei Paesi poveri, segnaliamo quelli formulati in occasione di un convegno su questo tema, promosso dall' «Istituto di scienze sociali Nicolò Rezzara» di Vicenza, che da anni segue le problematiche dello sviluppo.

     

·  Le cause del debito non possono essere attribuite ai Paesi debitori, spesso presi nella morsa della sopravvivenza e schiacciati da regimi dittatoriali. Poiché questo fenomeno è una conseguenza delle fluttuazioni del mercato internazionale e quindi di meccanismi che il Paese debitore non può controllare, occorrono regole chiare, democratiche, alla cui formulazione partecipino anche i Paesi in via di sviluppo.

     

· A questi Paesi va data la capacità  di emergere con autonomia nel mercato globale.

     

· Sono indispensabili due atteggiamenti di fondo da parte di tutti: la responsabilità  e il partenariato. In sostanza i programmi di sviluppo e di cooperazione vanno programmati tra-e-con Paesi che abbiano un livello di sviluppo omogeneo.

     

·  Si profila un' ipotesi di condono multilaterale (non solo da parte degli stati ma anche dei finanziatori privati). Il condono non può essere una misura assistenziale, devono essere studiati contemporaneamente meccanismi di finanziamento che contemplino il coinvolgimento e il rischio sia del finanziatore che del beneficiario, e la possibilità  di accedere a capitali a basso costo in una misura sopportabile per il Paese.

     

·  Non è possibile pensare a progetti puramente economici. Lo sviluppo non è tale se non è globale e deve comprendere l informazione, lo sviluppo culturale, la garanzia minima delle condizioni di vita.

     

·  Queste prospettive richiedono una conversione delle istituzioni di cooperazione, e aprono spazi alle organizzazioni non governative, che attraverso interventi mirati possono dare un contributo effettivo.

 

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017