Il giorno più lungo della Repubblica
«Le scrivo perché voglio che sappia che i giovani non sono tutti corrotti e violenti. L’Italia è un Paese democratico; solo per colpa di qualcuno che crede di cambiare l’Italia con azioni vergognose è diventato un Paese in cui il popolo ora vive nel terrore. Che accadrà domani? È questa l’angosciosa e preoccupata domanda che noi ci poniamo alla fine di questa giornata».
È la lettera, commovente, scritta da una ragazza di 13 anni alla signora Eleonora, a via del Forte Trionfale (Roma), nei giorni successivi al rapimento del marito Aldo Moro avvenuto il 16 marzo 1978 e terminato con la sua uccisione, da parte delle Brigate Rosse, il 9 maggio successivo.
Sgomento e smarrimento scuotono l’opinione pubblica. È il buio della Repubblica. In quel periodo, a casa Moro arrivano lettere e telegrammi, scritti da persone di ogni età e condizione sociale: pensionati, studenti, operai, intellettuali, politici, sindacalisti, ma anche detenuti.
Piccoli e grandi gesti di vicinanza e solidarietà riproposti, nei passaggi più importanti del rapimento e dell’uccisione dello statista, a cento anni dalla sua nascita (23 settembre 1916), dallo storico Umberto Gentiloni Silveri, nel libro: Il Giorno più lungo della Repubblica. Un Paese ferito nelle lettere a casa Moro durante il sequestro. (Mondadori).
Ne esce un vero e proprio «carteggio della solidarietà» per tentare di comprendere una stagione difficile, in un’Italia in balia di strategie mai chiarite del tutto. Un’analisi del nostro passato, e della forza che non deve venire meno. Di un’Italia che, con grande coraggio, ha sempre mantenuto l’umanità, per costruire il proprio futuro. Ma anche per rendere onore a un grande statista, un cristiano impegnato nella vita del Paese con realismo, misura e passione interiore.
Una figura, quella di Aldo Moro, che riassume, come ha ricordato recentemente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la fatica della democrazia, opera sempre in divenire e mai definitivamente compiuta.