Il prete e il musulmano

03 Giugno 2000 | di
   
   

Don Giuliano e Hassan, sacerdote l'uno, membro di un'associazione islamica l'altro. Amici, nonostante le differenze. Ecco come si attua il dialogo tra cristiani e musulmani, fuori dalle accademie, nella vita dei semplici.

L'islam in Italia è al centro di un acceso dibattito, dovuto ad opposti pregiudizi e fondamentalismi. Da un lato, c è nella Chiesa chi paventa l'esistenza di una strategia musulmana per islamizzare l'Occidente; dall'altra, frange islamiche suggeriscono come medicina ai mali della vecchia Europa l'apertura ai principi rigeneratori dell'islam. Le posizioni di mezzo, infine, sottolineano i diversi punti di frizione tra una cultura, la nostra, che ha scelto la secolarizzazione, e una cultura, quella islamica, che ha posto Dio al centro dell'organizzazione sociale.
Due mondi opposti, inconciliabili e forieri di lotte o due civiltà  e sistemi di valori che possono convivere e interagire in una futura società  interculturale? La domanda rimane aperta e non ha facili soluzioni. Il problema del rapporto con l'islam però si impone, tanto che già  da tempo in singole parrocchie o a livello diocesano si sta delineando la figura del sacerdote che tenta la mediazione tra le due culture.
Don Giuliano Vallotto è, per storia personale ed esperienza pastorale, uno di loro. È appena tornato da cinque anni di missione a Tunisi, dove aveva il compito di seguire gli studenti universitari neri, al 75 per cento musulmani. Il contatto con l'islam per don Giuliano risale, però, a molti anni prima, a quando, cioè, le prime ondate migratorie avevano colto impreparata la fiorente marca trevigiana. Era la seconda metà  degli anni '80. Il lavoro non mancava nelle fabbriche di calzature o di confezioni di Montebelluna (TV), come nelle concerie del vicentino. Quello che mancava agli immigrati era innanzitutto una casa in cui tornare. E poi c'erano tanti problemi: dai permessi di soggiorno agli affetti lontani, da una lingua dura da imparare alla difficoltà  di professare la propria fede. Don Giuliano aprì due case di accoglienza, a Cavaso del Tomba e Giavera del Montello, e decise di vivere con loro per ben otto anni. «Nonostante le tante difficoltà , è stata una bellissima esperienza. In quel periodo ho costruito delle amicizie intense che durano tuttora». Mentre racconta, guarda sorridente Hanine Hassan, marocchino, che incalza: «La mia e la sua camera distavano di tanto così», allarga le mani, a descrivere una distanza spaziale davvero ridotta. Una contiguità  che è diventata nel tempo comprensione e poi amicizia. Allora Hassan era poco più di un ragazzino spaesato, oggi ha moglie, e una bambina, Fatima, appena arrivata. Ha il suo lavoro, la sua casa ed è tra i fondatori dell'associazione islamica di Cornuda (TV). Il prete e il musulmano, un'amicizia di 13 anni, nata sopra una diversità  tangibile eppure mai demonizzata.
Msa. Don Giuliano, non teme di essere «islamizzato»?
Don Giuliano
. Non l'ho mai temuto. Non sono musulmano e non lo diventerò mai. Loro lo sanno benissimo. Ci sono però settori della Chiesa che agitano questo allarme. I musumani sono il 35 per cento degli immigrati, nemmeno un milione di persone in tutto. Se un milione di musulmani mette in pericolo la fede di 57 milioni d'italiani, credo che questo non sia un problema dell'islam, ma del cristianesimo. Siamo noi che stiamo perdendo le nostre radici cristiane, lasciando il posto ad altro.
Perché tanta paura?
Perché si confonde l'islam con l'integralismo e non si riesce a vedere la gente semplice che vive la vita di tutti, senza alcun fanatismo. Poi c'è la tendenza a considerare l'islam un monolito, una realtà  stabile, unica, codificata. Invece, non solo ne esistono molte espressioni, ma le società  islamiche vivono continui e profondi mutamenti al loro interno e sono già  ora molto diverse l'una dall'altra.
Se non paura, in alcuni c'è perplessità  di fronte alle profonde differenze tra mondo islamico e cristiano. A che livello ci può essere una possibilità  di dialogo interculturale?
Distinguerei due livelli di dialogo. Il primo, quello del dialogo interreligioso, lo lascerei agli esperti, alle università  e alle accademie. La gente comune, sia da parte nostra sia da parte loro, non ha i mezzi culturali e teologici per addentrarsi in simili tematiche. Quando si parla di Cristo, dei profeti o del paradiso, usiamo le stesse parole, ma intendiamo realtà  diversissime e inevitabilmente entriamo in collisione.
Interviene Hassan, attentissimo alla discussione: «Ogni volta che parliamo di religione non raggiungiamo mai un accordo. Quando invece parliamo di problemi, di cose che possiamo fare assieme, di volontariato, della nostra vita, beh, allora tutto va bene».
È questo il secondo livello, don Giuliano?
Sì. Se vogliamo davvero comunicare dobbiamo prima conoscerci al di là  dei pregiudizi e poi diventare amici. L'amicizia porta con sé il rispetto e fa evolvere il rapporto a livello spirituale. Non occorre parlare di religione. Noi tutti siamo segnati dalla nostra fede. Io ho un amico, Crimo, un marocchino, un musulmano profondamente religioso, un povero di Dio. Quando lui fa una riflessione, io l'accetto anche per me in modo costruttivo. L'amicizia ha superato la differenza. Nei nostri discorsi c'è l'essenza di quello che siamo.
Hassan, Don Giuliano ha parlato dell'importanza dell'amicizia, ma lei che guida un'associazione islamica in Italia che cosa fa per aiutare il dialogo?
Noi, insieme, riflettiamo molto su questo e cerchiamo di organizzare momenti d'incontro. Per esempio, un anno fa abbiamo fatto una festa invitando tutti gli abitanti del paese. L'associazione islamica per sua natura non è solo luogo di culto, ma è anche luogo d'incontro, di dibattito politico, di eventi culturali e sportivi. Proprio per queste ragioni, io spesso ho cercato un contatto con il sindaco per organizzare insieme eventi culturali, ricreativi e sportivi comuni. Insomma, piccole cose.
Hassan, in che modo il contatto con la cultura italiana può essere un arricchimento anche per voi?
Hassan.
Possiamo parlare dei nostri problemi, primo fra tutti quello della casa, per cercare insieme soluzioni. L'incontro può favorire cambiamenti culturali. Voi sapete che la donna islamica non parla in presenza di un uomo. Partecipare a un evento dove ci sono persone di un'altra cultura può aiutare le nostre donne a trovare il coraggio di parlare con chiunque e di prendere coscienza delle proprie potenzialità .

Don Giuliano è quasi commosso, le parole appena pronunciate sono il frutto di tanto lavoro fatto insieme. Lo si sente nell'enfasi del suo intervento: «È bello sentire che qualcosa di nuovo può venire dall'incontro. Sono le piccole, piccolissime cose quelle che contano. Io credo nella vita che trasforma dall'interno, a piccoli passi».
Don Giuliano, vien naturale chiedersi che cosa lei pensi dei matrimoni misti, situazioni in cui l'interculturalità  è vitale.
Ho sperimentato tante volte il fallimento di questi matrimoni. Fallimento traumatico, dopo scontri e sofferenze infinite. Come dicevo prima, persino le parole tra le due culture hanno significati diversi. Lo stesso termine «matrimonio» per i musulmani significa un vero è proprio contratto, poi benedetto da Dio. Per i cristiani è un sacramento. Ciò ha delle conseguenze sociali, culturali, giuridiche diversissime. All'interno della coppia mista, quindi, la mediazione culturale è 24 ore su 24. L'equilibrio è sempre messo in forse, con un notevole dispendio di energie. Molti dicono che il matrimonio misto sopravviva solo se uno dei due si sottomette all'altro. Statisticamente può essere vero. Io però ho esperienza di qualche coppia che lo prende come una sfida, una caparbia ricerca di trasformare l'ostacolo in un dono, senza per questo far rinunciare il partner. La sfida non è né facile né coronata da sicuro successo.
In che modo l'islam può diventare fonte di ricchezza per i cristiani?
La presenza dell'islam può portare a un rinnovamento della nostra spiritualità . L'esperienza della diversità  ha un'eco nel nostro rapporto con Dio. Favorisce un confronto profondo, ci spinge a ricercare le nostre radici più vere, ci aiuta a vedere Dio come sorgente e approdo per tutti, senza negare le differenze.
Da sacerdote, come vive questa presenza?
Credo che la presenza dell'altro, per essere accolta fino in fondo, debba entrare nel mio dialogo con Dio. La mia preghiera è popolata, ogni giorno di più, da storie e volti musulmani, da Hassan che aspetta un figlio, da Mustafà  che non ha una casa, da Khaled che ha problemi di lavoro. Come dice Henri Teissier, arcivescovo di Algeri, «sono un pastore senza fedeli, ma non senza popolo».

   
   
IL LIBRO      

Ballabio F.,
Le religioni e la  mondialità . Per una   fede capace di ascolto e di dialogo, Emi 1999, L.18.000.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017