Integrazione, strada obbligata

Dato per scontato che gli immigrati che non stanno alle regole devono essere puniti a norma di legge o espulsi se recidivi e che l’immigrazione clandestina va combattuta, come comportarci con quelli che, sempre più numerosi a quanto pare, verranno a lavor
01 Novembre 2001 | di

I fenomeni sociali, quando sono nuovi e di grande portata suscitano facilmente preoccupazione e a volte preclusioni e ostilità . L`€™immigrazione è tra questi. Su come affrontare il fenomeno i cristiani sono aiutati dai numerosi interventi del Papa e dei vescovi, i quali da più di un secolo (da quando gli italiani hanno cominciato a emigrare in massa) con coraggio invitano ad accogliere tutti, nonostante le differenze di lingua, cultura, etnia e religione, ricordando che i beni della Terra sono patrimonio comune, e quindi il benessere va condiviso in spirito di solidarietà  con quanti hanno di meno o non hanno nulla. Questi insegnamenti possono aiutarci a vincere le paure e a guardare con maggiore pacatezza l`€™immigrazione, ricordando che non solo la storia della nostra fede inizia con «l`€™emigrante» Abramo, ma anche la nostra recente storia è intrisa di migrazioni, tant`€™è che ancora quattro milioni di cittadini italiani sono sparsi nel mondo e ancor più numerosi sono i loro discendenti.

Per valutare poi correttamente il fenomeno ed evitare conclusioni avventate, chiusure, timori ingiustificati, disprezzo o addirittura razzismo bisogna guardare in faccia i numeri. Il Dossier statistico Immigrazione, che la Caritas di Roma cura ormai da dieci anni in collaborazione con altre organizzazioni ecclesiali, ha appunto lo scopo di offrire un supporto oggettivo alla riflessione. Da esso traggo vari spunti.

L`€™immigrazione è un «segno dei tempi», espressione del mondo globalizzato di oggi, con le sue contraddizioni: enormi facilità  di comunicazioni e di trasmissioni di notizie, ma anche abissali differenze di benessere, per cui chi vive nei poverissimi Paesi del Sud del mondo, se vuole continuare a coltivare la speranza, come avveniva per i nostri migranti, emigra. Le condizioni di vita lì sono tali che ci sarebbe da stupirsi se la gente non emigrasse, non cercasse altrove occasioni di vita. Ad esempio, nel Nord Africa e nei Paesi del Subsahara nei prossimi vent`€™anni decine di milioni di giovani si affacceranno sul mercato del lavoro, sicuri di non trovare occupazione a casa loro. Questo è uno dei veri motivi dell`€™emigrazione.

Bisognerebbe investire sul posto, qualcuno lo fa anche se in misura molto ridotta, ma per vederne i frutti ci vogliono decenni. Per lungo tempo ancora queste cause strutturali determineranno i flussi migratori verso l`€™Occidente ricco e verso il nostro Paese. Per gli studiosi di demografia la popolazione si stabilizzerà  verso la fine del secolo, e se nel frattempo si favorirà  lo sviluppo, si potrà  passare dall`€™emigrazione forzata alla libera circolazione di manodopera.

Ecco i numeri. Nel frattempo dobbiamo abituarci a gestire nel modo migliore gli attuali flussi migratori. Nel mondo, secondo le organizzazioni internazionali, vi sono circa 150 milioni di migranti; poco più di un milione e mezzo di essi in Italia, dove il fenomeno è più recente rispetto ad altri Paesi. Iniziato a metà  degli anni Settanta, si è sviluppato nei successivi dieci anni, per assumere maggiore consistenza nel corso degli anni Novanta. Abbiamo avuto più di vent`€™anni per prepararci, avendo alle spalle la storia della nostra emigrazione, che pur essendo avvenuta in contesti economici e storici diversi, ha molti elementi comuni con l`€™immigrazione di oggi.

Avendo lavorato tra i nostri connazionali emigrati in alcuni Paesi europei e occupandomi ora delle persone immigrate in Italia, mi sorprendo spesso delle somiglianze che trovo nelle due esperienze. Per questo mi pare che non sia corretto idealizzare la nostra emigrazione, che è stata anch`€™essa originata dal bisogno (o dalla disperazione), con tutto quel che consegue: famiglie separate dalla lontananza, lavori umili e poco apprezzati, richieste di essere accolti e riconosciuti e, in seguito anche successo e benessere.

Come cristiano e come emigrato ascolto allora con piacere la Chiesa raccomandare il dovere dell`€™accoglienza, in ossequio all`€™insegnamento di Cristo. Pur avendo presente che l`€™immigrazione, sotto vari aspetti, crea anche problemi: ci sono maggiori domande di case e di servizi sociali, la scuola deve attrezzarsi per fronteggiare le richieste di alunni che provengono da Paesi e da culture diverse e lo stesso devono fare i pubblici servizi; aumenta il numero della religioni praticate; per non dire dei trafficanti di manodopera che accentuano i flussi di clandestini, e di immigrati dediti alla malavita...

Il Papa e i vescovi ci insegnano che ogni persona in difficoltà  deve essere aiutata: dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati e così via, dice il Vangelo. Ma gli immigrati hanno anche bisogno di essere accettati con le loro diversità  etniche e culturali, di avere una casa e un lavoro pagato per quello che merita, di sapere i loro figli accettati a scuola, di non essere guardati male perché non cattolici o seguaci di altre religioni.

Una realtà  con cui fare i conti. Due argomenti possono aiutarci a capire meglio la situazione e ad affrontarla più serenamente: la dimensione effettiva dell`€™immigrazione in Italia e il fatto che con essa siamo costretti a convivere.

In Italia, un tempo terra di famiglie numerose, l`€™andamento demografico è tra i più negativi del mondo: se non ci fossero stati gli immigrati, la popolazione sarebbe vistosamente diminuita già  nell`€™ultimo quinquennio. La questione è complessa nelle sue motivazioni (sono mancate le politiche di sostegno alle famiglie) ma chiara nei risultati. Le previsioni demografiche, degli organismi internazionali e degli esperti italiani, sono concordi nel dire che la curva discendente della popolazione italiana andrà  aumentando e che, continuando così le cose, alla metà  del secolo diminuiremo di altri 15 milioni, a meno che non aumenti il numero degli immigrati (o gli italiani non facciano più figli).

Strettamente collegato con quanto appena detto è la richiesta pressante del Nord Est, della Lombardia e di altre regioni, di lavoratori extracomunitari da inserire in aggiunta a quelli già  presenti in Italia. La quota fissata a 63mila tra permanenti e stagionali, è stata portata a 83mila nel 2000. Per le aziende ce ne vorrebbero ancora di più. Senza il numero sufficiente di lavoratori non si può portare avanti la produzione programmata: l`€™equazione non fa una piega.

L`€™immigrazione, pur con tutti i suoi problemi (criminalità , clandestini, irregolari...) è un prezioso aiuto in un momento in cui, mancando le braccia, si rischia di abbassare la nostra capacità  produttiva e quindi il nostro livello di benessere. Se gli immigrati sono funzionali ai nostri bisogni, cerchiamo di rispondere alle loro esigenze, perché si tratta di esseri umani e non di semplici strumenti della catena produttiva.

Conclusioni. L`€™immigrazione ci accompagnerà  nei prossimi anni e anche in misura più consistente di adesso: facciamocene una ragione. Per il 2010 si prevede che gli immigrati saranno tre milioni circa, uno ogni 15-17 persone.

Come atteggiarci nei loro confronti? Farli lavorare e poi, a lavoro finito, mandarli a casa? Molti lo pensano. Ma è un soluzione felice? La Germania per una quarantina d`€™anni ha pensato in tal senso ma, alla fine, raggiunti sette milioni di immigrati, ha cambiato registro e ha deciso di perseguire la politica dell`€™integrazione. O vogliamo impedire la loro venuta, o renderla quanto meno più complicata e più difficile il ricongiungimento dei familiari? I trafficanti di manodopera ci ringrazieranno perché il loro lavoro aumenterà  e sulla coscienza avremo pure il peso di tante famiglie sfasciate.

Con uno sforzo di razionalità , che tiene conto dei dati statistici del loro significato strutturale, è allora preferibile agevolare e regolamentare l`€™ingresso dei lavoratori ritenuti utili alla nostra economia, favorire il ricongiungimento familiare e perfezionare le regole dell`€™integrazione. È quest`€™ultima la vera chiave della politica dell`€™immigrazione, in grado di preparare un futuro di pacifica convivenza. Chiediamo agli immigrati il rispetto delle regole fondamentali della nostra società , enunciate nella Costituzione, e chiediamo da loro solo i cambiamenti indispensabili. Non è la diversità  che ci deve spaventare ma solo quella che non si compone con le nostre regole fondamentali. Una convivenza simile, che innesta nel solco della tradizione occidentale quella di nuovi popoli, di nuove culture e di nuove religioni, è una speranza di pace, anche alla luce dei drammatici attentati dell`€™11 settembre negli Stati Uniti che, male interpretati, rischiano di contrapporre l`€™Occidente e il cristianesimo al Sud del Mondo e all`€™Islam.

L`€™immigrazione può diventare una scuola di convivenza. Ecco perché ho usato all`€™inizio il suggestivo termine «segno dei tempi» e ho detto che sta molto vicino alle radici della nostra fede. Nella storia niente ha scontato: lavorando bene, per incontrarci a vicenda, questa nuova realtà  può diventare anche una nuova opportunità . Opponendoci per partito preso, manifesteremo solo insicurezza e pregiudicheremo il futuro. Ecco i veri termini del problema.

 

Nel cuore del «Bronx»

La Cascina della speranza

di Francesca Massarotto

A Padova via Anelli vuol dire spacci, furti, scippi, rapine, sfruttamento della prostituzione, pestaggi; autori gli immigrati lì ammassati in gran numero. Ma vuol dire anche ascolto, accoglienza, integrazione..., autori i volontari della parrocchia San Pio X.

Secondo l`€™Istat, gli immigrati stranieri in Italia sono attualmente poco meno di un milione e mezzo, pari al 2,5 per cento della popolazione. La cifra è destinata a crescere, e così pure, per la difficoltà  di ottenere permessi di lavoro, i clandestini. «Clandestini» è termine generico con cui vengono definiti gli immigrati che si trovano in Italia senza regolare permesso. Qualcuno di loro ha imboccato le scorciatoie della delinquenza, ma ci sono anche persone oneste, che già  lavorano ma che, non riuscendo a regolarizzare la loro posizione giuridica sono considerati illegali. Il fenomeno è ormai irreversibile: sono sempre più numerose le persone provenienti da Paesi poveri, che cercano lavoro, alloggio, speranze di vita presso i Paesi ricchi. E la loro presenza, con l`€™apporto di lingue, mentalità , costumi e fedi religiose diverse, è destinata a trasformare la fisionomia delle nostre città  e dei nostri quartieri, mettendo alla prova la nostra mentalità  e il nostro modo di essere cristiani.

Ma che cosa significa, in questo contesto, essere cristiani? Accettare tutti, indiscriminatamente e senza distinzioni, o difendere le proprie idee, la propria fede, la propria identità  per avere qualcosa di sicuro da trasmettere ai figli? Mentre spirano, a causa del terrorismo, venti di intolleranza verso gli immigrati, ormai accusati di tutto, c`€™è anche chi si è fermato a riflettere e ha voluto capire, cominciando ad ascoltare queste persone come dei fratelli. Comportandosi, semplicemente, da cristiano.

Succede a Padova, nella parrocchia di San Pio X, situata proprio dove c`€™è la maggiore concentrazione di immigrati: il quartiere di via Anelli, meglio noto come «il Bronx», per il caos che vi regna. La parrocchia conta circa seimila persone, compresi i milleottocento immigrati appartenenti a sedici nazionalità  diverse e a varie religioni, che vivono ammassati in 300 miniappartamenti situati in 6 condomini. Spacci, furti, scippi, rapine, sfruttamento della prostituzione, pestaggi sono all`€™ordine del giorno. È inutile nasconderlo. Però c`€™è anche chi lavora onestamente: in fabbrica, nelle imprese o nelle case, a pulire, curare anziani, assistere malati e handicappati, accudire bambini. E aspetta con ansia la fine di un periodo di lavoro (di solito vari anni) per ritornare in patria e rivedere i propri figli, riabbracciare il marito o i genitori.

Ognuno di loro, uomo o donna, è partito lacerando una rete di affetti, lasciandosi alle spalle un focolare, un angolo di paese, e desidera riunirsi ai familiari, ritrovare le proprie certezze. In ogni caso, la convivenza fra tutte queste persone è un problema serio: ci sono momenti di grande tensione e la popolazione fatica ad accettare questo quartiere. La maggior percepisce lo straniero con apprensione, senza distinguere il lavoratore onesto dallo spacciatore albanese o dal rapinatore rumeno di cui ha letto sui giornali.

Il Centro di ascolto. Spiega padre Guglielmo Cestonaro della congregazione dei giuseppini, parroco di San Pio X: «Come comunità  cristiana ci siamo dati un impegno: diventare luogo di incontro e integrazione. Grazie ad alcune persone particolarmente convinte, la nostra parrocchia ha voluto passare da stazione di servizio sacramentale a luogo di accoglienza. Facendo scomparire le differenze fra padovani e stranieri, per far prevalere la comune appartenenza a Dio unico Padre».

Nonostante i tempi, qualcosa di positivo sta nascendo. Ecco attraverso quali iniziative: un Centro di ascolto gestito da volontari per «ascoltare» gli immigrati, facendosi carico delle loro richieste. Lo scorso anno, con due incontri settimanali, i volontari hanno ascoltato 2300 stranieri, realizzando 350 schede personali. Si sono rivolti al Centro soprattutto immigrati di religione musulmana, quindi cattolici, ortodossi, protestanti e altri di religioni orientali.

«Ascoltiamo innanzitutto la loro storia personale `€“ spiega Loredana Pozzan, una dei volontari `€“. Chiedono di poter confidare a qualcuno bisogni, speranze e affetti. Qui cercano soprattutto lavoro: gli uomini vorrebbero entrare in fabbrica (molti sono diplomati o laureati), le donne lavorare in una famiglia. Ma è difficile offrire un lavoro regolare, perché devono dimostrare di avere già  un alloggio, mentre la famiglia, o il datore di lavoro, devono dichiarare un reddito molto alto e sborsare parecchi soldi».

Anche la casa è un problema non facilmente risolvibile: in via Anelli, molti vivono ammassati in una stanza di pochi metri quadrati. E allora la parrocchia, nei casi più disperati, si fa garante degli affitti. A causa di comportamenti deviati, e dell`€™illegalità  diffusa, molti vivono circondati da un senso di rifiuto, di diffidenza. E tendono a chiudersi e isolarsi. «Invece, come cristiani `€“ dicono al Centro `€“ ci siamo posti questa sfida: offrire continuamente segnali di accoglienza e integrazione». Non manca, naturalmente la piaga della prostituzione e dello sfruttamento. Da circa due anni, delle équipe di volontari avvicinano le ragazze che lavorano sulla strada, per cercare di riportarle a una vita dignitosa. Finora sono state aiutate soprattutto le nigeriane, vere schiave, sottomesse anche con riti vudu. Mentre le ragazze dell`€™Est appaiono più consapevoli. «Hanno contratto debiti enormi per venire in Italia, e non sanno come pagare: una di loro, che stiamo aiutando, ha impegnato la casa di suo padre, milioni`€¦ Adesso la Banca vuole la restituzione dei soldi, più gli interessi maturati, altrimenti si appropria della casa. Lei è riuscita a pagare 30 milioni lavorando sulla strada, ma non basta`€¦», commenta amaro padre Guglielmo.

Le basi dell`€™integrazione. Integrarsi significa anche saper parlare e capire la lingua del luogo, saper chiedere, spiegarsi. Lo scorso anno alcuni insegnanti volontari hanno avviato in parrocchia tre corsi di italiano per stranieri, frequentati da ottantadue immigrati di ogni età , per quattro ore settimanali. I corsi saranno ripetuti anche quest`€™anno, perché sono un altro modo concreto per favorire l`€™accoglienza.

Non basta: durante i «tempi forti» del calendario liturgico, come l`€™Avvento o la Quaresima, alcuni volontari guidati da padre Giovanni, francescano, entrano negli alloggi sovraffollati, siedono sui letti assieme agli immigrati e leggono ad alta voce una pagina del Vangelo, anche in inglese, e lo commentano. A volte squillano i telefonini delle ragazze, perché i clienti chiamano, a volte sono presenti anche alcuni protettori, che osservano in silenzio. «Non incontriamo ostilità  e intolleranza, piuttosto un grande rispetto: alcuni musulmani hanno preso coraggio dall`€™iniziativa e hanno adibito un appartamento a moschea: con le tende ai lati, i tappeti per terra, e i responsabili della preghiera». Un modo per far sentire tutti figli di Dio.

Al pomeriggio, poco lontano dalla chiesa, durante l`€™anno scolastico è aperta «La Cascina», un`€™abitazione chiara e luminosa adibita a luogo di accoglienza e integrazione per i figli degli immigrati: insegnanti e animatori seguono i ragazzi extracomunitari nei compiti, li aiutano a fare sport, a socializzare. Da quest`€™anno opererà  anche una psicologa, per aiutare anche i genitori a inserirsi con fiducia nell`€™ambiente della scuola.

Infine, ogni domenica alle undici, nella chiesa di San Pio X viene celebrata una messa in lingua inglese, con i nigeriani liberi di esprimere con propri canti e danze la gioia della festa, assieme agli italiani. Due nigeriani sono già  entrati a far parte del consiglio parrocchiale. Sono una trentina di volontari in tutto, che operano nel tempo libero: ma in due anni sono riusciti a convincere qualche centinaio di extracomunitari di essere anch`€™essi figli dello stesso Padre.

Loredana Pozzan, volontaria: «Abito qui dal 1952, girando in bicicletta ho visto l`€™evolversi di questa realtà : la concentrazione di extracomunitari in via Anelli per me è stato un "dono", perché lì vai a toccare la disperazione. Molti mi dicono: "Vai in via Anelli? Sei matta?". Se invece di alzare muri e staccionate, quelli che si definiscono cristiani si aprissero a questi fratelli, cadrebbero tante paure, tanti pregiudizi e loro avrebbero meno difficoltà  a trovare un alloggio`€¦ Bisogna aprirci, creare stimoli, perseguire la cultura dell`€™accoglienza, perché quando poi vieni in contatto con loro vedi persone meravigliose, che hanno tutto il nostro sentire con un problema in più, quello della povertà . Ma hanno i nostri sentimenti, le nostre sensazioni, i nostri desideri. E affetti da concretizzare. Noi volontari facciamo un corso di preparazione di un anno per entrare al Centro di ascolto e imparare ad ascoltare. Perché spesso il cristiano non sa più ascoltare. Dobbiamo imparare a capire ogni persona nella sua diversità : di lingua, di mentalità , di religione. Cerco di mettere in pratica il Vangelo, so che non basta andare a messa: da questa esperienza mi sento arricchita dentro, perché è una vera opportunità  far sentire a questi fratelli che sono amati, così come sono. Quando mi hanno detto che Alina stava per partorire, sono corsa in ospedale con un`€™emozione, un`€™emozione! Ero agitata più che se fosse mia figlia`€¦».

Alina Agache, 19 anni, rumena: «Il mio ragazzo è partito a novembre per la Spagna, con un visto turistico; io e mia mamma abbiamo invece raggiunto l`€™Italia. La mamma lavora in una famiglia a tempo pieno, ma la domenica è libera e ci troviamo. Mi sono accorta d`€™essere incinta che ero già  partita. Non sappiamo dove si trovi Catalin, il mio ragazzo, che non sa neppure di essere diventato papà . Suo fratello è partito per cercarlo, ma siccome è clandestino, è difficile rintracciarlo. Speriamo non gli sia accaduto niente di brutto. I primi mesi mi hanno aiutato degli amici, mangiavo alle cucine popolari dei padri cappuccini, dormivo in casa di una signora, senza pagare, assieme ad altre due ragazze rumene. Ho trovato lavoro presso una dottoressa: annaffiavo il giardino, però ero senza permesso, e non mi volevano più tenere, avevano paura. Per questo ho chiesto aiuto alla parrocchia. Loredana mi ha aiutato molto, è venuta con me in ospedale e adesso ho una stanza alla Cascina: una stanza tutta per me, con il mio bambino».

Ludmila Jumbel, 37 anni, moldava: «Sono infermiera pediatrica, ho lavorato tredici anni in una clinica del mio Paese, ma ultimamente non mi pagavano. Mio marito non lavorava da anni, per gli uomini non c`€™era lavoro, abbiamo tre figli. Due anni fa ho deciso: sono partita in pullman con un`€™amica, ho passato la frontiera con un visto turistico; non sapevo parlare, non conoscevo nessuno`€¦ Sono di religione ortodossa, mio fratello è prete ortodosso, ma io andavo nelle chiese cattoliche a pregare, so che Dio è ovunque`€¦ In questa chiesa sono arrivata una mattina, dopo aver fatto lavori saltuari e mal pagati. Ho incontrato don Guglielmo, con lui ho pianto: da sola è dura, puoi imboccare brutte strade e finire male. Lui mi ha ascoltato, mi sembrava di aver trovato un fratello. Mi ha trovato lavoro presso una famiglia, e ho potuto così avere il permesso di soggiorno. Assistevo una persona anziana inferma, stavo con lei giorno e notte, così prendevo un po`€™ di più e potevo avere schede per telefonare a casa. A ottobre dello scorso anno sono tornata a vedere la mia famiglia, Alla partenza don Guglielmo mi ha detto: "Ti ho dato ali per volare, adesso vola da sola`€¦" Non lo dimenticherò mai. Adesso ho il permesso di soggiorno, ma non volo proprio sola. Lavoro a Villa Altichiero come infermiera: sono regolare`€¦ Abito alla Cascina con due ragazze, se è possibile, farò venire i miei figli`€¦ Mio marito? Dopo che sono partita, ha trovato un`€™altra donna e questo mi fa male: era bello, avevo una famiglia, ora sono sola».

Effetti collaterali dell`€™accoglienza

Kais chiede il battesimo

di Francesco Bongarrà 

Il figlio maggiore di Ahmed, musulmano tunisino immigrato a Palermo, attratto dallo spirito di accoglienza del «Cento Santa Chiara» che ha ospitato agli inizi suo papà , ha chiesto di saperne di più...

Ahmed ha 30 anni e vive a Palermo da quando ne aveva 18. Ha due figli, nati in Italia: il più piccolo, Farouk, di anni ne ha solamente tre. Il colore olivastro della pelle, più scura di quella dei coetani con cui li vedi giocare, ti dice che sono tunisini. Ma quando parlano, il loro dialetto palermitano è così perfetto da far invidia ai ragazzini «indigeni» dell`€™Albergheria con i quali vanno a scuola e giocano per i vicoli del centro storico fino a tarda sera.

Quella di Ahmed, e di sua moglie Leila, è una storia simile a quella di tantissimi extracomunitari giunti in Sicilia in cerca di un futuro migliore. Venuti con poche lire in tasca, oggi sono sufficientemente integrati nel tessuto sociale palermitano. Palermo è abbastanza disposta ad accogliere chi viene da lontano. Forse perché abituata ad essere «invasa» (oltre dieci dominazioni nel corso della sua storia) da popoli di lingua, razza e religione diverse che si sono poi perfettamente integrati lasciando una grande eredità  culturale e artistica.

Ufficialmente, gli immigrati nel capoluogo siciliano sono circa dodicimila, e provengono per la maggior parte dal Nord Africa e dallo Sri Lanka. Come Ahmed, la maggior parte di loro vive a Palermo da molti anni, ha sposato un immigrato e i loro figli, nati in Italia, frequentano scuole italiane e parlano la lingua di Dante assai meglio dei loro genitori. Sono tutti abbastanza bene integrati, e alcuni di loro hanno aperto attività  in proprio (negozi, ristoranti, pizzerie...), e vivono in abitazioni decenti.

«Quando sono venuto in Sicilia `€“ racconta Ahmed, che oggi lavora come cuoco in una trattoria del Centro `€“ non avevo tante scelte. La Sicilia era il lembo d`€™Europa più vicino alla Tunisia, il luogo più facile da raggiungere per me che non aveva denaro». Quando è arrivato a Palermo, Ahmed non aveva praticamente niente: qualche vecchio vestito e della biancheria in una valigia di cartone, legata non con lo spago, come gli emigranti italiani, ma con nastro adesivo da imballaggio.

Poi l`€™arrivo a Palermo in autostop da Trapani, dove la nave aveva attraccato, e l`€™incontro con il «Santa Chiara», primo centro di accoglienza per extracomunitari in Palermo, fondato e tuttora diretto da un sacerdote salesiano, don Baldassare Meli.

«Non sono cattolico `€“ racconta Ahmed `€“, e inizialmente ero diffidente nei confronti del Centro, situato in un convento pieno di crocifissi e con una chiesa accanto. Poi ho parlato con i miei connazionali che lo frequentavano, e ho capito che lì l`€™accoglienza prescindeva dal colore della pelle e dalla religione professata. Don Meli e i suoi collaboratori mi hanno accolto e basta, e mi accolgono ogni volta che vado a trovarli. Nessuno mi ha mai chiesto di che religione fossi o che lingua parlassi; nessuno mi ha mai chiesto di andare in chiesa o di partecipare alla preghiera che ogni pomeriggio fanno gli immigrati cattolici. Mi hanno subito aiutato e basta, in nome della carità  di quel Dio che io chiamo Allah e che prego ogni venerdì con mia moglie e i miei bambini nella moschea». Una moschea ospitata nella chiesa sconsacrata di San Paolino dei Giardinieri, messa a disposizione della comunità  islamica dall`€™allora arcivescovo di Palermo, il cardinale Salvatore Pappalardo.

Ma qualcosa di «strano» sta avvenendo nella famigliola di Ahmed, tunisino diventato palermitano. «Kais, il più grande dei miei figli `€“ racconta `€“ si sente attratto dalla religione cristiana. A scuola ha appreso dalla maestra i rudimenti della religione cattolica e l`€™altra sera ha chiesto a me e a Leila di essere battezzato. Io non ho nulla in contrario: del resto, comunque lo si chiami, Dio è lo stesso per tutti, e si manifesta nell`€™amore e nella carità : quell`€™amore e quella carità  che mi hanno permesso di trovare una nuova speranza e di costruirmi un futuro diverso qui a Palermo».

Progetto Spazio Somalia

I clandestini di San Roberto Bellarmino

di Gianni Maritati

«Hai un computer e una stampante che non usi più? Regalalo al Progetto Spazio Somalia!» L`€™invito, scritto a grandi caratteri su un cartellone, colpisce quasi subito i fedeli che entrano nella chiesa romana di san Roberto Bellarmino, al quartiere Parioli. Sullo stesso cartellone altre frasi attirano l`€™attenzione: «Uno stato devastato dalla guerra civile dove non si può tornare... I nostri documenti scaduti, rubati, persi... La rinuncia a combattere abbandonandosi all`€™alcol... I figli, la moglie, i genitori: dove sono?». A scrivere questi appelli-messaggi è un gruppo di immigrati somali che si rivolgono ai cristiani del territorio firmandosi con i loro semplici nomi: Hassan, Said, Shukri, Feisal e altri ancora. Vicino al cartellone, esposti in una grande bacheca, bellissimi prodotti di artigianato: cornici e portapenne, specchi e scatole portaoggetti, icone, ricami su stoffa. Sono ancora loro, gli immigrati somali, a fabbricarli con le proprie mani. I soldi che ne ricavano, servono a riacquistare fiducia e speranza, oltre che ad affrontare le emergenze di tutti i giorni e, in alcuni casi, a sostenere la famiglia rimasta in patria.

La patria, appunto. Quella Somalia devastata da oltre dieci anni di guerra civile, divisa fra tre grandi fazioni perennemente in lotta fra di loro, dove non esistono possibilità  di trovare un lavoro e costruirsi un futuro. Contando sugli storici rapporti che legano l`€™Italia alla Somalia, in tanti, durante gli anni Ottanta, hanno avuto un permesso di soggiorno nel nostro Paese per asilo politico o per lavoro. Poi, per diversi motivi, hanno perso il lavoro e il rientro in patria è diventato impossibile. Caduti nella clandestinità  e nella dipendenza dall`€™alcol, tragico rifugio di tutte le loro frustrazioni, vari gruppi hanno trovato riparo nella parrocchia di San Bellarmino, dormendo sotto il porticato d`€™ingresso, a volte nella chiesa stessa. La successiva sistemazione in una baracca poco distante creava problemi d`€™ordine pubblico, per cui sono «ritornati» in parrocchia, che per loro era come una casa. A questo punto, la comunità  locale si mobilita. Nasce, nell`€™estate del 2000, il Progetto Spazio Somalia grazie anche al contributo di un`€™associazione locale senza scopi di lucro (il Centro Welcome) e al coinvolgimento di due operatori professionisti.

«Abbiamo messo a loro disposizione `€“ racconta il parroco, padre Stefano Salviucci, gesuita `€“ una palestra di 150 metri quadrati che fa parte delle strutture parrocchiali: metà  utilizzata per il ricovero notturno degli immigrati che non sanno dove andare e metà  adibita a laboratorio artigianale». In questo locale ampio e accogliente, dove spicca una cartina gigante del Corno d`€™Africa, sono tutti educati e sorridenti, ma poco disponibili a parlare delle proprie esperienze. «A parte alcuni che da sempre hanno aderito al Progetto per tentare di reinserirsi nella società  `€“ spiega il parroco insieme a uno dei due operatori `€“ tanti altri vanno e vengono. Tutti hanno alle spalle drammi e sofferenze difficili da sopportare. Ma tutti, qui, trovano chi li aiuta a recuperare il senso della propria dignità  e un orizzonte di speranza. In tanti si sono curati in ospedale per combattere l`€™alcolismo, alcuni hanno imparato a parlare bene l`€™italiano e ad arrangiarsi con diversi lavoretti. Uno di loro, Ibrahim, siamo anche riusciti a farlo ritornare in Etiopia dove vive la madre».

Il permesso di soggiorno. Resta però il grande problema, anzi l`€™angoscioso assillo della mancanza del permesso di soggiorno. Nel mondo della clandestinità  i somali sono i più penalizzati perché l`€™Italia, come molti altri Paesi, non riconosce il governo somalo, in quanto questo rappresenta solo una delle fazioni in lotta. L`€™impatto con la realtà  italiana, dunque, è molto duro e, come spesso succede, anche al quartiere Parioli di Roma solo la comunità  ecclesiale riesce a mettere in moto la solidarietà . Anche se questo significa esporsi in prima persona: «Io sarei perseguibile per legge `€“ ammette il parroco di San Bellarmino `€“ perché do ospitalità  a dei clandestini». Clandestini che però, finché non vengono rimpatriati con la forza, sono costretti a vivere in gravi condizioni di marginalità  e disagio: nessuno dà  loro i permessi di soggiorno e anche se avessero la possibilità  economica di tornare al proprio Paese, non lo fanno perché lì troverebbero solo povertà  e guerra. Alcuni hanno avuto riconosciuto a suo tempo lo status di rifugiato politico ma poi anche quella «copertura» è caduta.

E così, senza permesso di soggiorno, è negata loro qualunque possibilità  di integrazione. «Agli inizi, prima dell`€™avvio del Progetto, la convivenza fra parrocchiani e immigrati creava molte incomprensioni e difficoltà , `€“ racconta ancora padre Salviucci `€“ ora invece aiuta a sviluppare i valori dell`€™amicizia, del rispetto, della tolleranza. I somali, inoltre, a parte una donna di religione cattolica, sono tutti musulmani e questo favorisce anche il dialogo interreligioso. Per questo chiediamo alla comunità  di farsi carico del Progetto con un impegno materiale ed economico concreto, specie ora che la sovvenzione iniziale del Comune di Roma non è stata rinnovata. A noi piace chiamarle adozioni ravvicinate. Abbiamo cioè calcolato che, oltre alle forze di volontariato, sempre molto preziose, occorrono circa due milioni di lire al mese: in pratica basterebbero cinquanta famiglie che si impegnano per un anno a versare 50mila lire al mese. È una somma modesta, lo so. Il Progetto è solo una goccia nel mare ma ha la forza del segno, della testimonianza. E per questo ci impegniamo con tutte le nostre energie a portarlo avanti».

Il nostro punto di vista

Con uno sforzo di razionalità `€¦

Di recente una rivista poneva a titolo di un suo servizio sul problema dell`€™emigrazione un interrogativo provocatorio: «Emergenza e/o provvidenza?». Le cronache quotidiane, il comune sentire dell`€™uomo di strada, cioè l`€™opinione della «gente» come si usa dire, sembrano orientare la risposta verso il primo aspetto della domanda, innegab

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017