Italia dove vai?
Riuscirà l'Italia a superare l'impasse economico, politico e sociale che ha caratterizzato l'anno appena finito? Che cosa ci aspetta nell'immediato futuro? Rispondono i direttori di alcune importanti testate giornalistiche.
13 Gennaio 2011
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Più volte gli italiani hanno dimostrato di essere in grado di dare il meglio di sé proprio nei momenti più bui della loro storia. Ora, all’indomani di una crisi economica con pesanti strascichi sociali ed economici e di fronte a un anno che non inizia sotto i migliori auspici, è lecito domandarsi se essi riusciranno ancora una volta a rispolverare quell’antica virtù di volgere il negativo in positivo e di attingere a insperate riserve di creatività e resistenza.
Non va in questo senso la fotografia che il Censis ha fatto dell’Italia e degli italiani nel suo 44º Rapporto sulla situazione sociale, da cui emerge una società appiattita, disorientata, indifferente, spesso incline al cinismo, senza memoria del passato né prospettive di futuro. Un’Italia priva di bussola che non sa più individuare regole, valori e comportamenti condivisi, egoista e autoreferenziale, senza una coscienza collettiva e senza più capacità di desiderare. Ma è davvero così? Che cosa ci aspetta nell’immediato futuro? Rispondono quattro testimoni d’eccezione, direttori di alcune delle più importanti testate giornalistiche del nostro Paese.
Marco Tarquinio direttore di «Avvenire»
Percepisco un’Italia a due velocità, nella quale convivono forze che spingono la crescita e altre che la rallentano. Il nostro è un Paese frenato da una crisi economico-finanziaria che non passa, da riforme di sistema che non arrivano, dalle tasse che alcuni – sempre i soliti, i contribuenti onesti – non vedono scendere affatto, mentre altri – anche qui, sempre i soliti, i furbi – non pagano mai secondo giustizia. Allo stesso tempo è un’Italia resa spedita dalla voglia di fare di chi reagisce con passione al malaffare e alla malavita; di chi fa impresa e di chi lavora non solo per sé; di chi fa ricerca e studia preparando il futuro.
Se questo è il Paese reale, che definirei appunto «a velocità altalenante», c’è poi il cosiddetto «Paese legale», la cui velocità è a dir poco sconsolante. Constato, purtroppo, che la proposta e l’azione politica procedono a sussulti e a strappi, secondo logiche spesso tutte interne al Palazzo. Al centro delle battaglie in corso non ci sono le «grandi questioni». La sorte della legislatura non è legata a divisioni sul modello di welfare o sulla qualità e le priorità di una riforma generale del fisco. Troppo dipende da questioni di potere e da antagonismi ormai anche velenosamente personali. Questa dicotomia tra Paese reale e legale è un andamento che pesa: fa temere che il 2011 possa essere un anno di difficoltà serie, forse anche segnato – io spero di no – da una furibonda battaglia elettorale.
Ciò detto, che cosa augurare all’Italia? Che si riesca, in tutti i settori della vita civile, a dare una svolta di stabilità, che è – ricordiamocelo – l’esatto contrario della precarietà. Quindi – facendo esempi concreti – stabilità sul piano dell’occupazione, dando certezze ai giovani che si affacciano al lavoro e ai meno giovani che il lavoro rischiano di perderlo o devono ritrovarlo; stabilità sul piano della famiglia, sostenendola davvero senza inseguire fragili modelli alternativi, e ridandole finalmente in concreto il ruolo e il peso che merita per le politiche di un Paese che guarda al domani e, al cospetto delle altre nazioni, sa esercitare un ruolo e dare esempi.
Più in generale, penso che dobbiamo augurarci, in un mondo che è e resta senza pace, una stabilità sul piano dell’azione per costruire una pace vera. Certo, sappiamo che questo – quasi per definizione – è un piano purtroppo inclinato e sbilenco, ma per noi cristiani è essenziale, ed è essenzialmente ancorato all’affermazione della libertà e della giustizia.
All’Italia auguro, più modestamente ma con intensità non minore, una convincente stabilità sul piano della politica, perché si riesca ad attraversare e a governare in modo efficace e lungimirante l’attuale fase critica, propiziando una stagione di equilibrio tra le istituzioni e di ricostruzione del «sentimento» del bene comune.
Ferruccio de Bortoli direttore del «Corriere della Sera»
C’è troppa nebbia e troppo fango. Lo sguardo al futuro ravvicinato del nostro Paese tradisce il pessimismo delle cifre (modeste) dell’economia e lo scoramento per le condizioni (vergognose) della moralità pubblica. Eppure i motivi per essere ottimisti non mancano e noi vogliamo sperare che nel 2011 possano offrire lo spunto per una ripresa anche civile del nostro Paese. Forse ci illudiamo, ma quando l’anno comincia è lecito sognare più del dovuto. È vero, facciamo pochi figli (un tasso di natalità dell’1,4 largamente inferiore a quello naturale di sostituzione), viviamo in una società ingrigita, anche nell’umore, nella quale vi sono addirittura più bisnonni che bambini, ma nonostante tutto la famiglia rimane il caposaldo di ogni comunità. Il welfare sociale è stato insufficiente? Ci ha pensato il welfare familiare a soccorrere figli disoccupati o precari cronici. Ed è grazie al risparmio delle famiglie che il nostro Paese, pur gravato da un debito che sfiora il 120 per cento del prodotto interno lordo, può guardare con minore ansia alla crisi finanziaria che si è già abbattuta su altre economie europee. Le famiglie dovrebbero essere aiutate e ringraziate di più, mentre sono spesso il paravento verbale cui la politica si aggrappa per coprire spaventosi vuoti d’idee. Un altro motivo di speranza è costituito dalla fitta rete delle piccole imprese: sono il 98 per cento del totale dei nuclei produttivi italiani. Sono tanto vivaci quanto gracili; innervano il tessuto sociale e ne sono specchio fedele. Sono soprattutto cellule della nuova cittadinanza, scuole di educazione civica. E se gli immigrati diventeranno buoni cittadini lo si dovrà anche a loro.
È vero, l’Italia non ha più grandi imprese, esito che è il frutto di miopie antiche della borghesia industriale italiana, ma può puntare su una rete di imprenditorialità diffusa che nessun altro Paese al mondo può vantarsi di avere, nemmeno la Germania, la vera vincitrice del decennio della moneta unica. Ecco, le piccole imprese andrebbero aiutate e ringraziate di più. Insieme alle famiglie.
L’Italia cresce poco, è diventata in questi anni più volgare e maleducata. Si è perso il senso della cittadinanza, smarrita l’idea che vi sia anche un interesse comune accanto a quello privato, calpestato il valore dell’etica pubblica. Eppure, grazie alle sue famiglie e grazie alle sue imprese migliori, guarda al futuro con fiducia e non sarà mai preda della rassegnazione. Dovrebbe amarsi di più. Questo è l’augurio per il 2011.
Ezio Mauro direttore di «la Repubblica»
In questo momento storico non ci sono per gli italiani molte ragioni di ottimismo. Vivono un tempo di grandi incertezze e non riescono a individuare punti di riferimento. Lo Stato sembra distante e lontano, una pesante macchina burocratica incapace di affrontare i reali problemi del Paese e di suscitare un senso di appartenenza. Sembra essersi persa la bussola etica sia nei comportamenti individuali che collettivi: è diventato normale aggirare le regole, cercare delle scorciatoie per la propria autorealizzazione. Si indebolisce così un collante fondamentale della società, quello che Obama ha messo al primo posto al momento del suo insediamento: il senso di responsabilità, la visione del bene comune.
Sul tappeto rimangono i problemi veri: il lavoro che diventa sempre più un miraggio per i giovani, ma anche per chi a 45-50 anni rimane disoccupato con mutuo da pagare e figli da mantenere; un debito pubblico enorme, una grande debolezza che nessun governo, né di destra né di sinistra, è stato in grado di affrontare.
In un quadro tanto incerto si è fatto strada il populismo, che è una cultura politica legittima ma che io reputo più adatta alla campagna elettorale che all’azione di governo. Il populismo è una grande semplificazione. Norberto Bobbio diceva che la politica era stata inventata per attardarsi a faticare, a sciogliere i nodi della complessità che abbiamo davanti. È un lavoro faticoso, anonimo, grigio, a volte perfino impopolare, che spesso produce risultati a lungo termine. Il populismo dà l’illusione di risolvere, irrompe nella scena e invece di sbrogliare la matassa la elimina di netto con la «spada del comando», lasciando solo fili recisi. Ma quella matassa è il groviglio del nostro vivere insieme e si fa comunque fatica a riannodare i fili rimasti. Il rischio grave è che i cittadini si abituino allo scadimento della vita pubblica, cedano all’apatia e al cinismo.
Per uscire da questo impasse bisogna che la politica ritorni a sedersi a capotavola, con il bagaglio della sua tradizione, dei suoi valori e della sua storia riconoscibile e riconosciuta dai cittadini. È lei che deve tenere il mazzo e distribuire le carte, perché è l’unica in grado di disciplinare il naturale conflitto tra gli interessi particolari che sono in gioco, nel nome dell’interesse generale.
Nel nostro Paese ci sono comunque anche alcuni elementi di luce. Io intravedo una reazione degli italiani, anche se non è così decisa come sarebbe necessario. Credo che ci siano ancora delle riserve di fiducia: non tutto è logorato ed esistono ancora dei riferimenti istituzionali che funzionano. Però si può voltare pagina solo a patto di essere coscienti delle difficoltà che abbiamo davanti, a tutti i livelli – sociale, economico e politico – e che si individuino delle priorità «vere».
L’altra grande fonte di fiducia sono i giovani: sono la prima generazione, dopo un lungo periodo di benessere, a dover affrontare un percorso di vita non lineare, con lavori precari e nessuna sicurezza, un’incertezza che disorienta noi adulti. Eppure loro vanno incontro al futuro con coraggio, forza, impegno, caparbietà. Credo dovremmo prendere esempio da loro.
Giovanni Maria Vian direttore de «L’Osservatore Romano»
L’Italia si è lasciata alle spalle un anno difficile – ma quale tempo è senza difficoltà? – ed è entrata nel 2011. Che per il Paese segna il centocinquantenario dell’unità. Un anniversario importante, ma soprattutto l’occasione per guardare alla storia di questo secolo e mezzo con la volontà di andare avanti. Tutti insieme, nonostante le differenze, legittime, e persino nonostante i contrasti, anch’essi legittimi, se non superano i limiti che sono richiesti dal bene comune.
Dalla storia infatti si può imparare, o meglio la riflessione sul passato rende più consapevoli delle sfide che ciascuno deve affrontare, individualmente e socialmente. Ma proprio la storia è oggi purtroppo sempre più trascurata, e questo fatto è un sintomo, tra i tanti, della crisi culturale che è alla radice del senso di smarrimento complessivo sempre più avvertito.
Preoccupazione forte e diffusa continua a costituire la crisi finanziaria, economica e sociale, anche se la rete di sicurezza rappresentata dalle famiglie e dal risparmio – realtà in Italia più solide che altrove – allevia pesi comunque crescenti e che gravano soprattutto sugli anziani, sempre più numerosi, e sui giovani, spesso angosciati per quanto li aspetta. Ciò che più colpisce è infatti la scarsa fiducia nel futuro, che trapela dal persistente inverno demografico, mentre la popolazione invecchia progressivamente.
Questi due fenomeni, considerati allarmanti in una prospettiva temporale non così lontana, sono solo in parte attutiti dalla presenza degli immigrati, peraltro in percentuale meno numerosi che in altri Paesi. E se nascono pochi bambini significa che si affievolisce la speranza, in una società che rinuncia a pensare al futuro perché è troppo concentrata su un presente effimero, e che s’indebolisce la spinta verso una reale crescita economica, non compensata da una corsa ai consumi, tanto frenetica quanto indotta, e dunque drogata.
Per contrastare questo materialismo pratico e senza sbocchi è allora necessario abbandonare modelli culturali che puntano tutto sull’esteriorità e sull’immediatezza, trascurando la formazione dei giovani. Come di fatto sta avvenendo nella scuola e nell’università. Qui, da una parte, gli studenti sono irresponsabilmente abbandonati a se stessi, e dall’altra le nuove generazioni di studiosi sono di fatto espulse da una programmazione miope. In questi due ambiti decisivi vi è dunque bisogno di una netta inversione di tendenza.
Allora, quale anno è migliore del 2011 per scommettere sul futuro?
Non va in questo senso la fotografia che il Censis ha fatto dell’Italia e degli italiani nel suo 44º Rapporto sulla situazione sociale, da cui emerge una società appiattita, disorientata, indifferente, spesso incline al cinismo, senza memoria del passato né prospettive di futuro. Un’Italia priva di bussola che non sa più individuare regole, valori e comportamenti condivisi, egoista e autoreferenziale, senza una coscienza collettiva e senza più capacità di desiderare. Ma è davvero così? Che cosa ci aspetta nell’immediato futuro? Rispondono quattro testimoni d’eccezione, direttori di alcune delle più importanti testate giornalistiche del nostro Paese.
Marco Tarquinio direttore di «Avvenire»
Percepisco un’Italia a due velocità, nella quale convivono forze che spingono la crescita e altre che la rallentano. Il nostro è un Paese frenato da una crisi economico-finanziaria che non passa, da riforme di sistema che non arrivano, dalle tasse che alcuni – sempre i soliti, i contribuenti onesti – non vedono scendere affatto, mentre altri – anche qui, sempre i soliti, i furbi – non pagano mai secondo giustizia. Allo stesso tempo è un’Italia resa spedita dalla voglia di fare di chi reagisce con passione al malaffare e alla malavita; di chi fa impresa e di chi lavora non solo per sé; di chi fa ricerca e studia preparando il futuro.
Se questo è il Paese reale, che definirei appunto «a velocità altalenante», c’è poi il cosiddetto «Paese legale», la cui velocità è a dir poco sconsolante. Constato, purtroppo, che la proposta e l’azione politica procedono a sussulti e a strappi, secondo logiche spesso tutte interne al Palazzo. Al centro delle battaglie in corso non ci sono le «grandi questioni». La sorte della legislatura non è legata a divisioni sul modello di welfare o sulla qualità e le priorità di una riforma generale del fisco. Troppo dipende da questioni di potere e da antagonismi ormai anche velenosamente personali. Questa dicotomia tra Paese reale e legale è un andamento che pesa: fa temere che il 2011 possa essere un anno di difficoltà serie, forse anche segnato – io spero di no – da una furibonda battaglia elettorale.
Ciò detto, che cosa augurare all’Italia? Che si riesca, in tutti i settori della vita civile, a dare una svolta di stabilità, che è – ricordiamocelo – l’esatto contrario della precarietà. Quindi – facendo esempi concreti – stabilità sul piano dell’occupazione, dando certezze ai giovani che si affacciano al lavoro e ai meno giovani che il lavoro rischiano di perderlo o devono ritrovarlo; stabilità sul piano della famiglia, sostenendola davvero senza inseguire fragili modelli alternativi, e ridandole finalmente in concreto il ruolo e il peso che merita per le politiche di un Paese che guarda al domani e, al cospetto delle altre nazioni, sa esercitare un ruolo e dare esempi.
Più in generale, penso che dobbiamo augurarci, in un mondo che è e resta senza pace, una stabilità sul piano dell’azione per costruire una pace vera. Certo, sappiamo che questo – quasi per definizione – è un piano purtroppo inclinato e sbilenco, ma per noi cristiani è essenziale, ed è essenzialmente ancorato all’affermazione della libertà e della giustizia.
All’Italia auguro, più modestamente ma con intensità non minore, una convincente stabilità sul piano della politica, perché si riesca ad attraversare e a governare in modo efficace e lungimirante l’attuale fase critica, propiziando una stagione di equilibrio tra le istituzioni e di ricostruzione del «sentimento» del bene comune.
Ferruccio de Bortoli direttore del «Corriere della Sera»
C’è troppa nebbia e troppo fango. Lo sguardo al futuro ravvicinato del nostro Paese tradisce il pessimismo delle cifre (modeste) dell’economia e lo scoramento per le condizioni (vergognose) della moralità pubblica. Eppure i motivi per essere ottimisti non mancano e noi vogliamo sperare che nel 2011 possano offrire lo spunto per una ripresa anche civile del nostro Paese. Forse ci illudiamo, ma quando l’anno comincia è lecito sognare più del dovuto. È vero, facciamo pochi figli (un tasso di natalità dell’1,4 largamente inferiore a quello naturale di sostituzione), viviamo in una società ingrigita, anche nell’umore, nella quale vi sono addirittura più bisnonni che bambini, ma nonostante tutto la famiglia rimane il caposaldo di ogni comunità. Il welfare sociale è stato insufficiente? Ci ha pensato il welfare familiare a soccorrere figli disoccupati o precari cronici. Ed è grazie al risparmio delle famiglie che il nostro Paese, pur gravato da un debito che sfiora il 120 per cento del prodotto interno lordo, può guardare con minore ansia alla crisi finanziaria che si è già abbattuta su altre economie europee. Le famiglie dovrebbero essere aiutate e ringraziate di più, mentre sono spesso il paravento verbale cui la politica si aggrappa per coprire spaventosi vuoti d’idee. Un altro motivo di speranza è costituito dalla fitta rete delle piccole imprese: sono il 98 per cento del totale dei nuclei produttivi italiani. Sono tanto vivaci quanto gracili; innervano il tessuto sociale e ne sono specchio fedele. Sono soprattutto cellule della nuova cittadinanza, scuole di educazione civica. E se gli immigrati diventeranno buoni cittadini lo si dovrà anche a loro.
È vero, l’Italia non ha più grandi imprese, esito che è il frutto di miopie antiche della borghesia industriale italiana, ma può puntare su una rete di imprenditorialità diffusa che nessun altro Paese al mondo può vantarsi di avere, nemmeno la Germania, la vera vincitrice del decennio della moneta unica. Ecco, le piccole imprese andrebbero aiutate e ringraziate di più. Insieme alle famiglie.
L’Italia cresce poco, è diventata in questi anni più volgare e maleducata. Si è perso il senso della cittadinanza, smarrita l’idea che vi sia anche un interesse comune accanto a quello privato, calpestato il valore dell’etica pubblica. Eppure, grazie alle sue famiglie e grazie alle sue imprese migliori, guarda al futuro con fiducia e non sarà mai preda della rassegnazione. Dovrebbe amarsi di più. Questo è l’augurio per il 2011.
Ezio Mauro direttore di «la Repubblica»
In questo momento storico non ci sono per gli italiani molte ragioni di ottimismo. Vivono un tempo di grandi incertezze e non riescono a individuare punti di riferimento. Lo Stato sembra distante e lontano, una pesante macchina burocratica incapace di affrontare i reali problemi del Paese e di suscitare un senso di appartenenza. Sembra essersi persa la bussola etica sia nei comportamenti individuali che collettivi: è diventato normale aggirare le regole, cercare delle scorciatoie per la propria autorealizzazione. Si indebolisce così un collante fondamentale della società, quello che Obama ha messo al primo posto al momento del suo insediamento: il senso di responsabilità, la visione del bene comune.
Sul tappeto rimangono i problemi veri: il lavoro che diventa sempre più un miraggio per i giovani, ma anche per chi a 45-50 anni rimane disoccupato con mutuo da pagare e figli da mantenere; un debito pubblico enorme, una grande debolezza che nessun governo, né di destra né di sinistra, è stato in grado di affrontare.
In un quadro tanto incerto si è fatto strada il populismo, che è una cultura politica legittima ma che io reputo più adatta alla campagna elettorale che all’azione di governo. Il populismo è una grande semplificazione. Norberto Bobbio diceva che la politica era stata inventata per attardarsi a faticare, a sciogliere i nodi della complessità che abbiamo davanti. È un lavoro faticoso, anonimo, grigio, a volte perfino impopolare, che spesso produce risultati a lungo termine. Il populismo dà l’illusione di risolvere, irrompe nella scena e invece di sbrogliare la matassa la elimina di netto con la «spada del comando», lasciando solo fili recisi. Ma quella matassa è il groviglio del nostro vivere insieme e si fa comunque fatica a riannodare i fili rimasti. Il rischio grave è che i cittadini si abituino allo scadimento della vita pubblica, cedano all’apatia e al cinismo.
Per uscire da questo impasse bisogna che la politica ritorni a sedersi a capotavola, con il bagaglio della sua tradizione, dei suoi valori e della sua storia riconoscibile e riconosciuta dai cittadini. È lei che deve tenere il mazzo e distribuire le carte, perché è l’unica in grado di disciplinare il naturale conflitto tra gli interessi particolari che sono in gioco, nel nome dell’interesse generale.
Nel nostro Paese ci sono comunque anche alcuni elementi di luce. Io intravedo una reazione degli italiani, anche se non è così decisa come sarebbe necessario. Credo che ci siano ancora delle riserve di fiducia: non tutto è logorato ed esistono ancora dei riferimenti istituzionali che funzionano. Però si può voltare pagina solo a patto di essere coscienti delle difficoltà che abbiamo davanti, a tutti i livelli – sociale, economico e politico – e che si individuino delle priorità «vere».
L’altra grande fonte di fiducia sono i giovani: sono la prima generazione, dopo un lungo periodo di benessere, a dover affrontare un percorso di vita non lineare, con lavori precari e nessuna sicurezza, un’incertezza che disorienta noi adulti. Eppure loro vanno incontro al futuro con coraggio, forza, impegno, caparbietà. Credo dovremmo prendere esempio da loro.
Giovanni Maria Vian direttore de «L’Osservatore Romano»
L’Italia si è lasciata alle spalle un anno difficile – ma quale tempo è senza difficoltà? – ed è entrata nel 2011. Che per il Paese segna il centocinquantenario dell’unità. Un anniversario importante, ma soprattutto l’occasione per guardare alla storia di questo secolo e mezzo con la volontà di andare avanti. Tutti insieme, nonostante le differenze, legittime, e persino nonostante i contrasti, anch’essi legittimi, se non superano i limiti che sono richiesti dal bene comune.
Dalla storia infatti si può imparare, o meglio la riflessione sul passato rende più consapevoli delle sfide che ciascuno deve affrontare, individualmente e socialmente. Ma proprio la storia è oggi purtroppo sempre più trascurata, e questo fatto è un sintomo, tra i tanti, della crisi culturale che è alla radice del senso di smarrimento complessivo sempre più avvertito.
Preoccupazione forte e diffusa continua a costituire la crisi finanziaria, economica e sociale, anche se la rete di sicurezza rappresentata dalle famiglie e dal risparmio – realtà in Italia più solide che altrove – allevia pesi comunque crescenti e che gravano soprattutto sugli anziani, sempre più numerosi, e sui giovani, spesso angosciati per quanto li aspetta. Ciò che più colpisce è infatti la scarsa fiducia nel futuro, che trapela dal persistente inverno demografico, mentre la popolazione invecchia progressivamente.
Questi due fenomeni, considerati allarmanti in una prospettiva temporale non così lontana, sono solo in parte attutiti dalla presenza degli immigrati, peraltro in percentuale meno numerosi che in altri Paesi. E se nascono pochi bambini significa che si affievolisce la speranza, in una società che rinuncia a pensare al futuro perché è troppo concentrata su un presente effimero, e che s’indebolisce la spinta verso una reale crescita economica, non compensata da una corsa ai consumi, tanto frenetica quanto indotta, e dunque drogata.
Per contrastare questo materialismo pratico e senza sbocchi è allora necessario abbandonare modelli culturali che puntano tutto sull’esteriorità e sull’immediatezza, trascurando la formazione dei giovani. Come di fatto sta avvenendo nella scuola e nell’università. Qui, da una parte, gli studenti sono irresponsabilmente abbandonati a se stessi, e dall’altra le nuove generazioni di studiosi sono di fatto espulse da una programmazione miope. In questi due ambiti decisivi vi è dunque bisogno di una netta inversione di tendenza.
Allora, quale anno è migliore del 2011 per scommettere sul futuro?
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017