Per Kizi abbiamo un sogno: una vita senza aids

06 Giugno 2002 | di

Nell`€™Africa sub-sahariana il 62 per cento dei sieropositivi sono donne in età  fertile. Centinaia di migliaia di neonati rischiano di nascere infetti e di morire prima dei 5 anni. A loro, le vittime più deboli della più devastante epidemia che l`€™umanità  ricordi, sono destinati i tre progetti che vi proponiamo.

Salvare i bambini prima della nascita, allungare la vita alle loro madri, combattere la tubercolosi, veicolo e conseguenza dell`€™aids, sono gli obiettivi di tre campagne innovative, studiate insieme ai medici missionari in Tanzania, Kenya e Angola. Progetti pilota che fanno parte di un disegno più grande: trovare un modo tutto africano di combattere l`€™aids.

Aiutateci a realizzare il sogno. Insieme salveremo migliaia di vite e parteciperemo alla costruzione di una sanità  che ha al centro l`€™uomo.

L`€™Africa sta affondando sotto il peso dell`€™aids. Su 40 milioni di sieropositivi e ammalati nel mondo, 28,1 milioni vivono nei Paesi a sud del Sahara. Quasi tutti moriranno entro il 2010, lasciandosi alle spalle 40 milioni di orfani e nazioni in ginocchio. I lavoratori muoiono. Le fabbriche chiudono. I pochi servizi scolastici e sanitari collassano. L`€™Africa sta tornando all`€™anno zero dello sviluppo con l`€™attesa di vita che, in alcuni Paesi, è già  arretrata di 8 anni. Cifre disperanti, che sollecitano le coscienze: è troppo tardi per fare qualcosa? Dobbiamo stare a guardare? Da queste domande è iniziata la ricerca che ha portato la Caritas antoniana a sostenere i tre progetti che vi proponiamo. Tre possibili risposte, studiate assieme ai medici missionari.

L`€™aids si può combattere

I tre progetti hanno un unico punto di partenza: l`€™aids in Africa non è solo un`€™emergenza sanitaria, è anche un problema sociale ed economico. Le soluzioni, quindi, non possono essere solo mediche. Devono prendersi cura del malato a 360 gradi: dai bisogni fisici, a quelli psicologici, a quelli pratici: cibo, riparo, figli da mantenere. Come può, infatti, un malato ristabilirsi da una malattia correlata, cioè provocata dal virus Hiv, se non ha nulla da mangiare? Che solitudine tremenda deve provare una donna in gravidanza che scopre di essere sieropositiva, non ha i mezzi per salvare il figlio, né, forse, il tempo per vederlo crescere.

I medici missionari sperimentano ogni giorno sul campo che c`€™è un solo modo per trovare una via africana di lotta all`€™aids: costruire reti di servizi, collegando e potenziando servizi già  esistenti o organizzandone di nuovi. Tra i nuovi segnaliamo: servizi sanitari, psicologici, d`€™informazione e di consiglio, di prevenzione, di distribuzione di alimenti e vestiti, di raccolta fondi per mandare a scuola i figli dei malati, di ricerca di una sistemazione per gli orfani. Al livello più alto della rete ci sono i servizi di microcredito, cioè un sistema di piccoli prestiti, per finanziare attività  produttive che tolgano dalla miseria e dall`€™emarginazione i sieropositivi.

I missionari medici sono arrivati a soluzioni di questo tipo dopo aver sperimentato di persona, oltre che sulla pelle dei propri pazienti, la lentezza di tanti progetti internazionali.

Mentre i G8 discutono

Da qualche tempo la comunità  internazionale mostra una crescente preoccupazione per la gravità  dell`€™epidemia in Africa. E qualcosa comincia a muoversi.

Nel giugno del 2001, durante la 26° assemblea generale delle Nazioni Unite, dedicata all`€™aids, i sette Paesi più ricchi hanno rinnovato per l`€™ennesima volta l`€™impegno (sempre disatteso) a versare lo 0,7 per cento del Pil (Prodotto interno lordo) a questi scopi. Conti alla mano, si tratta di 130 miliardi di dollari. Ancora poco, rispetto al problema. I buoni propositi si sono infranti al G8 di Genova. Il fondo effettivo messo a disposizione per la cura non solo dell`€™aids ma anche della tubercolosi e della malaria è stato di appena 1 miliardo e 200 milioni di dollari. Ed è, per giunta, una tantum. Una beffa, rispetto ai 2 mila miliardi di dollari spesi ogni anno dai Paesi più ricchi per la sanità . Il problema, poi, non è solo di quantità : chi e come sta gestendo questi fondi?

I farmaci non bastano

Un`€™altra soluzione, più volte proposta, è quella di portare in Africa la terapia con gli antiretrovirali, che sta salvando i malati in Occidente. La cosa è sembrata possibile quando, lo scorso anno, il Sud Africa ha vinto la causa contro le multinazionali del farmaco, per superare la norma sui brevetti e produrre o importare le nuove medicine a basso costo. Tra le multinazionali s`€™è allora scatenata una corsa al ribasso. Oggi la terapia, che in Occidente costa dai 9 mila 500 ai 23 mila 500 dollari all`€™anno per paziente, in Africa si potrebbe, in teoria, ottenere con 800/900 dollari. La cifra è comunque altissima per Paesi in cui ancora si muore di morbillo, malattia vincibile con un vaccino di appena 15 centesimi di euro (300 lire circa).

Ma se anche questi farmaci piovessero dal cielo, non farebbero sopravvivere i malati. L`€™aids è una malattia complessa. Gli stessi antiretrovirali sono tossici, persino letali. Richiedono analisi di laboratorio e personale medico specializzato. Se la terapia non è seguita correttamente, può creare in breve tempo ceppi di Hiv resistenti anche a questi farmaci. Si può curare una malattia così complicata senza una rete di assistenza sanitaria e un minimo di tecnologie e, soprattutto, senza riempire le pance?

Queste soluzioni internazionali nascondono un equivoco di base: da un lato, sottolineano che l`€™aids in Africa va affrontato da più punti di vista, dall`€™altro, lo trattano come fosse solo un problema sanitario. In realtà  l`€™Africa che muore di aids è il risultato degli enormi squilibri economici che riservano a pochi le ricchezze mondiali e i benefici del mercato globalizzato. Trovare una soluzione a questo è molto più impegnativo che istituire un fondo o inondare l`€™Africa di medicine miracolose.

Il virus povertà 

Il motore dell`€™epidemia è la povertà . E due suoi sottoprodotti: la debolezza economica e sociale della donna e lo smantellamento dei servizi, specie di quelli sanitari.

In particolare, l`€™aids delle donne in Africa è una tragedia nella tragedia. La povertà , l`€™esclusione dalla scuola e dal lavoro le rendono socialmente deboli e in balia di violenze e sfruttamento sessuale. L`€™ignoranza sul virus e la conformazione dell`€™organo sessuale femminile aggravano la possibilità  d`€™infettarsi. Con risvolti drammatici. Nell`€™Africa sub-sahariana il 62 per cento dei sieropositivi sono donne in età  fertile. Il rischio di trasmettere il virus al bambino durante la gravidanza, il parto e l`€™allattamento varia dal 25 al 40 per cento a seconda delle zone. Il 30 per cento dei neonati sieropositivi sviluppa la malattia entro il primo anno di vita. Il 90 per cento dei bimbi infetti muore prima dei cinque anni.

L`€™aids indirettamente uccide anche i bambini sani che rimangono orfani perché, per molti, la madre è l`€™unica fonte di sopravvivenza.

Come si può combattere un nemico così forte se non si aiuta la donna africana a emanciparsi?

Immaginare una sanità  africana

Poiché la povertà  e tutte le sue conseguenze non si cancellano con un tratto di penna, le reti di servizi diventano il modo più immediato e sostenibile di affrontare il problema. Ciò significa capovolgere il modo di concepire l`€™aiuto sanitario in Africa, smettendo di imporre modelli lontani dalle possibilità  economiche dei Paesi poveri e recuperando i modelli tradizionali africani.

Su quali punti possono far forza queste reti di servizi? Innanzitutto, sulla prevenzione: la maggior parte dei sieropositivi non sa di esserlo. Né vuole saperlo per paura dell`€™emarginazione. Perché la prevenzione abbia successo, quindi, è fondamentale non solo l`€™informazione sul virus ma la capacità  di creare speranza e accettazione sociale della malattia.

Il secondo punto di forza può essere definito come limitazione del danno: è il tentativo di allungare e migliorare la vita dei malati, trattando le malattie correlate all`€™aids, e di prendersi cura dei superstiti e degli orfani. Un po`€™ come farebbe una famiglia allargata africana. Una madre che sospetta di essere sieropositiva sarà  disposta a fare il test e un eventuale cura per salvare il bambino se sa che il centro sanitario può allungarle la vita, darle alcuni alimenti di base (farina, zucchero), occuparsi, un domani, del figlio. Altrimenti perché sapere una verità  così terribile, che, per giunta, la condannerebbe all`€™emarginazione?

Tutte queste attività  possono essere inserite in un lavoro di rete. Ma una struttura di rete non si costruisce dall`€™oggi al domani. Ciò ha portato la Caritas antoniana a selezionare con cura gli operatori sanitari a cui affidare i progetti. Rifiutando a priori chi ha un approccio dall`€™alto e preferendo chi lavora in Africa da decenni, insieme alla gente e per la gente.

Per questo i nostri interlocutori saranno il Cuamm, medici con l`€™Africa, una ong (organizzazione non governativa) di medici missionari che opera in Africa da 52 anni e i missionari medici legati ai comboniani e alla Consolata.

Insieme per mamme e bambini

All`€™interno di queste esperienze di missione, appoggeremo, tra i primi nel mondo, attività  nuove che mirano a salvare il maggior numero possibile di bambini: i programmi di riduzione della trasmissione dell`€™aids dalla madre al neonato e la cura della tubercolosi. Essa è un potente veicolo per l`€™infezione. I bambini, infatti, sono le vittime più deboli di questa tragedia. Faremo di tutto per assicurare loro una vita senza aids, passata il più a lungo possibile accanto alle madri o almeno a persone che possano dare loro affetto e sostegno.

I tre progetti che finanzieremo, grazie al vostro aiuto, sono, inoltre, tentativi di agire con la logica di rete. Ma le diverse condizioni politiche ed economiche dei Paesi che li ospitano non permettono una rete ugualmente sviluppata: in Tanzania essa è a un buon livello. In Kenya è in uno stadio intermedio. In Angola, dove c`€™è la guerra da più di 40 anni, è in uno stadio iniziale.

Appoggiare questi progetti è molto di più che costruire un ospedale o mandare qualche medico. Significa creare le basi di una grande speranza. Significa essere i protagonisti della costruzione di un nuovo modello sanitario africano. Significa salvare migliaia di vite. Significa, infine, avere la possibilità  di non essere più spettatori impotenti di una grande tragedia, ma attori di sviluppo reale. Siamo in tanti e per fare molto basta un piccolo contributo. Qualsiasi somma verrà  interamente impegnata a questi scopi, perché la Caritas antoniana lavora con i volontari e non spreca soldi in burocrazia.

Non ci avete mai lasciati soli. Insieme abbiamo affrontato grandi sfide. Siamo sicuri che, grazie al vostro aiuto, questo 13 giugno, festa di sant`€™Antonio, può diventare l`€™alba di un sogno: una nuova Africa, libera dall`€™aids.

Tanzania

La tua alba senza aids

Il nostro progetto

Il progetto Nascere senza aids, finanziato dalla Caritas antoniana, ha come scopo principale quello di ridurre almeno del 40 per cento la trasmissione del virus Hiv dalla mamma al neonato e di allungare la vita delle mamme curando le malattie provocate dall`€™aids e migliorando la condizione socio-economica delle famiglie. Il progetto è inserito nella rete sanitaria della diocesi di Dar es Salaam. La rete di servizi, grazie alla collaborazione del governo e di associazioni locali, è forte e collaudata. I nostri referenti sono i medici missionari del Cuamm, presenti in Tanzania dal 1968 e a Dar es Salaam dal 1997. Il progetto si affianca a due servizi già  esistenti, quello di Maternità  sicura che ha migliorato l`€™assistenza al parto e ai neonati, e quello di Pasada (Pastoral activities and services for people with Aids/Hiv Dar es Salaam archdiocese), cioè dei servizi organizzati per i sieropositivi e gli ammalati di aids all`€™interno della diocesi. La maggior parte degli operatori sanitari e sociali sono del luogo e il progetto, pur aiutato da medici europei, ha una forte impronta africana. La popolazione che fa riferimento a questa rete di servizi è di circa 800 mila persone. Già  a partire dal prossimo anno si cercherà  di replicare l`€™iniziativa nella divisione di Mikumi (Morogoro) e nel distretto di Tosamaganga (Iringa), raggiungendo altre 300 mila persone.

Il progetto Nascere senza aids prevede tre linee d`€™intervento.

1. La prima, è quella medica e consiste nell`€™uso di farmaci per bloccare la trasmissione del virus al feto. Verrà  usato un antiretrovirale con una somministrazione semplificata: una sola dose alla madre sieropositiva all`€™inizio del travaglio e al bambino nell`€™arco di 72 ore dalla nascita. Studi clinici hanno dimostrato che questo intervento, ridotto al minimo, riduce la trasmissione di almeno il 40 per cento. E non è l`€™unico vantaggio. La terapia può essere effettuata anche da personale poco specializzato come le ostetriche di villaggio e il suo costo è ragionevolmente basso.

2. La seconda, è la formazione che consiste nell`€™aggiornamento dei medici, degli infermieri, degli operatori sociali e nell`€™educazione sanitaria della popolazione.

3. La terza, è il sostegno economico di Pasada, la rete di servizi per aiutare sieropositivi e malati a risolvere i problemi di tutti i giorni: dalla terapia delle malattie correlate, all`€™aiuto psicologico, al cibo, alla cura degli orfani, fino al sostegno scolastico ed economico delle famiglie prostrate dall`€™aids.

- Il costo previsto per l`€™intero progetto è di

200 mila euro (390 milioni di lire circa).

Il Paese

Dal punto di vista politico e sociale, la Tanzania è una fortunata eccezione nel panorama africano. Dopo l`€™indipendenza nel 1961, il suo leader carismatico J. K. Nyerere (morto nel 1999) ha dato notevole priorità  agli obiettivi di sviluppo umano: scuola, assistenza sanitaria di base gratuita, organizzazione del lavoro in cooperative. A livello sociale e politico, ha promosso la democrazia nel Paese e il superamento dei contrasti tribali.

Una battuta di arresto c`€™è stata con l`€™imposizione delle politiche liberiste negli anni Novanta: per favorire l`€™iniziativa privata, la Banca mondiale e il Fondo mondiale internazionale hanno imposto alla Tanzania la ricetta degli aggiustamenti strutturali: cioè meno investimenti per servizi pubblici, quali scuola e sanità . In campo sanitario, in particolare, è stata ammessa la sanità  privata e introdotto un ticket per quella pubblica. Da quel momento, c`€™è stato un progressivo deterioramento del servizio. Oggi la migliore sanità  è quella privata che, però, è inaccessibile ai più. La sanità  governativa ha livelli di qualità  e tariffe molto varie. La migliore come costi-prestazione rimane la sanità  sostenuta dalle confessioni religiose e, in particolare, dalla Chiesa cattolica, in accordo con il governo. Quest`€™ultima, però, deve affrontare un aumento delle richieste di assistenza, cui non riesce a far fronte.

Il medico

La mia professionalità ? Un privilegio

Cinquant`€™anni circa, tre figli, una grande passione: l`€™Africa. Leopoldo Salmaso, infettivologo, aveva appena finito gli studi quando decise di passare i primi cinque anni della sua professione e della sua vita matrimoniale in Tanzania, in un progetto del Cuamm. Si lasciava alle spalle la tacita riprovazione di amici e parenti che proprio non capivano come uno potesse perdersi la carriera a questo modo.

Fu l`€™inizio di un cambiamento come medico e come uomo.

Vai là  forte delle tue conoscenze professionali e del tuo modo di vedere la vita. E all`€™inizio non capisci. Racconta di quando in un uno dei primi giri in un reparto affollatissimo, dove avevi al massimo qualche secondo per formulare una diagnosi, d`€™improvviso gli sparirono infermieri e medici. Si guardò intorno basito. Scoprì che erano andati tutti a comprarsi la razione di zucchero e farina al dispensario dell`€™ospedale. La rabbia del professionista occidentale lo invase. Tuonò con il superiore che rimase impassibile. Presto capii, che io con la pancia piena, potevo permettermi di dedicare anima e corpo alla professione. Ma i miei colleghi africani non avevano di che sfamare i figli. La mia professionalità  mi sembrò più un privilegio che una virtù.

Oggi lavora in Italia con i tossicodipendenti e i sieropositivi e dedica tre mesi all`€™anno alla Tanzania per gestire il progetto Nascere senza aids che ci apprestiamo ad adottare.

Quando si capisce che assistere un malato di aids in Africa non è la stessa cosa che assisterlo in Occidente?

Quando, per esempio, vai a visitarlo e lo trovi denutrito in una catapecchia alta un metro, piena di buchi, mentre la stagione delle piogge sta per arrivare. Senti che non c`€™è cura che tenga se non gli dai un tetto di lamiera e un pugno di farina al giorno.

E a questo che serve la rete di servizi?

Certo, il nostro intervento medico non avrebbe gli stessi risultati se non collaborassimo con gli assistenti sociali di Pasada, la rete di servizi per malati di aids. Sono tutti del posto e sono persone meravigliose: loro sanno che quando spieghi a una donna africana come somministrare un farmaco e quella ti fa cenno di sì, non è detto che abbia capito. Ti sta dando ragione per rispetto.

Per lo stesso motivo, solo loro sono in grado di intuire se una gestante sieropositiva saprebbe cavarsela con un allattamento artificiale. Informazione fondamentale perché se esso è fatto bene può limitare il rischio di infettare il neonato ma, se fatto male, lo uccide.

Che valore ha il progetto Nascere senza aids?

È la via più promettente di prevenzione all`€™aids in Tanzania. L`€™organizzazione a rete, su cui ci appoggiamo, ci permette di seguire le donne prima e dopo il parto e di sperimentare l`€™efficacia di questa prevenzione nel tempo. Un`€™occasione unica per l`€™intera Africa.


alcuni costi minimi

1 test hiv = 1 Euro

1 dose di antiretrovirale per una coppia madre-bambino = 5 Euro

1 giorno di ospedale = 5 Euro

Costo totale del progetto 200.000 Euro


Kenya

Il nostro progetto

Il progetto finanziato dalla Caritas antoniana nelle baraccopoli di Nairobi ricalca il progetto Tanzania. Mira, cioè, a ridurre la trasmissione del virus Hiv dalla mamma al neonato, somministrando un farmaco antiretrovirale in una sola dose alla madre all`€™inizio del travaglio e al bambino entro 72 ore dalla nascita. Anche in questo caso, il progetto s`€™inserisce in un più vasto programma socio-sanitario, presente da alcuni anni nelle baraccopoli di Nairobi. Vi lavorano insieme i missionari di vari ordini e di organizzazioni italiani e stranieri: comboniani, Consolata, suore francescane, per citarne alcuni. La rete di servizi a Nairobi si sta pian piano sviluppando anche dal punto di vista sociale, grazie a missionari che curano le scuole informali, che assistono i pazienti terminali a domicilio o istituiscono cooperative di artigianato e riciclaggio di rifiuti. Dal punto di vista medico, cinque sono i servizi già  attivi:

1. Educazione alla salute e prevenzione dell`€™aids, per gli studenti dagli 11 ai 18 anni delle scuole di Korococho e Kariobangi.

2. Riabilitazione, fisioterapia, chirurgia correttiva per bambini handicappati di Korococho, Kariobangi e Mathare Valley.

3. Attività  chirurgica e di training del personale locale presso il Nazareth Mission Hospital.

4. Attività  ambulatoriale presso i dispensari di St.Theresa, Kariobangi, Kasarani.

5. Ambulatori settimanali per ragazzi di strada di Korococho.

L`€™aids ha reso pressante l`€™esigenza di aumentare l`€™assistenza alle donne in gravidanza. I figli nati da madre sieropositiva sono sempre più numerosi e non c`€™è alcun servizio di prevenzione. Il progetto mira a potenziare due strutture già  esistenti: la maternità  gestite dalle suore francescane di Kasarani e il centro sanitario della Consolata nel centro di Nairobi, per inserirvi un programma di prevenzione della trasmissione dell`€™Hiv da madre a figlio.

Trovandoci a lavorare in un progetto che parte con il nostro intervento, l`€™impegno della Caritas antoniana dovrà  spaziare su più campi:

1. Istituire in ogni dispensario missionario un servizio di counselling, cioè di consiglio e supporto psicologico e medico alle donne in gravidanza, prima e dopo il test Hiv.

2. Acquistare 18 mila test rapidi Determine per Hiv e una macchina Elisa per i test più accurati.

3. Acquistare i macchinari per una sala operatoria per i tagli cesarei, che riducono di molto il rischio di infettare il nascituro.

4. Acquistare il farmaco antiretrovirale per circa 6 mila coppie madre-bambino.

5. Stipendiare il personale per due anni: un coordinatore, due infermiere-ostetriche, un assistente sociale, un laboratorista e un consulente medico.

- Costo richiesto per il progetto: 200 mila euro (390 milioni di lire circa).

Il Paese

Nairobi, la capitale del Kenya, sembra, a prima vista, la Svizzera del Terzo mondo: sedi diplomatiche e di agenzie internazionali, palazzi di lusso, un`€™economia vivace. Ma intorno a una city degna di una capitale occidentale, ci sono 46 baraccopoli in cui vive il 70 per cento degli abitanti di Nairobi. Solo il 20 per cento di loro ha un impiego. Il reddito medio per famiglia è di circa 1000 scellini al mese, un po`€™ più di 15 euro. Circa metà  dei nuclei familiari è composto da sole donne con figli.

Drammatica la situazione sanitaria. La malnutrizione è permanente. Dilagano le gastroenteriti e le malattie respiratorie, specie nei bambini. La tubercolosi è in netta recrudescenza. L`€™aids è diventata un flagello. In Kenya il 14 per cento della popolazione è sieropositivo. Di contro, la sanità  è privata e, quindi, esclusa ai poveri. Solo gli ospedali missionari danno servizi a basso costo. Ma c`€™è chi non ha neppure i soldi per mangiare.

La corruzione endemica della classe dirigente ha privato il Paese di politiche attente allo sviluppo umano. L`€™abbandono delle campagne e l`€™urbanizzazione selvaggia del Paese hanno rotto i tradizionali legami di solidarietà  della famiglia allargata africana. La morte di molti genitori per aids ha reso disperata la condizione degli orfani, producendo il fenomeno dei bambini di strada, evidentissimo a Nairobi.

Il medico

Ho visto l`€™inizio del più grande flagello dell`€™umanità 

Era il 1986 quando il dottor Gianfranco Morino, chirurgo, incontrò l`€™aids in Africa per la prima volta. Ero appena arrivato `€“ racconta `€“. Anna era una nostra brava ostetrica, con due bambini. Uno di cinque anni e un neonato. Dopo un mese dal parto, Anna soffriva di terribili mal di testa. La diagnosi rivelò la condanna: meningite fungina, tipica dei pazienti con aids. Il test risultò positivo. Anna morì in una settimana. Dopo cinque mesi, la seguì il piccolo. Dopo un anno, il marito. Il bambino più grande, l`€™unico non malato, rimasto solo, andò a vivere sulla strada a sei anni.

Nell`€™ospedale missionario dove lavora Morino, il 65 per cento dei pazienti muore di aids. Il 50 per cento degli abitanti delle baraccopoli è sieropositivo. Eppure, nella testimonianza di questo medico, nostro referente per il progetto Kenya, c`€™è più rabbia che rassegnazione: Una generazione di giovani sta scomparendo. Eppure, qui in Kenya si può parlare liberamente di aids solo da un anno! Per noi medici d`€™Africa, l`€™aids è la priorità  assoluta. Dobbiamo combattere con le armi che abbiamo: l`€™informazione, specie dei giovani, e la disponibilità  di servizio verso i poveri.

Che cosa vi sorregge in questa lotta?

Ho visto l`€™inizio e lo svilupparsi di quella che è una delle più terribili epidemie dell`€™umanità . Di fronte ad essa, la solitudine e i rischi fanno paura. Ma una speranza vince su tutto: quella che un giorno la salute non sarà  più un privilegio, ma un diritto fondamentale degli esseri umani.

Il progetto che vogliamo sostenere mira a limitare la trasmissione dell`€™Hiv da madre a figlio. Perché questo tipo di prevenzione è sempre più importante?

In Kenya le donne sieropositive che aspettano un figlio sono circa il 20 per cento. A Nairobi arrivano ad essere anche il 35 per cento. Visto che la trasmissione dell`€™aids da madre a figlio varia dal 20 al 42 per cento, in Kenya almeno 100 mila bambini all`€™anno nascono sieropositivi. Nonostante la gravità  delle cifre, nel Paese non esiste ancora nessun servizio per prevenire la trasmissione materno-fetale. È per questo che abbiamo bisogno di aiuto: vogliamo avviare al più presto un`€™esperienza pilota che serva da esempio a tutto il Paese. Con questo progetto le madri sieropositive di Nairobi potranno presto avere un punto di riferimento e noi riusciremo a salvare circa il 47 per cento dei loro bambini.


alcuni costi minimi

100 aghi sterili = 1.25 Euro

1 ciclo di vitamine = 3 Euro

1 parto cesareo = 11 Euro

Costo totale del progetto 200.000 Euro

 

Angola

Salvo dalla tbc, salvo dall`€™aids

Il nostro progetto

Il progetto della Caritas antoniana si realizzerà  nel Nord dell`€™Angola, precisamente negli ospedali statali dei comuni di Uà­ge (200 mila abitanti) e Negage (100 mila abitanti). Ci troviamo in zona rurale e di guerra. Le comunicazioni sono difficili e i pericoli sempre in agguato. Questo ha due conseguenze:

1. La rete sanitaria è appena all`€™inizio.

2. Il progetto della Caritas antoniana non può essere centrato sull`€™aids perché l`€™assistenza sanitaria è troppo arretrata. Le strutture sanitarie sono fatiscenti, superaffollate, prive di acqua sufficiente e di luce. Anche in questo caso i nostri interlocutori saranno i medici del Cuamm, che in Angola si sono dati una priorità : la lotta contro la tubercolosi polmonare, che sta mietendo molte vittime, pur essendo curabile al 90 per cento. E a costi bassi.

La cura della tubercolosi è essenziale per prevenire l`€™aids. La tbc è un veicolo potente dell`€™Hiv ed è spesso una sua complicazione.

Per questo, il progetto della Caritas antoniana parte dalla cura della tubercolosi per arrivare a prevenire l`€™aids, specie nei bambini. Queste le linee d`€™intervento:

1. Assicurare la cura ai circa 600 bambini ammalati di tubercolosi, assistiti dai due ospedali.

2. Garantire il test Hiv a tutti i malati di tubercolosi, bambini e adulti.

3. Garantire la sicurezza delle trasfusioni, acquistando migliaia di test di controllo. Fino ad oggi, per mancanza di fondi, solo il 26 per cento del sangue trasfuso veniva testato, con un rischio Hiv elevatissimo.

- Il costo previsto per l`€™intero progetto e di

155 mila euro (circa 300 milioni di lire).

Il Paese

L`€™Angola ha due facce. Come molti Paesi, in Africa. Ha due facce in economia: a Luanda, la capitale, le Rolls Royce sfrecciano vicino alle baracche dei rifugiati. Ha due facce in politica: nella capitale regna una calma relativa; nel resto del Paese, ormai da più di quarant`€™anni, infuria una guerra snervante.

All`€™inizio, è stata guerra per l`€™indipendenza dal Portogallo (1961-1975). Poi, conflitto ideologico, sul solco della guerra fredda tra il partito al potere, il Mpla (Movimento popolare per la liberazione) di ispirazione marxista leninista e l`€™Unita, appoggiato dal Sud Africa dell`€™apartheid e dagli Usa. Alla caduta del comunismo, sono cambiati gli equilibri internazionali, ma la guerra tra i due partiti è rimasta. Fino ad oggi. Una guerra sparsa su tutto il territorio, che solo dal 1998 ha provocato 300 mila mutilati (molti a causa delle mine antiuomo), 500 mila morti, 3 milioni di profughi.

La ragione di tanto odio è il controllo del petrolio e dei diamanti. Due risorse che potrebbero fare dell`€™Angola un Kuwait sub-sahariano e, invece, lo rendono una terra di nessuno, nelle mani degli interessi delle multinazionali e dei signori della guerra. Il governo è corrotto. Così come lo è l`€™opposizione. Solo nel 2001 l`€™oligarchia al potere ha estorto 1 miliardo e mezzo di dollari di denaro pubblico al popolo angolano. Un popolo poverissimo, abbandonato a se stesso. La sanità  è privata e concentrata nella capitale. Il 90 per cento dei farmaci si trovano solo a Luanda. E a prezzi da mercato nero. Pochi e fatiscenti gli ospedali pubblici. Infuria la tubercolosi polmonare. L`€™aids non raggiunge i livelli di altri Paesi solo perché le vie di comunicazione sono interrotte dalla guerra. Ma è latente, pericoloso.

Il medico

L`€™Africa non è disperazione

L`€™Africa non è solo dolore e guerra. È cultura, è vita, è persino allegria. S`€™arrabbia, Vincenzo Pisani, nostro referente in Angola, quando i media occidentali riportano acritici l`€™immagine di un`€™Africa senza speranza. Quando sono venuto qui con mia moglie, nel 1979, il mio intento era conoscere, non offrire scienza. In Africa non mi sento né impoverito, né stanco, né fuori posto. Racconta la sua Africa di chiaroscuri. Racconta di Maria, un`€™infermiera che continuava a dimagrire perché stava ospitando nella sua baracca 18 rifugiati e il cibo non bastava. Io non ce l`€™avrei fatta commenta. Racconta di Historia, una bimba di 12 giorni a cui aveva dovuto amputare la gambina, quando, durante un assalto dell`€™Unita, alcuni colpi avevano raggiunto la madre. Eppure, non si perdono. Non sono disperati. È bella quest`€™Africa `€“ dice lui `€“ anche quando lavori fino a notte fonda, quando condividi, quando la gente ti regala fiducia.

Negli ospedali del nostro progetto, i due medici di riferimento sono lui e sua moglie per un bacino di 300 mila abitanti. Solo a Uà­ge avvengono circa 11 parti al giorno: L`€™ultima donna che ho operato veniva da Bungo, un villaggio a 90 chilometri di distanza, a piedi, con una rottura uterina, una delle più gravi complicazioni del parto.

Questi due ospedali riaperti nel 1997 dal Cuamm, quando si sperava che la guerra fosse finita, sono le uniche due oasi sanitarie della zona. Normale che siano superaffollati. Mi mostra una foto del reparto maternità . Ai piedi di un letto di ferro, una donna, stesa su un telo di stoffa, ha appena partorito. L`€™altra, a un palmo da lei, è in pieno travaglio. Strano a dirsi, ma una missione così intensa non ha impedito ai coniugi Pisani di avere cinque figli.

Difficile parlare di aids in queste condizioni di lavoro.

C`€™è la guerra. La gente non sa neppure se camperà  fino a domani, figuriamoci se prende in considerazione una minaccia remota. Qui la malattia più temuta è la tubercolosi, prima causa di mortalità  tra i giovani adulti. Sull`€™aids si sa pochissimo. Ma il virus è in agguato, pronto ad aggredirli non appena la guerra si smorza e le vie di comunicazione si liberano. Potrebbe essere il prossimo flagello perché l`€™Angola confina con Paesi ad alta incidenza della malattia.

Che cosa permetterà  il progetto che vogliamo sostenere?

Avrà  due risultati. Uno, a breve termine: i 600 bambini colpiti da tubercolosi potranno essere curati. Il controllo sulle trasfusioni, praticate all`€™87 per cento proprio sui bambini, eviterà  loro il rischio di contagio da Hiv.

Un altro, a lungo termine: i test Hiv praticati su tutti i malati di tubercolosi potranno farci capire l`€™incidenza della malattia, permettendoci di iniziare programmi di informazione, prevenzione e assistenza dei malati, oggi praticamente inesistenti in Angola.


alcuni costi minimi

1 test TBC = 0.58 Euro

1 ciclo completo di cure per TBC (8 mesi) = 30 Euro

Costo totale del progetto 155.000 Euro

 

Invia il tuo contributo:

- con il bollettino allegato

- con un bonifico sul c/c bancario n. 511110, intestato a

   P.P.F.M.C. Messaggero di sant`€™Antonio Editrice,

   presso Piazzetta Forzatè, 2 - 35137 Padova.

   Cod. ABI 5018 Cod. CAB 12100.

   (nella causale indica Progetti Caritas 2002)

- tramite il sito www.santantonio.org

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017