La carità in nome di Antonio

Creative, attuali, efficaci, le opere di carità sorte nei secoli in nome di sant’Antonio sono oggi un sistema di iniziative che raggiunge i più poveri e i più deboli in Italia e nel Sud del mondo. Un servizio alla persona nello stile della condivisione.
26 Gennaio 2010 | di

Antonio, uomo di carità, difensore dei deboli, dei poveri, degli oppressi ha ispirato nei secoli diverse forme di solidarietà, sorte tra le mura e nei dintorni della Basilica. Ognuna ha saputo intercettare i bisogni del tempo, declinando le risposte in maniera creativa, attuale, efficace. Grazie a questa ricca storia, oggi la solidarietà antoniana è un vero e proprio sistema di iniziative, complementari e sinergiche, che hanno tutte un comune denominatore: la promozione integrale della persona in difficoltà, in uno spirito di condivisione.


L’Opera del Pane dei poveri



Caritas Antoniana

Oltre i confini della Basilica e dell’Italia lavora invece un’altra istituzione di solidarietà, la più grande creata dai frati. Si tratta della Caritas Antoniana. Nata nel 1976 proprio da un allargamento del raggio d’azione del Pane dei poveri, essa è l’espressione della volontà dei frati di raggiungere i popoli più poveri e abbandonati della terra, di essere là dove non c’è speranza e dove non arrivano altre istituzioni di solidarietà. I veicoli di questa solidarietà sono i missionari, i sostenitori sono soprattutto gli abbonati al «Messaggero di sant’Antonio». Oggi la Caritas Antoniana è presente in 35 Paesi del mondo con più di 140 progetti, in maggioranza micro realizzazioni là dove mancano i servizi di base, fondamentali per iniziare un processo di sviluppo: un pozzo d’acqua, una piccola scuola, un dispensario. «Nostro obiettivo – spiega padre Valentino Maragno, direttore di Caritas Antoniana – è eliminare le cause di povertà mettendoci in rete con le risorse già esistenti sul territorio: i beneficiari, le associazioni, le chiese locali, le istituzioni, i servizi, le università. Ogni progetto è ponderato e condiviso, rispettando la cultura locale e il grado di sviluppo raggiunto». Fondamentale è individuare le situazioni più difficili e, all’interno di queste, gli strati di popolazione più in difficoltà. «I nostri beneficiari sono soprattutto bambini, adolescenti e donne, la parte più debole ma anche quella che, se messa nelle condizioni, può cambiare le sorti di una comunità». Le zone selezionate sono soprattutto l’Africa sub-sahariana, territorio con la più alta concentrazione di miseria al mondo, e l’Asia delle campagne. Le principali aree di progetto sono scuola, salute, formazione umana e professionale, casa, microcredito, avviamento di piccole imprese familiari. «Per il futuro miriamo soprattutto ad affinare il rapporto costo-beneficio dei nostri progetti e per far questo stiamo costruendo una rete di referenti locali nei Paesi dove siamo più presenti. Al centro del nostro lavoro, c’è la spinta ideale che ci viene da Antonio, difensore degli oppressi, e che si traduce nella volontà di promuovere il benessere integrale di ogni persona, di restituirle la dignità e la capacità di essere artefice del proprio futuro». La stessa spinta ideale che ispira altre due realtà significative del mondo antoniano: il Villaggio sant’Antonio di Noventa Padovana (PD) e la Comunità San Francesco di Monselice (PD), due modelli all’avanguardia di accoglienza e condivisione della sofferenza.


Il Villaggio sant’Antonio

Il Villaggio sant’Antonio è istituito nell’immediato dopoguerra, nel 1952, per accogliere gli orfani. Da subito diventa un punto di riferimento nel territorio, una grande famiglia per i minori in difficoltà. Un ruolo di guida e di formazione che il Villaggio conserva ancora oggi, anche se, fortunatamente, gli orfani non ci sono più e alle cure del Villaggio sono affidati bambini e ragazzi con famiglie in difficoltà e persone con disabilità. «Qui usiamo dire che il Villaggio è un corpo solo che respira a due polmoni, l’area minori e l’area disabili» afferma fra Giancarlo Capitanio, direttore della struttura. Ogni area è un mondo articolato in più realtà, organizzato e seguito da circa ottanta operatori con diverse specializzazioni e ruoli. Centri diurni, comunità alloggio, progetti di affido familiare e, ancora, una cooperativa sociale per l’inserimento lavorativo, attività gestite in convenzione o collaborazione con enti pubblici e del privato sociale. Una quarantina i ragazzi seguiti direttamente, circa novanta le persone disabili. «L’idea che ci guida – spiega fra Giancarlo – è che chiunque bussi alla nostra porta deve trovare accoglienza. Tra le nostre nuove frontiere ci sono i minori immigrati non accompagnati, che vengono qui con la speranza di risollevare le sorti proprie e della famiglia d’origine e si trovano a vivere in grandi difficoltà. Cerchiamo di aiutarli a inserirsi nel mondo del lavoro e di spiegare loro il nostro contesto. Lo stile è quello della condivisione con la spinta continua a migliorare le nostre risposte».


Comunità San Francesco

Condivisione è la parola chiave della Comunità San Francesco, nata nel 1980: una casa in cui giovani frati accolgono ragazzi in difficoltà, con problemi di uso di sostanze. L’iniziativa, nata spontaneamente senza un preciso obiettivo, presto definisce la sua vocazione e si organizza come comunità terapeutica per tossicodipendenti e alcolisti. In trent’anni di vita la comunità si attrezza con i programmi di recupero più all’avanguardia e, nel tempo, traccia la sua peculiarità, diventando un modello: «I frati – racconta padre Luciano Massarotto, direttore della comunità – condividono con le persone residenti ogni istante della giornata, week-end e feste comandate incluse, levatacce notturne e imprevisti di ogni tipo: dalle crisi personali alla partoriente con le doglie. In condivisione anche lo stile di vita, sobrio e senza uso di sostanze: né droghe, né alcol, né farmaci psicotropi. Al centro del nostro modello terapeutico c’è la famiglia, che per noi è l’unica vera comunità terapeutica a cui cerchiamo di dare i mezzi per compiere questa importante funzione. Per questo ci avvaliamo della professionalità di persone competenti. Psicologi, psicoterapeuti, personale con varie specialità: più di trenta operatori». Diverse le attività. Accanto ai programmi più generici per tossicodipendenti e alcolisti ci sono programmi più specifici per madri con bambini, accolti anch’essi in comunità, e per minori e adolescenti. C’è poi un programma più trasversale per il reinserimento socio-lavorativo, una cooperativa di quarantaquattro soci che ha due settori: il florovivaistico e l’ecologico. «La coltivazione di fiori è riservata soprattutto alle madri, le più svantaggiate, a cui diamo la possibilità di un tempo pieno molto flessibile che faccia i conti con le esigenze dei bambini e permetta un guadagno congruo». Molto si è fatto e molto resta da fare, anche perché il panorama delle droghe e di chi ne fa uso è completamente cambiato negli anni: «Non ci sono ancora strategie convincenti per dare risposte a chi ha una dipendenza da cocaina, mentre si è abbassata drasticamente l’età di chi fa uso di sostanze. Oggi la droga o l’alcol sono più accettati, sono quasi uno stile di vita e questo complica tutto. La nostra nuova frontiera sono proprio i più giovani e nel gruppo adolescenti che seguiamo stiamo sperimentando nuovi approcci».

La vera carità si aggiorna, è generosa e creativa, è professionale e coraggiosa, condivide e non s’impone, sprigiona energie e costruisce futuro, ha in mente un essere umano integrale capace di sogni e libertà. È sant’Antonio, è san Francesco che si affacciano in questo millennio, lo sguardo nel presente e intorno il sentore di valori antichi.
 


«La Repubblica del Congo è piena d’acqua ma non ce n’è un litro di potabile, la gente beve nei fiumi là dove lava i panni, si fa il bagno o abbevera gli animali. È una terribile normalità, una drammatica ripetizione di situazioni limite, finché il cerchio non si spezza e si comincia ad aiutarli» – racconta padre Paolo Floretta, vicedirettore generale dell’opera «Messaggero di sant’Antonio», tornato da pochi giorni dal Congo. Vi si è recato con padre Danilo Salezze, direttore generale, per mettere a punto, insieme alla diocesi di Nkayi, il progetto 13 giugno della Caritas Antoniana, che sarà proposto ai lettori per la prossima Festa del Santo.

Il Paese, uscito da pochi anni dall’ennesima guerra civile, è tra i più poveri del mondo. Il 70 per cento degli abitanti vive con meno di un dollaro al giorno, la scolarità è precipitata dal 100 per cento degli anni ‘80 al 48 per cento di oggi, la vita media supera di poco i 50 anni.
Uno dei problemi più rilevanti è l’acqua: solo il 27 per cento della popolazione che vive nelle aree rurali ha accesso all’acqua potabile mentre moltissimi bambini muoiono per malaria e diarree.

Ed è proprio in territorio rurale che verrà realizzato il prossimo progetto: 80 pozzi in zone strategiche, individuate dalla diocesi di Nkayi, in una zona grande quasi quanto Veneto, Piemonte e Lombardia messi insieme. «Non costruiremo soltanto i pozzi – spiega padre Floretta –, formeremo gli abitanti alla manutenzione e alla gestione dell’acqua. Appronteremo poi un sistema molto semplice per la produzione locale di sostanze per rendere potabile l’acqua e accessibili i pozzi già esistenti».

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017