La via delle piccole cose
Sembra ieri e invece sono passati quasi vent’anni. La prima volta che Lucia bussò alla Caritas Antoniana era il 1994. Tornava dalla Repubblica Democratica del Congo, che allora si chiamava Zaire, dai campi profughi rwandesi, all’indomani di uno dei più tremendi genocidi del XX secolo. Un massacro pianificato e capillare, attuato tra conoscenti e vicini di casa soprattutto con i machete – gli strumenti da taglio più usati nelle campagne –, avvenuto in Rwanda dal 6 aprile a metà luglio di quell’anno. Circa un milione di vittime in appena cento giorni e un numero enorme di profughi e bambini abbandonati.
Lucia, infermiera di professione nell’Ospedale pediatrico di Padova, prestava servizio in un campo riservato ai bambini, e aveva nel cuore lo strazio dei loro occhi e la disperazione dei loro abbracci pieni di paura. Magra, alta, il viso tirato, due occhi grandi sotto i capelli cortissimi: sembrava strano che una persona all’apparenza così delicata potesse venire da quell’inferno. E strano doveva sembrare anche a lei, dopo aver visto il baratro, essere a casa, ritrovarsi al sicuro qui, dove ogni cosa è data per scontata. «Il campo chiuderà in pochi giorni – spiegò –, sono finiti i finanziamenti. Se non trovo aiuti, questi piccoli che fine faranno?».
Era assurdo ma era così, la solidarietà organizzata se ne andava, lasciava tacitamente l’unica possibilità in mano a un’infermiera in missione, una madre quasi per caso di decine di piccoli traumatizzati e soli. E Caritas Antoniana accettò da allora di essere al suo fianco.
Lucia oggi è il referente della nostra opera di solidarietà in quello spicchio d’Africa. In vent’anni abbiamo realizzato insieme a lei e ad altri partner oltre quaranta microprogetti di straordinaria efficacia in zone in cui gli aiuti umanitari faticano ad arrivare: Rwanda, Camerun, Repubblica Democratica del Congo. L’abbiamo chiamata a testimoniare, perché è giusto far sapere cosa c’è dietro i nostri progetti, ma si vede benissimo che avrebbe voluto farne a meno. «Davvero sono più di quaranta progetti? – esordisce con disarmante candore –. Non ci avevo mai pensato, sono stupita anch’io».
Msa. Lucia perché lo fai?
Lucia. Ce l’ho dentro. Non è un caso che abbia scelto di fare l’infermiera. In tanti anni di lavoro in ospedale mi sembrava di far parte di una grande famiglia. Io condividevo la mia passione per l’Africa anche con i genitori dei bambini malati e quando uno dei piccoli ci lasciava trovavamo conforto nell’occuparci di altri bambini in difficoltà. Ancor oggi ho relazioni con molti di questi genitori che continuano ad aiutarmi anche dopo tanti anni.
In Occidente perdura il pregiudizio che l’Africa sia incapace di riprendere in mano il proprio destino. Tu che cosa ne pensi?
Molti di questi Paesi sono in guerra, una condizione in cui è difficile guardare al futuro. Ma anche senza questo caso limite le condizioni di vita sono esasperanti: malattie banalissime uccidono, manca l’acqua potabile, non ci sono strade e mezzi di trasporto e si cammina per ore sotto il sole cocente, si lavora la terra ancora con la zappa; basta un capriccio del tempo per condannare la famiglia alla fame. L’ultima volta che sono andata in Rwanda era in corso una siccità: il raccolto era perso, le famiglie non mangiavano da giorni, i piccoli avevano smarrito la vivacità che li contraddistingue, non c’era nessun fuoco acceso e nessuna pentola a bollire, i papà tornavano dalla giornata a mani vuote: un altro lungo giorno di fame. Un’attesa insopportabile.
Come si può cambiare una situazione cosi?
Intanto devi conoscerla profondamente. Devi cogliere la fatica, il sacrificio, la capacità di vivere di niente. Ricordo un bambino accolto da una famiglia: per dare il suo contributo, costruiva mattoni di terra con un calco di cartone. Ogni mattone costava 12 franchi, mentre un fiammifero al mercato ne valeva 20. Una fatica più grande di lui solo per guadagnarsi un fuoco alla sera. Sono situazioni che superano ogni immaginazione. Ecco, se vuoi cambiare la realtà devi partire da quel mattone.
Che progetti nascono da «quel mattone»?
Progetti piccoli, a volte piccolissimi, ma che aprono prospettive di futuro incredibili. Per esempio, grazie al microcredito siamo riusciti ad avviare piccole economie locali. Ragazzini di 13, 14 anni con un prestito di 19 euro hanno comprato 20 chili di arachidi, le hanno abbrustolite, divise in piccole razioni e vendute ai viandanti al mercato. Dopo sei mesi hanno restituito 20 euro, un euro in più che, moltiplicato per tutti i prestiti, allarga la platea di persone che possono accedere al microcredito, ma soprattutto sono riusciti a comprare trenta chili di merce e a crearsi una prospettiva di lavoro. Hanno fatto i conti che tra due anni riusciranno ad affittarsi un mototaxi e a mantenere la loro famiglia. Un progetto analogo è stato fatto con le donne sieropositive. Con il microcredito si sono costituite in piccole cooperative, creando tante attività che oggi danno lavoro anche ai sani: vanno nella foresta, dove comprano alimenti a poco prezzo e li rivendono al mercato con un piccolo guadagno, dando alle persone la capacità di acquistare cibo altrimenti introvabile; si offrono di coltivare i campi degli altri in cambio di parte del raccolto; hanno acquistato una macchina da cucire e oggi offrono un servizio di sartoria al mercato; hanno creato micro negozi con i prodotti basilari per la sopravvivenza, dallo zucchero ai fiammiferi; hanno comprato qualche animale, una capra, una pecora, dei conigli, dai quali ricavano latte e carne per la famiglia e per la comunità. Da problema sono diventate risorsa, tanto da essere state pubblicamente elogiate dal sindaco della città.
Molti di questi progetti sono a favore delle donne, perché?
Perché le donne sono il perno dell’Africa. Curano i bambini, cercano il cibo, allevano gli animali, mangiano quel che resta dopo aver servito il marito. Le vedi chine sui campi, con un bambino sulla schiena e un altro davanti, magari in gravidanza, sotto un sole cocente. Si consumano per la sopravvivenza degli altri.
Come si arriva a realizzare questi progetti?
Metto in contatto le associazioni locali, come per esempio Caritas Rwanda, con le associazioni di cui faccio parte, Caritas Antoniana e le padovane Mondo Giusto e Jardín de los niños. Lavoriamo in rete così da poter affrontare insieme anche i progetti più onerosi e difficili. In questo modo i progetti vengono proposti e sostenuti dalle realtà locali, che s’impegnano a mantenerli. Uno dei nostri progetti di microcredito è partito tre anni fa grazie ai fondi di Caritas Antoniana e oggi cammina con le proprie gambe tanto che dei suoi frutti hanno già beneficiato, a cascata, 10 mila persone. Credo che in questi vent’anni siano milioni le persone raggiunte dalla nostra solidarietà, proprio grazie a questo effetto moltiplicatore, tipico delle realizzazioni volute dalla gente.
Che cos’è per te Caritas Antoniana?
Rispondo con le parole che ha usato la direttrice di un orfanotrofio in Rwanda: «I miei 500 bambini non avevano più latte e alle loro grida di fame non potevamo rispondere: “Aspettate fino a domani”. Caritas Antoniana ha dato quel latte, per questo per noi è come una madre».