L’albero che non c’è
Non è un pero, né un melo, quello piantato a Monticelli Pavese, un paesino di 700 anime nella campagna ai confini tra Emilia-Romagna e Lombardia. È un innesto strano, è «L’albero della macedonia»: un inedito botanico per tradurre un’esperienza umana che non c’era prima, con le radici nella vita di quattro famiglie, due italiane e due immigrate, e i frutti, di varie fogge e sapori, esposti al sole, alla vista di chi vuol vedere.
L’albero della macedonia nasce nel 2009, quando la cooperativa sociale Comin, ente molto attivo e conosciuto a Milano, che si occupa in modo particolare di affido, cerca e trova una soluzione innovativa per i minori stranieri in difficoltà: «Sono bambini e ragazzi – spiega Roberto Orlandi, promotore di Comin – che presentano problematiche particolari, legate anche all’immigrazione e alle differenze culturali: cercare dunque famiglie affidatarie capaci di accogliere anche questi aspetti diventava sempre più importante».
Ed ecco l’idea: far convivere famiglie italiane e straniere che, pur nelle loro differenze, avessero un grande collante in comune, il desiderio e la disponibilità di dare un futuro ai figli di altri, come se fossero i propri; l’affido, appunto.
L’opportunità si concretizza: c’è a disposizione, in comodato d’uso per trent’anni, una cascina in rovina, nel paese di Monticelli Pavese, a un’ora di treno da Milano. Certo occorrono 600 mila euro per ristrutturarla: ma non sarà questo a fermarli.
Missione possibile
Un’opportunità che però complica la sfida, o meglio, come afferma qualcuno, la rende più interessante, perché alle famiglie in questione si chiede non solo di essere aperte all’affido, capaci di convivere nella diversità di religione e cultura, ma anche di lasciare città, amici e parenti per un piccolo borgo sperduto nella campagna pavese.
Come si troveranno? E che dirà la gente, nel vedere questi strani milanesi, «ben assortiti», presi d’improvviso da una febbre bucolica? E, poi, difficile barattare la frenesia meneghina, l’accesso facile ai servizi e alle opportunità, con il ritmo lento delle stagioni, i mezzi pubblici lontani, lo svago ridotto al campetto del patronato.
La prima a rispondere all’appello è Fatima Addahbi, una giovane musulmana osservante con tanto di velo, tre figli e un marito, Mustafà Hanich, con la barba degna dello stereotipo del fondamentalista. Fatima, invece, sorprende, è un’esplosione di energia, di apertura, di passione per la vita e per gli altri: «Sono partita dal Marocco che ero una donna di 22 anni e sono arrivata in Italia che ero una bambina di 22 anni. L’emigrazione ti scuote, ti rivoluziona, ti cambia. Ho avuto bisogno degli altri e ho trovato chi mi ha accolto. Ma in me qualcosa era sospeso, in bilico. Poi un giorno, in consolato ho letto un cartello in cui un bimbo chiedeva aiuto: era una campagna di Comin per l’affido di bambini stranieri, che aveva un titolo per me significativo, “A casa di Amina”. Amina proprio come mia figlia.
Ho sentito d’impulso che era ciò che stavo cercando, la mia tessera mancante. Ho pensato: me li porterei tutti a casa quei bambini “sospesi”». Al rientro il marito barbuto guarda la moglie e capisce: «Accetto – le dice –. Ti faccio un regalo, farò la spola da Milano per il mio lavoro ma non coinvolgermi, non sono portato. Lo sai, sono riservato e nervoso, forse non sono il padre modello». Fatima sorride oggi di quelle parole: «Nessuno come lui sa star dietro ai nostri nuovi figli, ha pazienza, amore e autorevolezza».
Anche Beppe Casolo è un uomo barbuto, tre figli anche lui, ma è milanese doc ed è pure cattolico osservante: «Io e Margherita (Valentini), mia moglie – racconta –, accarezzavamo da tempo l’idea di andare a vivere in campagna. Quei sogni di liberazione, che non sai se riuscirai mai a realizzare. Nel frattempo stavamo frequentando Comin, per un corso sull’affido; è lì che abbiamo saputo del progetto. Era l’occasione per far diventare il sogno realtà». Aderire si rivela una scelta difficile in famiglia: la figlia venticinquenne, ormai laureata e pronta a partire per un dottorato all’estero, accetta ma non vuole troppi coinvolgimenti. Il figlio dodicenne, ormai abituato a muoversi in autonomia, non sa sinceramente se si abituerà al papà che lo deve accompagnare in macchina ovunque e agli amici lontani. L’unica davvero contenta è l’ultimogenita, di 7 anni, «a lei piace questa confusione comunitaria, il fatto che ci siano sempre bambini con cui giocare».
Circa un anno dopo altre due famiglie raccolgono la sfida: i marocchini Saliha Chrifi e Bekai Arbit e i monzesi Marianna Iraci Sareri e Virgilio Miglietta, rispettivamente tre e due figli, mentre arrivano progressivamente sei bambini in affido.
Intercultura prêt-à-porter
Le famiglie vivono in quattro appartamenti distinti, ma hanno spazi in comune, tra cui un ampio soggiorno-cucina per i pasti insieme e per gli incontri. In un angolo, un leggio con una copia del Corano e della Bibbia. Identità e differenze, i propri figli e i figli degli altri, islam e cristianesimo: come sarà il loro modo di fare intercultura, fuori dalle trite teorie degli addetti ai lavori? «La nostra intercultura si nutre delle piccole cose – spiega Beppe –. Prima di essere cristiani e musulmani, siamo uomini e donne che stanno percorrendo un cammino di apertura agli altri e lo stiamo costruendo giorno per giorno. Concretamente. Il nostro luogo di elezione è la tavola; attraverso i gesti, i sapori e le tradizioni conosciamo molto gli uni degli altri. Le differenze ci sono, ma le rispettiamo. E così, per esempio, quando vado a fare la spesa per Fatima leggo l’etichetta per controllare che nel prodotto non ci siano strutto o alcol, contrari alla sua religione. Insomma, con un po’ di buona volontà tutto è superabile».
Sono tanti i valori trasversali alle culture: «Così tanti che a volte ci stupiamo delle uguaglianze – commenta Fatima –. “Ama il prossimo tuo come te stesso”, seppure con parole diverse, c’è anche nel Corano». Ma le differenze non sono poca cosa, sono anche identità, motivo di fatica, ricerca di assonanze. Spiega Fatima: «Prima di questa esperienza ero convinta che tutti – credenti, atei, cristiani, musulmani – fossimo uguali. Oggi credo che sia buono e giusto sapere chi sei, accettare serenamente la tua diversità: da questo centro di gravità puoi guardare al mondo, senza paura e senza limiti. Anche la religione è importante: da come agisci, io capisco in cosa credi. E se tu credi in Dio, io penso che è il mio stesso Dio, che tu preghi in modo diverso». La diversità non riguarda solo chi è straniero, ci coinvolge tutti. Ne è convinto Beppe: «A volte trovo più difficile mettermi d’accordo con Virgilio perché diamo per scontato che siamo simili, piuttosto che con Mustafa, col quale accettiamo a priori di essere diversi. La stessa difficoltà c’è tra le famiglie marocchine. Il che significa che la diversità crea vera tolleranza».
Oltre le differenze, ciò che più li accomuna è l’educazione dei figli, cardine del progetto L’albero della macedonia: «È l’argomento principale delle nostre discussioni – spiega Beppe –, il collante della nostra vita insieme. In questo siamo seguiti anche dagli operatori di Comin che ci aiutano ad approfondire alcuni bisogni dei nostri figli. La presenza di tanti bambini e di problematiche tanto diverse ci obbliga a trovare una linea comune». Una fatica che produce frutti importanti: «La nostra esperienza è così complessa – continua Beppe – che è confortante poterla condividere con altre famiglie che hanno fatto la stessa scelta. Siamo come un grande gruppo di automutuoaiuto. Senza l’appoggio delle famiglie marocchine, per esempio, avrei più difficoltà a rapportarmi nel modo giusto con il figlio in affido, il cui padre è originario del Magreb. C’è poi un risvolto personale: io so di poter lasciare serenamente i miei figli con chiunque di loro, perché il mio modo di educarli non verrebbe messo in discussione. È una libertà che a Milano nessuno di noi aveva».
Frutti familiari che si trasformano in frutti comunitari, come una pianta che produce seme: «Noi vogliamo essere una risorsa per il territorio – afferma Fatima –, rompere lo stereotipo dell’immigrato fonte di problemi e di richieste, proporre un altro modo di concepire la cittadinanza e l’integrazione». Il primo seme cade nella scuola locale, e la nidiata di bambini dell’Albero della macedonia salva le classi elementari, ormai a corto di alunni. Gli altri semi germinano uno dopo l’altro: Fatima diventa mediatrice linguistica e culturale quando ce n’è bisogno; le famiglie immigrate di Monticelli Pavese trovano un punto di riferimento, un posto in cui portare a giocare i figli; il sindaco chiama in soccorso l’allegra macedonia per le iniziative del paese e i suoi abitanti partecipano incuriositi alle feste della comunità, portando in dono vestiti e giochi per i bambini. Perché all’ombra di questo strano albero un ricco caffè o un buon tè marocchino non si nega a nessuno.
Zoom
Il fratellone
Mohammad ha 18 anni, «quasi 19» precisa, è figlio di Saliha e Bekai, marocchini di origine. Dalla scorsa estate è uno dei frutti dell’Albero della macedonia.
Un milanese figlio di immigrati, che abbandona la sua città per un esercito di fratellini. Perché hai accettato?
Perché è un’esperienza che mi arricchisce ed è nello stesso tempo anche una grande responsabilità. Mi permette di aiutare gli altri ma anche di scoprire me stesso. Ho in me delle risorse che non pensavo di avere.
Quanto ti è costato?
Ho perso gli incontri serali con gli amici, il caos di Milano, la mia squadra di calcio. Per andare a scuola devo alzarmi alle 5.30, prendere due treni e due metrò, e al ritorno andare fino a San Colombano per l’allenamento. Ceno alle 22 e poi a letto. Una gran fatica! All’inizio gli amici mi prendevano per matto, oggi mi dicono che sono coraggioso.
Chi sei per i tuoi fratelli?
Io sono il fratellone sportivo, quello che è sempre a calcio. Cerco di insegnare loro che lo sport è innanzitutto divertimento, ma è anche un allenamento che ti serve ad affrontare la vita.