L’ALTRA FACCIA DELLA PILLOLA
In principio fu il Prozac, la pillola della felicità , la panacea per i depressi dei cinque continenti: un boom di vendite, un mercato che a distanza di un decennio ancora vale 6 miliardi di dollari l'anno. L'altro boom, più recente, è la fata turchina degli impotenti, il mitico Viagra, capace di estinguere l'incubo amatorio di milioni di uomini. Nel 1998 le azioni della Pfizer, la casa farmaceutica che l'ha realizzato, sono salite alle stelle, mentre il fatturato del prodotto per il 1999 è stimato a 2 miliardi di dollari, e a 11 per il 2001.
I successi strabilianti hanno esaltato le case farmaceutiche che oggi strizzano il fior fiore delle loro intelligenze per scovare la pillola del momento. E siamo all'attuale emorragia: c'è la pillola per il timido, la pillola per il pauroso, la pillola per l'aggressivo, quella per l'obeso, per il calvo e per il diabetico ma anche quella per l'influenzato che ha fretta e per il fumatore pentito.
Non tutte le esagerazioni vengono per nuocere. Anche se la spinta che anima i colossi farmaceutici internazionali non è propriamente umanitaria, i lauti compensi hanno dato impulso alla ricerca tanto che oggi l'umanità che si avvia al terzo millennio, sempre più anziana e sempre più longeva, potrà presto contare su farmaci rivoluzionari: dalla prevenzione dell'Alzheimer, alla cura del cancro, da un nuovo antidolorifico, che non attacca le mucose gastriche, al farmaco contro l'obesità .
Successi della medicina a parte, ciò che stupisce non è tanto il numero dei nuovi farmaci quanto quell'aurea di miracoloso che accompagna il loro lancio, anche quando si tratta di principi attivi già conosciuti da anni. Cosa nasconde questo voler risolvere ogni problema fisico e psicologico con l'uso dei farmaci?
«L'uomo di oggi - spiega il sociologo Italo De Sandre - tende a rifuggire la sofferenza e la morte e a cercare fuori da sé sia gli stimoli per essere euforici e contenti che quelli per ridurre al minimo il proprio dolore». Una tesi molto simile è espressa dal farmacologo e neuropsichiatra Fabrizio Schifano, il quale vede un punto di contatto tra l'abuso di pillole per ogni problema e l'uso di nuove droghe come l'ecstasy: «Spesso ci si droga per essere più sciolti, più euforici, più in grado di affrontare alcune difficoltà . Allo stesso modo, l'uso smodato dei farmaci, in assenza di patologie definite, nasconde una tendenza a migliorare una performance, per cui 'non prendo il Viagra per l'impotenza, quanto per migliorare le mie prestazioni sessuali'. Una tendenza che io chiamo 'cosmesi farmacologica'».
L'ansia da prestazione è tipica della società contemporanea: non c'è tempo e non c'è spazio per chi ha delle debolezze, per chi resta indietro. Una spia di fragilità rilevante, tipica dell'uomo moderno che ha perso i valori, i tempi, i modi di vivere della cultura tradizionale e deve fare quotidianamente i conti con una realtà fluida, complessa, veloce in cui fatica a trovare il suo posto.
«L'uomo di ieri 'afferma padre Lorenzetti, teologo moralista - era forte nella volontà , nella sopportazione delle difficoltà e dei pesi della vita, mentre la scienza era scarsa o quasi nulla. Oggi si verifica l'inverso: la scienza e la tecnica sono molto sviluppate, offrono enormi possibilità all'uomo che invece di rafforzarsi maggiormente è diventato debole; in un certo senso la sua volontà si è 'deresponsabilizzata'».
Alla cultura della deresponsabilizzazione si rifà anche Marcello Lattanzi, psichiatra del servizio territoriale di Venezia per il centro storico: «Analizzare e cercare di risolvere i problemi in tutta la loro complessità richiede energie, tempo e costi notevoli. Meglio, dunque, rinchiudere i problemi in ambiti ristretti per trovare soluzioni più facili e veloci. Succede con i nuovi farmaci oggi, così come successe all'inizio degli anni '80 con la cura delle malattie psichiche: aiutare la reintegrazione sociale della persona malata era lungo e dispendioso, il farmaco risultava essere la via più semplice e più economica».
Il rischio più grave che si corre oggi è quello di confondere la patologia con la fisiologia, cioè ciò che è malattia con ciò che deve essere considerato uno stato di normale malessere, perché su questo si dovrebbe basare la necessità di assumere un farmaco o quella di ricorrere alle risorse personali dell'individuo. Già Freud ha chiarito che malattia e normalità non sono due stati distinti, nell'una troviamo tracce dell'altra e viceversa. Una possibile distinzione è delineata da Schifano quando riferisce sulla pillola della timidezza: «Dare una pillola per combattere la timidezza può sembrare assurdo, se per timidezza intendiamo un tratto del carattere della persona. In realtà , la paroxetina, il principio attivo di questa pillola, ha grande efficacia sulla timidezza patologica, meglio conosciuta come 'fobia sociale', il disturbo che impedisce a un malato di bere una tazza di caffè in presenza di qualcuno, di mangiare al ristorante o di entrare in banca a richiedere un libretto di assegni. Insomma, la patologia inficia in modo pesantissimo le relazioni sociali dell'individuo».
Oggi l'informazione dei media su questi temi aiuta le persone a rivolgersi sempre più spesso agli specialisti. Molti però assumono farmaci sotto consiglio di amici e parenti, senza alcun controllo medico. Un ruolo rilevante nell'abuso dei farmaci può averlo anche il medico di famiglia. «I medici di base - afferma Lattanzi - non hanno spesso tempo di ascoltare il paziente, lo conoscono quindi molto meno di un tempo. Aumenta così il rischio di prescrizioni affrettate, che in molti soggetti portano alla dipendenza e all'assunzione cronica di certi farmaci».
Ma fino a che punto un farmaco può risolvere un problema complesso? Com'è facile immaginare, ci sono almeno due grandi scuole di pensiero: gli irriducibili del farmaco e i farmaco-scettici. «In materia sono un uomo di parte - ammette Schifano - i farmaci mi piacciono, li uso e credo nella loro efficacia. In certe patologie, come la depressione grave, sono gli unici a dare sollievo al paziente e soddisfazione al medico. Credo nei farmaci perché credo che i fattori biologici, biochimici e genetici abbiano un ruolo predominante nella vita di un individuo, e dunque anche nella malattia. Faccio un esempio: è ormai un'evidenza scientifica che nelle persone depresse si riscontri sempre un abbassamento della serotonina (neurotrasmettitore che ha il compito di riequilibrare l'umore). Ora possiamo discutere all'infinito se questo calo sia la causa o la conseguenza del problema, il fatto è che il farmaco ottiene notevoli miglioramenti. Mi pare che questa sia la cosa importante».
Dell'opinione opposta è Aldo Carotenuto, psicanalista. A suo parere ogni disturbo va inteso come un campanello d'allarme di una ferita che sta altrove e che altrove bisogna curare. «Sarebbe sciocco - scrive su «La Stampa» - nonché poco salutare, suggerire a un paziente che soffre di dolori addominali: 'Prenda un antidolorifico!'. Bisogna, piuttosto, indagare sull'origine del disturbo. Perché allora a un paziente che accusa sintomi di depressione dovremmo rispondere: 'Prenda il Prozac!', o a un altro che lamenta un'incapacità a interagire con il proprio simile dovremmo suggerire la pillola contro la timidezza»?
C'è però un terzo «partito», le cui fila si stanno ingrossando. Di questa fazione si fa portavoce il professor Aureliano Pacciolla, psicoterapeuta e docente di psicologia della personalità alla Lumsa (Libera università Maria Assunta) di Roma, il quale individua tre livelli di utilizzazione del farmaco: nel primo, quando il dolore fisico è dovuto a lesioni organiche, il farmaco è consigliato, perché non c'è motivo di soffrire inutilmente. Nel secondo, quello del dolore psicologico, il farmaco è utile solo se accompagnato da una psicoterapia. C'è, poi, un terzo livello, che Pacciolla chiama «noetico» (cioè conoscitivo), che si crea quando la sofferenza non è né fisica, né psichica, ma «morale», cioè il risultato di un conflitto interiore dell'individuo; per esempio, un senso di colpa legato a un episodio specifico: in questo caso il farmaco è del tutto inutile, smorza il sintomo, ma non risolve il problema.
A qualsiasi partito apparteniamo, viene spontaneo domandarsi: quali sono i rischi che corre una società che tende ad anestetizzare tutte le situazioni dolorose come la paura, la rabbia, la tristezza, l'ansia e che comunque sono parte integrante dell'esperienza umana?
«Il rischio - conclude Pacciolla - è l'incapacità di affrontare il dolore. Il farmaco dà l'illusione di economizzare le energie, perché in poco tempo risolve il problema e l'individuo non soffre. Non vale mai la pena di soffrire, il dolore va sempre combattuto, tranne però quando esso è funzionale alla crescita dell'individuo. Ogni processo di crescita comporta dolore e sacrificio e questo dolore dobbiamo imparare ad accettarlo. La pillola, in questo caso, ci impedirebbe di pensare a come affrontare il dolore con le nostre risorse».
(Contributi di Claudio Zerbetto)