L’anno della donna

Un sogno planetario: donne e bambine, i soggetti più deboli ed emarginati di molte società, possono diventare la chiave di volta di uno sviluppo dal volto umano.
02 Giugno 2000 | di

Il più povero ed emarginato popolo della terra non vive in un solo Paese né parla la stessa lingua. Attraversa dolente tutte le latitudini e tutte le culture. Ha alle spalle secoli di silenzio, di abbandono e di omertà . È il popolo delle donne e delle bambine. Cifre delle Nazioni Unite tracciano un quadro impietoso: il 70 per cento dei poveri e i due terzi degli analfabeti nel mondo sono donne. Ma ci sono altre cifre che fanno pensare al genocidio: secondo l'economista indiano Amartya Sen, premio Nobel per l'Economia 1998, sarebbero circa 100 milioni, cioè quasi il corrispondente di due Italie, le donne «mancanti» in India e in Africa, donne, cioè, che statisticamente ci dovrebbero essere ma nessuno sa dove siano, con ogni probabilità  morte prematuramente o addirittura mai nate per il solo fatto di appartenere al sesso femminile. Sì, perché in vaste regioni del mondo nascere donna è una condanna. In India, su un campione di 8 mila aborti registrati, 7999 riguardavano feti femmina.
Un dato scandaloso che da solo testimonia la tragica verità  sulla condizione femminile nel mondo. Condizione che ha in sé un'incredibile contraddizione: da un lato le donne non hanno accesso alle minime risorse, dall'altro sulle donne grava la maggior parte del peso economico del funzionamento delle società . Secondo stime delle Nazioni Unite, 828 milioni di donne svolgono nel mondo i due terzi del lavoro, ricevendo in cambio 1 decimo del reddito mondiale e possedendo solo 1 centesimo dei beni disponibili.
Un'ingiustizia planetaria che è insieme un problema di coscienza e una sfida per lo sviluppo umano: sulle spalle delle donne gravano il sostentamento e la cura dei figli, dei malati e degli anziani. Una donna senza mezzi, senza lavoro qualificato e senza educazione non avrà  potenzialità  e conoscenze sufficienti per educare i suoi figli, prevenire le malattie, ottenere un lavoro adeguatamente remunerato e dare valore alla scuola. Atteggiamenti che perpetuano non solo l'assurda discriminazione delle donne, ma il sottosviluppo di intere popolazioni in vaste zone del mondo.
Negli anni questa consapevolezza ha portato la Caritas antoniana a prediligere i progetti a favore dell'infanzia e delle donne. I progetti di quest'anno verranno realizzati in tre Paesi in cui la donna è particolarmente discriminata. Tre piccoli contributi a cui possiamo liberamente prendere parte.

INDIA

Solo a Madras i bambini di strada sono circa 75 mila. Il 55,7 per cento di essi, cioè circa 41.800 minori sono bambine e ragazzine adolescenti, oltre 8.500 unità  in più rispetto ai bambini. Questa sola cifra dimostra quanto sia profonda la discriminazione di genere nel Paese. Per tradizione la figlia femmina vale di meno: non è importante educarla né curarla. La diffusione dell'alcolismo tra i padri è causa di violenze e abusi sessuali.
Alcune bambine lavorano già  all'età  di tre anni, vendono fiori o verdure con le madri. Le più grandi sono impiegate come serve o lavorano in ditte di costruzioni, in laboratori artigianali e in fabbriche di plastica o di componenti elettronici. Spesso analfabete senza prospettive, devono accettare matrimoni imposti in tenera età .
Una volta scappate di casa o abbandonate, la discriminazione le perseguita anche nella malasorte: le bambine sono molto più esposte al rischio di abusi sessuali. Arrivate in città , con il sogno di una vita migliore, sono allo sbaraglio e tendono a fidarsi del primo che dimostri di volersi prendere cura di loro: portantini di risciò o altri abitanti della strada. Molte vengono violentate o costrette alla prostituzione.
L'associazione Marialaya delle suore salesiane, con cui collaboriamo per il progetto, si occupa di loro dal 1990. È l'unica istituzione cittadina a farlo. Suore locali e donne volontarie si appostano a turno in 48 punti strategici della città , detti «centri di contatto». Le volontarie avvicinano le ragazze, cercano di impartire quella che loro chiamano «l'educazione informale»: lezioni di igiene e stima di sé, corsi d'artigianato, nozioni di lettura e scrittura e informazione sui propri diritti. Tra i servizi c'è l'assistenza medica e l'organizzazione di attività  ricreative sane. In seguito, quando il ghiaccio è rotto, le volontarie prospettano la possibilità  di entrare in un istituto, frequentare la scuola, imparare un mestiere o addirittura trovare un lavoro. Più di 2000 bambine si rivolgono a questi centri di contatto.
Per chi ha bisogno di un riparo, l'associazione ha istituito una casa di accoglienza aperta: le ragazzine entrano ed escono liberamente, ma almeno hanno un punto di riferimento saldo e un minimo di preparazione. «Le suore hanno saputo creare un clima di amore, di comprensione e di complicità  che non ho mai riscontrato in nessun altro posto - afferma padre Luciano, segretario della Caritas antoniana - . Ciò che noto in queste suore è una perfetta identificazione: non si sentono qualcosa di più. Sono donne indiane tra donne indiane, disposte a portare il peso dell'emarginazione, della fatica e della sofferenza al pari delle altre». La casa può accogliere dalle 50 alle 75 ragazze. Negli ultimi 4 anni vi hanno vissuto più di 500 giovani.
Le suore ci chiedono aiuto per allargare la loro attività . Vogliono qualificare ancora di più questo aiuto offrendo percorsi professionali mirati. Chiedono la costruzione di un'altra casa di accoglienza e di un centro professionale con laboratori e l'avviamento di attività  professionali che assicurino alle ragazze preparazione pratica e un salario decoroso per il periodo di formazione. Un'attenzione particolare sarà  data alla conoscenza dei diritti del lavoro, al risparmio, alla cura dei figli.
Le suore hanno acquistato un terreno di 2434 piedi quadrati. La Caritas antoniana finanzierà  l'intero progetto con circa 400 milioni di lire. La parola ora passa a voi.

TIMOR EST

Ricordare Timor Est, quasi un anno dopo la guerra civile, quando i riflettori del mondo si sono spenti ma bruciano ancora le ferite per i morti, per i mutilati, per le distruzioni e i saccheggi è, per il Messaggero, quasi un tributo di fratellanza. I rapporti tra Timor Est e il Messaggero di sant'Antonio risalgono al 1995, quando un gruppo di frati vi si recò per portare ai devoti una reliquia del Santo. Ancora nessuno parlava di quella piccola isola dell'Oceano Indiano, situata tra Australia e Indonesia, che lottava per l'indipendenza. Ma la sofferenza, il clima di persecuzione, i lutti sopportati nel silenzio scossero i religiosi.
Ex colonia portoghese, abitata in maggioranza da cattolici, Timor Est era stata occupata dall'Indonesia nel 1976, da allora un fronte indipendentista aveva organizzato l'opposizione, repressa duramente dal governo di Jakarta. Fu proprio monsignor Carlos Filipe Ximenes Belo, vescovo di Dili, il futuro premio Nobel per la pace, a chiederci solidarietà  per Timor Est. Il legame da allora non si è più spezzato e abbiamo vissuto di rimando le ultime vicende del Paese: la speranza, quando il 30 agosto 1999 la gente fu chiamata alle urne per decidere l'indipendenza dall'Indonesia, la preoccupazione quando, dopo l'atteso esito del referendum, le milizie filoindonesiane reagirono con estrema violenza, causando migliaia di morti (tra cui 6 religiosi), 350 mila profughi su un popolazione di appena 828 mila persone, saccheggi e distruzioni.
Le sorti dell'isola s'incrociarono con un'altra vicenda che commosse l'Italia: la morte di una missionaria canossiana, madre Erminia Cazzaniga e di una consorella timorese, madre Celeste Pinto. Sembrò naturale offrire alle suore canossiane, così coinvolte con la storia di Timor Est, la disponibilità  a partecipare alla ricostruzione. La missione delle suore nell'isola combacia con l'impegno a favore delle donne che la solidarietà  antoniana si è data per l'anno in corso. Parte importante del loro carisma è, infatti, la promozione della donna e della famiglia.
E proprio alla cura delle donne e delle bambine, madre Erminia aveva dedicato tutta le sua missione: era stata la fondatrice e l'animatrice di più convitti di ragazze, nei quali oltre che per la scuola spendeva ogni sua forza per la promozione umana: ci teneva che le sue ragazze avessero un futuro, fossero coscienti delle loro possibilità  e potessero diventare madri consapevoli.
La guerra ha ucciso madre Erminia e distrutto quasi tutti i convitti delle Canossiane a Timor Est, ma non ha annientato la volontà  della congregazione di ricominciare.
Alla Caritas antoniana le suore chiedono la ricostruzione di un convitto situato ad Ainaro, un paesino dell'interno a 119 chilometri a sud di Dili, abitato da circa 3.000 persone, miseri contadini che sopravvivono grazie a un'agricoltura di sussistenza. Prima della guerra il convitto ospitava 70 ragazze poverissime, in gran parte orfane. Oggi non esiste più.
l costo previsto per la ricostruzione è di 250 milioni di lire.

UGANDA

Ormai da alcuni anni, la Caritas antoniana sta finanziando progetti nella diocesi di Masaka in Uganda, una vasta zona rurale a circa 140 chilometri a sud ovest di Kampala, la capitale. L'impegno è dovuto al contatto diretto che padre Luciano Massarotto, segretario dell'istituzione caritativa, ha con il vescovo John B. Kaggwa.
Lo scorso anno, l'aiuto è stato utilizzato per la costruzione o il rifacimento di sette scuole. Ma non basta: la formazione gratuita non elimina il problema dell'analfabetismo, della malnutrizione e dell'abbandono di molti bambini.
In un Paese che ha il triste primato di essere una delle nazioni più povere del mondo, che ha un sieropositivo ogni 10 abitanti in età  riproduttiva e che è martoriato da sanguinose guerre fratricide, la scuola non è certo la prima preoccupazione. Fame, malattie, violenze hanno la meglio su tutto. Ma mentre per Aids e guerre tribali è difficile trovare una soluzione a breve termine, contro la miseria si può fare qualcosa da subito. Questo «qualcosa» dipende dalle donne.
La diocesi di Masaka ha una popolazione di oltre 1.200.000 abitanti, quasi il 91 per cento vive in aree rurali. Dipende da un'agricoltura di semi-sussistenza. Solo il caffè produce reddito, mentre banane, mais, fagioli, arachidi, manioca e patate dolci, coltivati in piccole quantità  e con metodi rudimentali, servono appena a sfamarsi. Altre attività  sono l'allevamento del bestiame e la pesca. Marginale il settore impiegatizio. Ebbene sia l'agricoltura che l'allevamento sono svolte quasi esclusivamente dalle donne, le uniche, a conti fatti, a garantire la sopravvivenza di molti nuclei familiari, oltre che la cura dei bambini e dei malati. Migliorare la situazione economica delle donne significa fare un grande passo avanti per lo sviluppo dell'intera area.
Il vescovo Kaggwa chiamò l'associazione di donne della Diocesi di Masaka e le incaricò di risolvere il problema. La proposta che ne uscì apparve subito efficacissima pur nella sua disarmante semplicità : regalare a 50 donne rurali, sparse in 10 parrocchie, una mucca incinta. Le donne avrebbero realizzato un reddito vendendo parte del latte, visto che questo alimento è molto richiesto nella zona, nello stesso tempo avrebbero utilizzato il latte restante per migliorare l'alimentazione della famiglia. Inoltre il letame avrebbe migliorato i raccolti. Il progetto sarebbe stato completato da una formazione di base su tecniche di coltura e di allevamento. In cambio le donne avrebbero ceduto ad altre donne dell'associazione il vitello che sarebbe nato.
Il progetto che vi proponiamo segue le loro indicazioni. Durerà  5 anni, beneficiando a cascata più di 300 donne. Per permettere la riproduzione degli animali e la continuazione della catena di solidarietà , è previsto l'acquisto di tre tori che saranno spostati a rotazione nelle 10 parrocchie.
Alla Caritas antoniana vengono richiesti: l'acquisto di 50 mucche e tre tori, le spese per la formazione agricola e per il trasporto degli animali, nonché le spese amministrative. Il costo del progetto è di circa 100 milioni di lire.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017