L'arte di perdere tempo
La sosta più del cammino. La pausa più che lo spostamento. Il tempo, solo in apparenza «perso», più che il tempo occupato dai nostri passi e persino dai nostri pensieri. Cosa rimane davvero del viaggio? Come scoprire in maniera più attenta, e non fugace, un luogo e, insieme, la civiltà e la cultura che ne stanno racchiusi dentro?
Patrick Manoukian è stato viaggiatore errante ed editore di libri per ragazzi. Partito a sedici anni per gli Stati Uniti ha soggiornato tre mesi nel Bronx, a New York. Due anni dopo ci ha rimesso piede percorrendo 40 mila chilometri in autostop negli Stati Uniti e in Canada. Oggi Manoukian scrive romanzi ispirati dai suoi numerosi soggiorni in America del Sud, in India e non solo. Il suo romanzo poliziesco Yeruldegger, uscito nel 2013, ha vinto diciassette premi letterari.
L’arte di perdere tempo (in libreria dal 2 febbraio) ci fa entrare in quella che l’autore definisce l’arte della nonchalance: per assaporare davvero il viaggio bisogna abbandonarsi in tutto e per tutto, mettendo in conto di vivere, senza patemi, anche deviazioni e disavventure. Perché sono proprio queste a permetterci di riconquistare il nostro tempo.
Bella sfida quella di Manoukian in un tempo di viaggi sempre più brevi, organizzati giorno per giorno, di avventure mordi e fuggi e partenze azzerate, in una manciata di momenti, già dal rientro. «Nel primo viaggio si scopre ‒ dicono i tuareg ‒. È nel secondo che ci si arricchisce». Dovrebbero essere questi, in fondo, il gusto, il senso più compiuto, la filosofia dell’andare. Sono, infatti, i momenti di silenzio, le pause, gli interstizi, gli incontri che non ti aspetti o gli imprevisti a rappresentare l’anima stessa, il cuore del viaggio. Vale anche per la vita.
Come ci ammonisce l’autore ricordiamoci, di tanto in tanto, che «siamo fatti di tempo. Quello che ci è assegnato per vivere e che cerchiamo di prolungare con le nostre convinzioni…Ogni cosa è un pretesto per sperare. Lo stesso vale per la nostra vita, che non si misura e non si apprezza se non alla luce dei giorni che passano e delle loro scadenze».
Così ci piace pensare, un po' come accadeva nelle civiltà contadine, che forse è meglio non buttar mai via nulla. Parentesi preziose incluse.