Le immagini di una tragedia
Dedichiamo la copertina di questo numero alle madri di Beslan. Nonostante sia passato del tempo e altre immagini, di drammi e di lutti, siano andate a occupare l'orizzonte delle informazioni e delle nostre giornate sempre più cariche di tensione e di ansia per un mondo senza pace, Beslan resterà per sempre un luogo simbolo che indica fin dove possa spingersi il Male. Purtroppo, al di là di ogni confine, dove non c'è nessuna pietà , nessuna umanità , dove la vita non conta nulla, neppure di una madre, di un bimbo (e lì ne sono stati uccisi a centinaia), spenta da un odio cieco e assurdo, l'ennesima pagina nera della storia dell'uomo.
Le immagini parlano più di tante parole. E non vogliamo aggiungerne altre alle molte già dette. Abbiamo sentito il grido di Rachele che piange i suoi figli, ci viene da dire con l'evangelista Matteo che così esprime l'orrore per la strage degli innocenti. Un grido che continua a risuonare. Un pianto, eco di tanti pianti, di cui la storia dell'umanità è bagnata. Nel viso delle due donne in copertina non ci sono lacrime. Non ne sono rimaste più da versare.
Quando si ricorderà Beslan saranno soprattutto le immagini a raccontare l'orrore. Ad esempio, l'immagine di Georgj Farniev, il bambino di appena dieci anni con la camicia bianca di una festa che non c'è stata, le mani sulla nuca, impietrito dal terrore, ai piedi del terrorista che lo minaccia: basterà questa per dire tutto di Beslan. Così come la bimba vietnamita denudata dal napalm che corre per sfuggire al fuoco continua a dirci che cosa è stata quella guerra, lontana nel tempo ma viva nella memoria e nelle sua tragiche conseguenze (fisiche e morali) che accomunano vinti e vincitori. Perché nelle guerre nessuno vince, tutti siamo perdenti. O come il bimbo ebreo del ghetto di Varsavia, il berrettone in testa e le mani alzate, continua a ricordare la violenza subita da tutti gli ebrei.
La fotografia ha questo magico potere, di dilatare nel tempo le immagini fissate, di far giungere fino a noi il racconto di ciò che in esse è racchiuso per farlo diventare nostra memoria. Per questo i drammi che le immagini citate evocano sono drammi che ci appartengono. Sono nostra storia. Ci tramandano un messaggio che dovrebbe indurre gli uomini a riflettere. Cosa che l'uomo sembra non fare, visto il perpetuarsi incosciente degli stessi drammi e delle stesse tragedie.
Abbiamo detto che da una guerra si esce tutti perdenti. Perché ad essere sconfitto è l'uomo in se stesso. Ce ne da un'altra conferma quella che si sta protraendo in Iraq, incattivitasi in una guerriglia crudele che agisce al di fuori di ogni regola e di ogni rispetto, che ricorre alle azioni più brutali per raggiungere i propri fini. Come rapire, per poi anche trucidare, civili inermi o persone che sono lì per alleviare le sofferenze delle vittime di una guerra che loro stesse non hanno voluto, anzi avversato, non ritenendola il mezzo più idoneo a risolvere i conflitti. È quello che è successo alle due volontarie di Un ponte per Baghad, per la cui liberazione persino la gente stessa di Baghdad, è scesa in piazza a manifestare. E con loro l'intero nostro Paese. Si era detto che dopo l'11 settembre nulla sarebbe stato come prima. Ma come sarebbe stato il dopo? Di certo duro. Ma non immaginavamo tanto. Che cosa sta succedendo? Scontri di civiltà ? Errori politici e strategici? Difficile non perdere l'orientamento. Vorremo tentare di ritrovare il senso delle parole e dei fatti, ma siamo affogati dall'incalzare degli avvenimenti.
Il 4 ottobre, memoria di Francesco d'Assisi sia una giornata in cui riflettere e pregare per la pace, un dono che solo Dio, è in grado di far scendere su un'umanità smarrita e inquieta.