MALATI ALLO SBANDO?

Dopo diciott’anni dalla legge Basaglia, i manicomi chiudono, ma la psichiatria italiana è davvero cambiata? Storia di una legge inapplicata, che ha portato grandi speranze e profonde delusioni. il dramma dei malati, la solitudine delle famiglie
02 Febbraio 1997 | di

Marta piange quando lascia l'ospedale psichiatrico che l'ha custodita per trenta lunghi anni. Di fronte all'incognita dell'esterno, nulla sembra insopportabile: né il r7icordo confuso degli elettroshock, né le notti di solitudine, né le urla dei compagni deliranti, né il fetore della sporcizia, né le alte dosi di psicofarmaci somministrati solo per farla stare buona. Ora che l'attende una stanza nuova in una comunità  alloggio, la libertà  offerta, lontano dalle abitudini e dai compagni di sempre, sembra l'anticamera dell'abbandono.

In questa situazione si sono trovati in molti quando, con l'approssimarsi del 31 dicembre 1996, data fissata dalla finanziaria del '94 per lo smantellamento, ventuno manicomi hanno chiuso i battenti. Dopo diciott'anni veniva applicata la legge 180 del 1978, detta 'Basaglia', dal nome dello psichiatra che l'aveva concepita, mettendo allora in discussione le basi della psichiatria in Italia. Prima di questa legge il malato era un 'soggetto pericoloso', e il manicomio il contenitore dove veniva segregato. Con la legge 180 il punto di vista cambiava: il malato tornava a essere considerato una persona con dignità  e diritti, a cui si deve ogni cura e reinserimento.

La legge sanciva: la progressiva chiusura dei manicomi, l'assistenza dei malati in strutture sparse nel territorio e il ricovero in reparti specializzati degli ospedali solo con il consenso del paziente. Il ricorso al trattamento sanitario obbligatorio, disposto dal sindaco, poteva avvenire solo in caso di estrema urgenza.

Ma quella fu una rivoluzione solo sulla carta. I ricoverati diminuirono progressivamente: dai 100 mila del 1978 ai circa 17 mila di oggi, ma non certo grazie alla 180; la maggior parte morirono di morte naturale, i più fortunati rientrarono in famiglia o vennero inseriti in comunità  protette. Molti furono abbandonati a se stessi e finirono barboni.

Le regioni, cioè gli enti deputati all'istituzione di strutture alternative, investirono pochissimo; la psichiatria divenne la cenerentola del nostro sistema sanitario. La società  degli anni Ottanta, col mito dell'efficientismo e del successo, mise a tacere ogni attenzione per chi non riusciva a tenere il ritmo e portava in sé i segni della debolezza.

Il resto è storia di oggi. Dopo la data di chiusura, rimangono aperti 42 istituti pubblici, e tutte le cliniche private convenzionate. Ma nel giro di un anno e mezzo, tale è il termine previsto dal ministero della Sanità , tutti dovranno essere chiusi. Il ritardo di diciott'anni sull'attuazione della legge, non fa ben sperare per il futuro. Anzi, ci sono già  segni inquietanti. Nel parapiglia per rispettare la scadenza, molti internati non sono stati preparati alla nuova condizione, e il fatto ha generato shock, disagi e ingiustizie. Come il caso dei due fidanzati, separati dalla burocrazia e in seguito ricongiunti grazie al buon senso; o quello della signora disperata perché le portavano via l amica del cuore, unico baluardo di una affettività  ritrovata. Storie tranciate con un tratto di penna, solo perché un malato apparteneva a una regione piuttosto che a un'altra.

Non sono mancate le polemiche. I difensori dell'applicazione a tutti i costi della legge 180, puntavano l'indice sulla vergogna dei 'manicomi-lager' del Sud o sull'eccessivo uso di farmaci in quelli del Nord. I critici della legge affermavano, invece, che senza prima aver approntate alternative, l'unica cosa che poteva cambiare era la denominazione 'ospedale psichiatrico'. Poi, sicuramente, qualcuno ci avrebbe speculato. Qualche tempo dopo, la realtà  confermava il sospetto: i giornali riportavano il caso di una clinica privata, sorta dal giorno alla notte, giusto nei pressi di un ospedale psichiatrico in dismissione.

Al di là  delle polemiche, emerge che il vero problema non è la chiusura dei manicomi, ma la decadenza della psichiatria in Italia. 'La situazione è molto più grave di quel che appare - afferma con piglio energico Girolamo Bertinato, presidente di 'Aiutiamoli', associazione milanese di famiglie di malati psichici - . Gli ex degenti degli ospedali psichiatrici sono relativamente pochi, hanno un'età  media tra i cinquanta e i sessant'anni, e solo il 50 per cento di essi soffre di disturbi mentali; gli altri sono vecchi abbandonati e handicappati gravi. Il vero problema sono i 500 mila giovani, mai internati, che manifestano le prime avvisaglie della malattia dai sedici ai trent'anni. Il loro numero sale velocemente e la loro cura ricade interamente sulle spalle delle famiglie, le quali affrontano il dramma senza mezzi e preparazione'.

Secondo altre fonti, il numero dei malati sorpasserebbe il milione, mentre circa il 15 per cento degli italiani soffrirebbe di disturbi di diversa natura. C'è l'esercito dei fai-da-te, che cerca la soluzione in medicine miracolose, e ci sono molte famiglie che nascondono il proprio congiunto malato, per il 'pudore' tipico della nostra società  dell'efficienza, per la quale una ferita del corpo è più degna da mostrarsi di una ferita della mente.

Carenti anche le strutture. Secondo una ricerca dell'Istituto italiano di medicina sociale, in questi anni è cresciuto il numero dei servizi a disposizione dei malati; alcuni servizi sono di buona qualità , ma confinati in specifiche realtà  territoriali: il Sud e le isole, infatti, hanno carenze abissali. Mancano istituti di tipo residenziale: comunità  aperte 24 ore su 24, con un numero massimo di venti posti letto, che accolgano pazienti bisognosi di interventi di media e lunga durata. Non sono sufficienti i posti letto negli ospedali generali, destinati ai malati che presentano disturbi psichici in fase acuta e dove viene effettuato il trattamento sanitario obbligatorio. Si raggiunge una frequenza di appena 0,84 servizi per 150 mila abitanti.

La carenza è tanto più grave perché la malattia mentale è complessa. 'La nostra vita di familiari a tu per tu con la malattia - afferma Bertinato - viene totalmente sconvolta. Non possiamo organizzarci. Il vero padrone è lui, il malato; noi familiari siamo gli unici suoi infermieri, medici, cuochi e accompagnatori. Il cibo diventa un'ossessione: i malati mangiano troppo o si rifiutano di mangiare, e nessuno può interferire. È spesso all'ora del pasto che accadono liti e crisi. Il loro ritmo del sonno è anomalo: eccessivo di giorno, nullo di notte. Il rapporto col denaro è complesso e irreale: richieste smodate, spese irresponsabili che creano tensioni in familia. Spesso il malato rifiuta la terapia o, al contrario, eccede. Il suo tempo è vuoto: le giornate passano senza scopo e voglia di attivarsi. È assurdo sperare che frequentino i day-hospital (quando ci sono), se non vengono prelevati a domicilio. Ma la cosa più imbarazzante e dolorosa, che spesso i familiari tacciono per pudore, è la violenza fisica e psicologica che subiscono ogni giorno dai loro congiunti; è in casa, infatti, che si riversano le frustrazioni e le crisi del malato. La complessità  della malattia mentale non è gestibile solo dalla famiglia, ma richiede strutture e professionalità : il malato deve innanzitutto risocializzare, recuperare le abilità  perdute e infine poter contare su un lavoro protetto'.

Ma cosa succede quando un malato ha una crisi acuta e non si lascia curare? 'Questo è il grande dramma - afferma Lucia - di noi genitori. La legge prevede che per attivare la cura è necessario il consenso del malato; ma molti schizofrenici non accettano la malattia. Quando hanno una crisi violenta, non ci resta che utilizzare l'unico strumento consentito dalla legge: il trattamento sanitario obbligatorio; un provvedimento penoso per tutti: famiglia, malati e vicini. Dopo un increscioso procedimento burocratico, arriva un'ambulanza con i vigili urbani per prelevare il malato. Il vicinato si allarma e inizia a emarginare la famiglia, che, nel frattempo, si sente umiliata e colpevole. L'ammalato serba profondi rancori. Meglio sarebbe che la cosa fosse gestita da un medico a domicilio. Con mio figlio ho dovuto usare questo mezzo per ben undici volte'.

Insomma, questa legge 180 è stata un buco nell'acqua? 'Dal punto di vista dei princìpi - chiarisce Bertinato - è un passo avanti. È giusto recuperare le persone e restituire dignità . È stato un errore averlo fatto sulle spalle delle famiglie, senza predisporre le opportune contromisure, nella dimenticanza colpevole delle istituzioni. Per cui partiamo pure dalla 180, ma, per carità , miglioriamola'.

Indirizzi per un aiuto

La Federazione italiana per la salute mentale (Fisam) è una unione di associazioni indipendenti, che operano per fini di solidarietà  nel campo della salute mentale, allo scopo di promuovere le condizioni necessarie per la prevenzione, la cura e la riabilitazione dei malati psichici. L'associazione è operativa dal settembre del 1995 ed è ancora in via di formazione.

Chi voglia saperne di più o avere qualche indirizzo di associazioni vicine al proprio luogo di residenza, si rivolga a: Fisam, Federazione italiana per la salute mentale, c/o Associazione 'Aiutiamoli', corso Porta Romana, 116/A - Milano - tel. 02/58309285-58304712 - fax 02/58301783-58304712.

   
   
PER MOLTE FAMIGLIE, UNA TRAGEDIA      

M io figlio, 41 anni, malato da quando ne aveva 25 - racconta la signora Anna - era un ragazzo dolcissimo, senza problemi. Dopo la fine di una relazione amorosa, si è chiuso in casa per venti giorni, al buio. Quindi è sparito per due mesi, dilapidando tutti i soldi ricavati dalla vendita dell'auto e della moto. Tornato a casa, ci ha detto: 'Sedetevi, devo dirvi una cosa importante. Io mi sono azzerato'. Non avevamo capito che era l'inizio della nostra odissea'.

     

Da allora è stata una lotta continua: dentro e fuori da ospedali e case di cura. E poi, la strada. A volte ritorna a casa, altre non si fa vedere per giorni e giorni. 'Noi siamo del tutto impotenti - confida la madre - possiamo solo stare a guardarlo, mentre       lentamente, ma inesorabilmente, si annulla'. Quando è in famiglia, succede che diventa violento; e allora bisogna stare attenti a quello che si fa e si dice. Il problema è che in molti casi, chi soffre di disturbi psichici rifiuta la malattia, non si vuole curare e così peggiora. 'Se esistessero delle strutture nelle quali curare i pazienti per un periodo piuttosto lungo - sia ben chiaro, non i manicomi e nemmeno i reparti psichiatrici dei vari ospedali generali - essi potrebbero essere recuperati e poi reinseriti nella società , con attività  adatte alle loro capacità . Molti si potrebbero salvare'.

     

Prima il rifiuto della scuola, dell'acqua per lavarsi, del cibo. Poi degli amici, dei genitori, del mondo intero. È questo il calvario di Marco, 23 anni, colpito all'età  di 16 da una forma di schizofrenia, la stessa che nei momenti di delirio trasforma i suoi       occhi azzurri, buoni e profondi, in uno sguardo disperato e terribile. Una vita difficile, anche per i suoi familiari. La madre, Clara, 48 anni, impiegata, da quando è iniziata la malattia del figlio, vive e lotta solo per lui, che definisce l'unico scopo della sua vita'. Il suo racconto procede a fatica, intriso com'è di sofferenza vera, di lacrime represse, che trovano sfogo per poi aprirsi alla speranza.

     

È una lotta che Clara compie da un anno e mezzo, attraverso una scelta difficile e dolorosa: per sbloccare Marco dall'immobilismo in cui viveva, scosso da violente crisi deliranti e aggressioni fisiche, ha deciso di allontanarsi dal figlio. Marco è rimasto       con il padre; ma anche lui è psicopatico. La decisione di lottare a distanza per il bene del figlio, su consiglio dell'associazione Difesa ammalati psichici gravi (Di.a.psi.gra) e dei medici, non è stata facile per la signora Clara. 'Mamma è morta' e 'papa è il diavolo', sono le frasi che Marco ripete in continuazione. In questo periodo, Marco è  ricoverato in ospedale, con il suo consenso. Ma quando manifesterà  la volontà  di uscire, come prevede la legge, nessuno potrà  costringerlo a rimanere. E poi, dove andrà  Marco? Chi lo accoglierà ? Il padre non lo vuole più in casa e il giovane potrebbe compiere atti gravissimi. Clara vive con la speranza che egli possa trovare un aiuto concreto, un ambiente sereno e accogliente che lo invogli a continuare la cura. 'Spero - confida - che il centro di igiene mentale proponga l'inserimento in una casa alloggio'.

   
   
A Trieste la 180 funziona      

IL GIORNO DI 'MARCO CAVALLO'

     

Qui, dove Franco Basaglia 'liberò' il primo manicomio, la provincia ha una rete di sette centri ben attrezzati e venti strutture residenziali.L'ex ospedale psichiatrico è diventato parte della città 

           

L a 'rivoluzione dei manicomi' cominciò a Gorizia all'inizio degli anni Sessanta. Un giovane psichiatra, Franco Basaglia, venne nominato direttore del manicomio del capoluogo isontino dove allora erano ricoverati 650 malati: nel giro di qualche anno Basaglia realizzò un cambiamento che cancellò l'ospedale psichiatrico inteso come luogo di segregazione. Sparirono grate, reti, cancelli, camicie di forza; furono       eliminate terapie violente come l'elettroshock; i malati non furono più costretti alla nudità , ai camicioni grigi e ai capelli rasati a zero: erano alcuni segni della volontà  di restituire loro la dignità  di 'persone'.

     

Esaurita l'esperienza di Gorizia, nell'agosto del 1971, Basaglia divenne direttore del manicomio di Trieste: nel vasto comprensorio di San Giovanni c'erano quasi milleduecento malati. Qui il suo progetto di chiusura dell'ospedale psichiatrico divenne realtà  tra le polemiche e la ferma opposizione di parte della città . Aiutato da artisti affermati, Basaglia fece nascere laboratori di pittura e di teatro: una       macchina scenica, un cavallo azzurro costruito in legno e cartapesta, fu ribattezzata 'Marco Cavallo' e divenne il simbolo di una comunità  terapeutica in cui trovavano espressione bisogni e desideri dei malati. Nel 1973, in una domenica di marzo spazzata dalla bora, 'Marco Cavallo' sfilò in corteo lungo le principali vie di Trieste, seguito da medici, infermieri, artisti e da tanti ricoverati. 'Fu un momento di grande       entusiasmo soprattutto per noi, giovani medici collaboratori del professor Basaglia - commenta Giuseppe Dell'Acqua, oggi direttore del  Dipartimento di salute mentale di Trieste - . Quella giornata ci diede la sensazione di lavorare per un obiettivo effettivamente realizzabile'.

     

Nello stesso anno si formò la prima cooperativa che impiegava circa sessanta malati. 'Era un'abitudine diffusa negli ospedali psichiatrici - spiega Dell'Acqua - utilizzare i degenti per i lavori di pulizia. La nascita della cooperativa fece maturare la       consapevolezza che questi uomini e queste donne, benché internati, svolgevano un lavoro che andava riconosciuto e retribuito. Per questo motivo si giunse a uno sciopero. Fu un episodio straordinario: chi era occupato nella cooperativa ottenne un salario e passò d'un tratto dallo status di internato a quello di lavoratore'.

     

Mentre cambiava il volto del manicomio, a metà  degli anni Settanta, in diversi punti della provincia furono aperti i Centri di salute mentale destinati dapprima a fornire un supporto ai pazienti dimessi, poi ad assumere molte funzioni proprie dell'ospedale psichiatrico. Oggi la rete di assistenza comprende sette centri di zona, gestiti ciascuno da un'équipe di medici, psicologi, assistenti sociali e infermieri psichiatrici, affiancati da terapisti e animatori. Quattro centri sono attivi nell'intero arco delle ventiquattr'ore e dispongono di posti letti per eventuali ricoveri; tre sono aperti solo durante il giorno e svolgono una funzione di day-hospital. Tutti sono al tempo stesso mini ospedali, ambulatori, mense, luoghi d'incontro e di assistenza sociale.

     

Gli operatori di questi centri seguono anche una ventina di strutture residenziali, organizzate come abitazioni, dove, in piccoli nuclei inseriti nel tessuto sociale, vivono circa una settantina di persone. Le situazioni di emergenza trovano una prima       risposta presso il Servizio di diagnosi e cura dell'ospedale maggiore: è una sorta di pronto soccorso psichiatrico. Altri servizi si rivolgono alle famiglie, ai minori e ai detenuti.

     

Il comprensorio dell'ex ospedale psichiatrico, il posto dei matti per antonomasia, oggi sta ridiventando parte della città . Sei palazzine ospitano dipartimenti universitari di fisica e di scienze, scuole di perfezionamento, un istituto tecnico professionale e       quello di medicina del lavoro, mentre in una decina di edifici vi sono strutture che dipendono o collaborano con il Dipartimento di salute mentale . Negli ex padiglioni hanno sede la clinica psichiatrica universitaria, il centro di salute mentale di zona, i servizi per tossicodipendenze e alcologia. In dieci residenze protette vivono una       novantina di ex degenti del vecchio ospedale psichiatrico.

     

Chi soffre di forme di disagio o handicap psichico, chi ha problemi di dipendenza da alcol e droga, all'interno del comprensorio può usufruire di laboratori dove si fa teatro, si dipinge, si creano piccoli oggetti in ceramica, si stampano magliette con la tecnica della serigrafia, oppure si impara a usare il computer, si frequentano corsi o lezioni individuali dalla scuola elementare fino alla licenza media.

     

Molte persone che recuperano le capacità  necessarie per integrarsi nel mondo del lavoro trovano impiego nelle cooperative: quella intitolata a Franco Basaglia, protagonista dello sciopero del 1973, oggi opera nei settori delle pulizie, del servizio mensa e lavanderia, del facchinaggio e della legatoria. Altre, sorte negli       anni successivi, si occupano di lavori di giardinaggio, costruzioni edili; oppure gestiscono un bar, un albergo, una trattoria, una radio, uno studio fotografico, un attrezzato centro di estetica e una falegnameria che produce mobili apprezzati per il loro design.

     

Gli zainetti degli studenti che raggiungono l'università , le macchine che utilizzano le strade del parco come una scorciatoia, l'attività  di laboratori e cooperative: basta fare un giro nel comprensorio per capire che l'ex ospedale psichiatrico è oggi un       ricordo che fa parte della storia della città . 'Per tradizione storica e culturale - conclude il direttore del Dipartimento di salute mentale - Trieste ha un rapporto molto rigoroso con le sue istituzioni. Nonostante le forti tensioni che il progetto di Basaglia suscitò, la città  lo rispettò, ma chiese risposte serie ai problemi che la chiusura del       manicomio poneva: atteggiamento che costituì uno stimolo continuo al nostro lavoro'.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017