MORIRE DI DEBITO
Il fardello del debito estero sta paralizzando la crescita e lo sviluppo di molti paesi del mondo. I dati forniti dal Fondo monetario internazionale (Fmi) sono impressionanti: alla fine del 1997, il debito estero globale dei paesi in via di sviluppo ammontava a circa 2066 miliardi di dollari (circa quattro milioni di miliardi di lire). Lo stesso anno quegli stessi paesi hanno ripagato ai paesi ricchi e agli istituti finanziari del mondo 272 miliardi (circa 500 mila miliardi di lire), cifra raddoppiata rispetto al 1988 che era di 145 miliardi di dollari. Ciò significa che, per rimborsare il debito, ogni anno i paesi in via di sviluppo versano ai paesi occidentali un importo triplo rispetto a quanto ricevono in aiuti.
Di fronte all'enorme debito estero che strozza i paesi poveri si impone una domanda: davvero le ragioni dell'economia mondiale hanno ormai preso il sopravvento, condannando milioni di persone alla fame, alla malattia, al sottosviluppo? Sembrerà strano, ma le sole ragioni economiche non spiegano tutto.
Il caso dello Zimbabwe è eloquente. Negli anni '80, il paese aveva richiesto una serie di prestiti, per un totale di 646 milioni di dollari, per lo più contratti con la Banca mondiale. Con una oculata gestione dei fondi era riuscito a dare impulso alla propria economia. Aveva adottato misure di protezione delle proprie industrie, era autosufficiente dal punto di vista alimentare, era persino riuscito a diversificare la produzione per le esportazioni e a piazzare i propri vini sul mercato europeo. Nel contempo aveva adottato un controllo degli scambi e fissato un elevato livello di spesa pubblica a favore dell'istruzione e della sanità . Il risultato di questa politica economica aveva consentito allo Zimbabwe di pagare puntualmente i creditori, senza mai chiedere dilazioni, cosa assai rara nei paesi in via di sviluppo. Ciò gli aveva consentito di evitare i programmi di aggiustamento strutturale della propria economia che gli enti finanziatori chiedono a garanzia del debito.
Gli aggiustamenti strutturali spesso hanno conseguenze pesantissime a livello umano: per esempio, la richiesta di eliminare le barriere commerciali e finanziarie per attrarre gli investimenti stranieri si traduce in una spietata liberalizzazione degli scambi che mette in impari competizione le economie deboli dei paesi poveri con quelle ben più forti dei paesi ricchi. Altra misura richiesta è quella di ridurre il deficit del governo con tagli alla spesa pubblica, ma spesso la scure si abbatte soprattutto sui finanziamenti destinati alla sanità o all'istruzione, due cardini fondamentali per lo sviluppo di un paese. Altre misure economiche sono di solito la svalutazione della moneta, l'aumento incontrollato dei tassi d'interesse, una forte compressione di salari, tutti provvedimenti che incidono sulla capacità di acquisto e sulla qualità della vita delle famiglie.
Ritornando allo Zimbabwe, la sua capacità di onorare i debiti invece di rallegrare la Banca mondiale, l'aveva messa in profondo imbarazzo tanto da congelare un ulteriore prestito richiesto dal paese. Colin Stoneman, docente della New York University, esperto di questioni relative allo Zimbabwe così spiega l'accaduto: «Non volevano che lo Zimbabwe avesse successo adottando quella che era per loro la 'strategia (di sviluppo) sbagliata'». Nel 1991, la necessità di nuovi capitali costrinse lo Zimbabwe ad accettare il solito pacchetto economico liberista: il debito è aumentato, uno dei migliori sistemi sanitari africani è stato smantellato, la disoccupazione raggiunge il 45 per cento della popolazione attiva, molte donne sono costrette alla prostituzione per mantenere i loro figli.
Il caso limite dello Zimbabwe insegna almeno tre cose:
1) a guidare l operato degli enti creditori non sono solo ragioni economiche ma anche ragioni ideologiche, quasi dogmatiche, che mirano ad imporre un unico modello di sviluppo e a considerare il mercato capace di risolvere da sé tutti i problemi legati allo sviluppo;
2) evidentemente ai creditori internazionali non interessa tanto riavere i soldi, che se messi a confronto con i flussi di denaro dell'economia mondiale sono un'inezia, quanto mantenere una forma di predominio sui paesi indebitati;
3) ci possono essere modelli di sviluppo alternativi, più validi ed efficaci di quelli imposti dalle agenzie mondiali.
Ma cosa significa in concreto per un africano avere sulle spalle un debito estero pari a 440 dollari (800 mila lire) già al momento della nascita? Bastino alcuni esempi: in Uganda il governo spende annualmente solo 3 dollari a persona per la sanità ma ben 20-30 dollari per ripagare il debito ai creditori. In Mozambico il 33 per cento della spesa pubblica serve a pagare il debito estero, mentre solo il 7,9 per cento è destinato all'istruzione. In molti paesi africani l'alimentazione dipende dalle importazioni per il 30-40 per cento, non esiste più l'agricoltura rudimentale di un tempo che prima garantiva la sussistenza. Nelle zone agricole sono spariti i piccoli appezzamenti dei contadini, domina il latifondo, spesso coltivato a un unico prodotto, quello richiesto dal mercato. I soldi in valuta pregiata, ottenuti dalle esportazioni, servono a pagare il debito. Se la richiesta del prodotto improvvisamente crolla, il paese precipita nel baratro. Vi siete mai chiesti perché un chilo di banane prodotto in Africa, nonostante i costi di trasporto, abbia lo stesso prezzo di un chilo di mele prodotto nella vostra regione? Il mercato esige la coltura e il mercato impone anche il costo.
Un'economia così ha un prezzo altissimo in vite umane: nel mondo oltre 800 milioni di persone soffrono di malnutrizione cronica, ogni giorno 11 mila bambini muoiono di fame (dati Fao), ogni anno 2 milioni e 500 mila persone muoiono di malaria, mentre nell'area a sud del Sahara si concentra il 70 per cento dei sieropositivi del pianeta (dati Oms).
Le cifre sono ancora più assurde se confrontate con alcune proiezioni Onu. Secondo tali dati per assicurare un'istruzione di base a tutti i bambini del mondo occorrerebbero 6 miliardi di dollari, in Europa ne spendiamo 9 per mangiare gelati; per l'alimentazione di base di tutti i bambini poveri basterebbero 13 miliardi di dollari all'anno, in occidente ne spendiamo 17 in mangimi per animali.
C'è da chiedersi se qualche responsabilità ce l'abbiano anche i paesi poveri. Se è vero che questi paesi sono ricorsi al prestito con eccessiva facilità e che i governi non hanno saputo spenderli a favore della propria gente, è anche vero che nessuno ha controllato la loro solvibilità e come questi fondi venivano utilizzati. Gran parte è stata usata per costruire cattedrali nel deserto come l'ospedale di 12 piani senza scale e senza ascensore. Progetti, insomma, senza alcun impatto nello sviluppo. Un quinto del debito mondiale, secondo Africanews, agenzia d'informazione africana, è stato speso per acquistare armi o per sostenere regimi oppressivi e corrotti.
Il caso dello Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo) è esplicativo: la dittatura di Mobutu Sese Seko ha contratto un debito estero di 10 miliardi di dollari. Sei miliardi sono finiti a rimpinguare il tesoro personale dello stesso Mobutu, in gran parte custodito nei conti bancari del mondo occidentale.
Il nocciolo del problema non è il debito in se stesso. Quasi tutti i paesi del mondo sono indebitati. A tutt'oggi i più indebitati sono proprio gli Stati Uniti, cosa che non è per il paese un problema visto che sono considerati dai creditori clienti solvibili. Anzi, ciliegina sulla torta, la somma dei debiti di tutti i paesi poveri equivale all'1 per cento del volume totale delle attività finanziarie nel mondo.
Come mai allora il debito stritola solo i paesi poveri? Perché le regole vengono imposte unilateralmente dai paesi ricchi.
Il problema del debito estero ha avuto una spinta decisiva a seguito della crisi petrolifera degli anni '70. Agli inizi degli anni '80, con il mutamento della congiuntura dei mercati finanziari, i prestiti concessi a tassi d'interesse variabile e fino a quel momento relativamente bassi, ebbero un brusco aumento fino a quintuplicarsi. A ciò si aggiunga che gli interessi e le rate di ammortamento, allora come oggi, sono assolti tramite valuta estera, sempre più rivalutata per il divario crescente rispetto alla moneta locale, deprezzata per il progressivo impoverimento del paese. A ciò si aggiunga l'accumulo degli arretrati sugli interessi e sulle quote capitale.
Nel 1982 esplose la crisi del debito: il Messico dichiarò la sua incapacità di far fronte al debito e la sua intenzione di non pagarlo. Il sistema, da sempre dato per scontato, traballò come un castello sulla sabbia. Uno shock per le grandi istituzioni internazionali per lo sviluppo che per la prima volta furono costrette a ripensare i modi della cooperazione e a cercare soluzioni per il debito estero. Dal 1995 la stessa Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale proposero un programma di alleggerimento del debito estero dei paesi più poveri fino all'80 per cento (Hipcs: High indebted poor countries initiative), anche se in gran parte sotto forma di rinvii e di revisione dei tassi. Da allora ad oggi la situazione dei paesi poveri è ulteriormente peggiorata a causa della crisi dell'economia asiatica, russa e da ultima, brasiliana.
Il problema del debito estero è sempre più pressante, non più solo materia di filantropi e di timorati di Dio, ma di fior di economisti. È ormai sempre più chiaro che la sorte dei popoli e lo sviluppo dei paesi non può essere lasciato in balia della sola economia globalizzata, occorre un ritorno al senso di responsabilità dei governi, un recupero etico della solidarietà , una rivoluzione nell'architettura della cooperazione e la capacità di aprirsi a nuovi modelli di sviluppo più sostenibili e consoni ai paesi poveri.
Insieme per losviluppo di Il commercio equo e solidale. Per saperne di più:
Microcredito. La pratica del microcredito, cioè concedere piccoli prestiti a basso costo, si rifà alla straordinaria esperienza della Grameen Bank, la banca dei poveri, nata in Bangladesh nel 1976 e che oggi ha più di mille succursali e due milioni di clienti (al 94 per cento donne). Il suo fondatore, Muhammad Yunus, ex professore di economia, ebbe una straordinaria intuizione: mentre i ricchi tendono a sprecare il denaro in prestito, i poveri invece lo fanno fruttare in piccole attività e lo restituiscono con diligenza perché per loro quel denaro è un'occasione unica di riscatto. Il grande successo della Grameen Bank ha portato alla fondazione di altri istituti basati sul microcredito in tutto il mondo. In Italia opera Microcredit, una cooperativa fondata a Brescia nel 1997, con l'obiettivo di raccogliere denaro da prestare a microprogetti di autosviluppo gestiti da piccoli gruppi imprenditoriali organizzati democraticamente nel Sud del mondo.
Per saperne di più:
L'economia di comunione. Il progetto «Economia di comunione» è stato lanciato nel 1991 da Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei focolarini, per andare incontro alle prime necessità dei molti brasiliani in difficoltà economiche che condividevano il suo ideale dellunità . Si tratta di una comunione produttiva dei talenti e delle risorse economiche per la nascita di nuove imprese i cui utili devono essere messi in comune ed usati in parte per aiutare i poveri a vivere, finché abbiano trovato un posto di lavoro; una parte per sostenere la formazione alla cultura del dare; un'ultima fetta per incrementare l'azienda. A questo progetto aderiscono oggi circa 650 aziende e oltre 90 attività produttive minori in più di 30 paesi.
Per saperne di più: Per informazioni: c/o Movimondo, tel. 06/57300330; email: molisv@ flashnet.it. Per informazioni: Mani Tese, tel.02/48008617, email: manitese@planet.it.
Saperne di più sull'economia solidale.
Credito contro debito
Dare al piccolo produttore dei paesi in via di sviluppo la possibilità di sottrarsi alla spietata competizione del mercato internazionale, significa combattere alle radici la causa dell'indebitamento. A questo fine è nato negli anni Ottanta il commercio equo e solidale che si propone di garantire al piccolo produttore prezzi più favorevoli, finanziamenti a basso costo, un diretto rapporto con il distributore per ridurre al minimo i passaggi di intermediazione. In Italia le organizzazioni di questo tipo sono 5, la più grande si chiama Consorzio Ctm (Cooperativa terzo mondo) Altromercato. La vendita al dettaglio avviene attraverso una rete che si chiama le «Botteghe del mondo» (200 in Italia).
- Ctm, tel. 0471/975333.
- Pagina Internet di presentazione del commercio equo e solidale e i recapiti delle botteghe: www. citinv.it/iniziative/info/equo/comequo.htm.
- Microcredit Coop, tel./fax 030/3730110.
- Banca popolare etica, tel. 049/8771111,
email: posta@bancaetica.com.
Internet: www.bancaetica.com.
- Il microcredito sul web:
www. microcreditsummit.org.
- Movimento dei focolari: tel. 06/947989; fax 06/949320; email: sif@focolare.org.
Una firma contro il sopruso.
Recentemente è stata lanciata anche la campagna «Sdebitarsi. Per un millennio senza debiti», l'iniziativa italiana collegata alla campagna internazionale «Jubilee 2000», chiede, per l'anno 2000, la cancellazione del debito estero ingiusto e impagabile dei paesi più poveri del mondo.
- Un'altra iniziativa è stata avviata da Mani tese perché si arrivi a una tassazione (Tobin tax) delle speculazioni finanziarie sia per limitare i danni che esse provacano ai poveri, sia per raccogliere risorse destinate a iniziative di sviluppo.
- Chi volesse approfondire gli argomenti qui trattati e avere ulteriori indicazioni per investire e consumare in modo etico il proprio denaro può leggere «Altreconomia», la rivista dell'economia solidale. Testata di proprietà del Consorzio Ctm-Altromercato, edita dalla cooperativa Spes (Servizi per un economia solidale) di Padova. Per informazioni: tel. 049/ 651865; email: ctmbz@altromercato.it; internet: www.altromercato.it.