«Nessuno tocchi caino»
«Nello spirito di clemenza che è proprio dell' anno giubilare, unisco ancora una volta la mia voce a quella di quanti chiedono che non si tolga la vita al giovane Derek Rocco Barnabei»: è l' ap-pello rivolto da Giovanni Paolo II nell' udienza generale del 13 settembre scorso. Abbiamo atteso sino alla fine per scrivere questo editoriale, nella speranza che l' appello del Papa fosse accolto e un preciso segnale provenisse dalla Virginia, Usa.
Un segno è giunto, ma diverso da quello che molti speravano. Puntuale, secondo lo schema di una «liturgia» tanto fredda quanto perfetta nella sua organizzazione, alle 21,05 (corrispondenti alle 3,05, ore italiane) del 14 settembre 2000, Rocco Derek Barnabei finiva la sua esistenza nel braccio della morte del carcere di Jarratt. Era la sessantottesima vittima quest' anno, negli Stati Uniti, della pena di morte (diverse altre migliaia sono stati eliminati con la pena capitale in altri paesi dove ancora vige).
Il portavoce del carcere ne dava poco dopo burocratica comunicazione. E così giustizia è stata fatta. Si concludeva in questo modo una vicenda sulla quale siamo stati abbondantemente informati con dovizia di particolari: dal capo di abbigliamento offertogli dalla direzione penitenziaria, all' ultimo suo pasto... Un mix di cronaca, di curiosità , di simboli, di rituali che mettevano in risalto culture giuridiche e sociali diverse dalle nostre.
Ora i fari si sono spenti su questa vicenda per riaccendersi su altri avvenimenti, su altri casi. È la vita che continua. Solo che la vicenda ci ha fornito un altro «eroe» simbolico. E questi eroi sono scomodi.
Non so se Barnabei fosse colpevole, come lo ha giudicato il tribunale o innocente, come si è proclamato lui stesso sino alla fine. Il suo caso è divenuto simbolo di una battaglia che proclama l' «ingiustizia» di una giustizia che prevede di punire i colpevoli di gravi reati togliendo loro la vita. Comunque, senza possibilità di remissione. Dietro il volto e il nome di Rocco Barnabei, ci sono altre centinaia di detenuti in attesa di essere giustiziati negli Stati Uniti, e migliaia di altre prossime vittime della «giustizia», rinchiuse nelle carceri di molti, troppi paesi del mondo, che ancora si affidano alla pena di morte per riparare la giustizia ferita e per tenere i cittadini lontani dalle vie del delitto. Dati di Amnesty International parlano di 2701 esecuzioni in Cina nel 1998. E quanti nei paesi arabi?
Alcuni commentatori hanno sottolineato la diversa cultura giuridica vigente negli Usa, ispiratrice di scelte tanto drastiche, rifiutate da altre culture, come la nostra, che hanno da tempo abolito la pena di morte, ritenendola un' inefficace crudeltà . Scelta peraltro fatta anche da alcuni stati della stessa Federazione nordamericana. Una diversità tale da non poter essere rimossa?
Possiamo chiedere ad alta voce agli Stati Uniti un cambiamento di rotta, perché sappiamo che sono un paese di grande democrazia, le cui radici affondano nell' Europa che tale pena ha già abolita, nel rispetto del diritto fondamentale della persona alla vita.
Come cattolici non possiamo negare l' imbarazzo nel leggere la proposizione presente nel Catechismo cattolico (n. 2266), secondo la quale, in casi di «estrema gravità » tale pena può anche essere prevista. Sappiamo che non è sempre facile sostenere l' abolizione della pena di morte, particolarmente di fronte a episodi di violenza efferata e inutile, ai quali abbiamo assistito anche di recente.
Il dovere di «non toccare Caino» non significa certo dimenticare i diritti di Abele.
Sentendolo come un segno giubilare di conversione e rinnovamento, avevamo dato l' adesione. lo scorso anno, alla campagna lanciata dalla Comunità di sant' Egidio per una moratoria della pena di morte. La rinnoviamo anche se «ne hanno portato via un altro, un amico che non rivedrò più. Troppe cose a catena non vanno, troppe per poterle contare. Non riesco più a sopportarle... E tu?» (Dominique Green, 26 anni, condannato a morte nel Texas, otto anni fa).