Pediatria: l'ospedale si mette in gioco
È duro visitare un reparto di oncologia pediatrica, specie se hai figli di quell'età , specie se è Natale. Poi, visto che sei là , ti invitano alla festa della Befana. Ci vai pensando che non si possa ridere con una flebo nel braccio o la testina calva per la chemioterapia. E invece scopri che proprio lì, la voglia di giocare, di ridere, di divertirsi può essere ancora più forte. Scopri che nel gioco non c'è spazio per la tristezza o per la paura, perché il gioco per un bambino è la vita, ciò che lo riporta, per incanto, alla normalità .
Un miracolo che si rinnova ogni giorno nei reparti pediatrici di mezza Italia, grazie alla nuova consapevolezza di medici e infermieri e grazie anche a tante iniziative: dalle ludoteche al clown in corsia, dai muri disegnati agli animaletti della pet-therapy.
Il «camice bianco» non è più lo specialista asettico e distaccato, l'ospedale non è solo il luogo di cura del corpo. Finalmente, ci si è resi conto che per un bambino ricoverato, poter giocare, colorare, studiare persino, è davvero una questione di vita. Perché è provato che un bambino più sereno collabora di più e reagisce meglio alle cure.
Ma non è stato sempre così. Fino a qualche decennio fa, un ricovero in ospedale provocava nel bambino un trauma, spesso difficile da superare. I genitori accompagnavano il bambino in ospedale e lo rivedevano il giorno dopo solo nell'ora delle visite: «È stato un filmato degli anni '50 - un vero video choc, in cui apparivano bambini in ospedali inglesi lasciati soli a piangere per ore - a dare il via a un ripensamento della pediatria. In Italia, si dovette attendere fino agli inizi degli anni '70 per i primi tentativi di creare un ospedale a misura di bambino», spiega Michele Capurso , responsabile del settore formazione per l'Associazione gioco studio in ospedale, presso l'ospedale Gaslini di Genova.
Un'opera portata avanti, soprattutto in una fase iniziale, dagli ospedali pediatrici più importanti: dal Gaslini di Genova al Meyer di Firenze, dal Salesi di Ancona al Regina Margherita di Torino, dalla Clinica pediatrica di Padova al Bambin Gesù di Roma.
«Il cambiamento - sostiene il professor Gianni Biondi , responsabile del servizio di psicologia pediatrica proprio al Bambin Gesù - è avvenuto per gradi. Dapprima si è creato un clima culturale più attento ai bisogni dei bambini (si pensi alla Carta Onu dei diritti dei bambini, o alla Carta dei diritti del bambino malato) e poi sono arrivate le scoperte medico-scientifiche, basate sulla constatazione che bambini trattati in un modo più rispondente ai loro bisogni, reagivano meglio alle cure e presentavano meno problemi psicologici a breve e a lungo termine».
Il ricovero, la prima frattura
Ma che cosa accade nella psiche di un bambino che all'improvviso si ritrova in una stanza d'ospedale?.«Il bambino vive normalmente, pur con differenze legate all'età , in un mondo fatto di routine , prevedibile in un certo senso - sottolinea ancora Capurso -. Con l'ingresso in ospedale, entra in un universo sconosciuto, dove orari, abitudini e ritmi sono nuovi e per lui imprevedibili. È una frattura destabilizzante. Poi, su questa si innestano elementi di paura, timore, sofferenze del tutto soggettivi, e si inserisce anche il sistema culturale della famiglia, perché culture differenti affrontano la malattia e l'ospedalizzazione in modo differente. Ecco allora che diventa importante permettere al bambino di manifestare le proprie emozioni: meglio sostituire frasi del tipo non devi piangere, che bloccano la libera manifestazione di ciò che prova, con capisco che hai paura, ma il papà o la mamma sono qui con te e non ti lasceranno solo».
Anche lo stesso ospedale può fare molto per aiutare un bambino a vivere il più serenamente possibile l'esperienza del ricovero. «Il primo aiuto che gli si può dare - aggiunge Biondi - è sintetizzabile nella cosiddetta regola delle tre A: accoglienza, ascolto, accompagnamento, tre aspetti fondamentali, che permettono un inserimento dolce nella dinamica dell'ospedale. Poi, è importante che il bambino, in base alla sua età , venga informato su quanto gli sta accadendo e su che cosa gli verrà fatto: la mancanza di informazioni provoca ansia e paura. Il piccolo va, invece, coinvolto, condividendo con lui ogni momento difficile, spiegandogli per esempio che gli faranno una puntura, ma che se lui sta calmo, anche il dolore sarà minore. Attenzione, poi, ai bambini saggi, quelli cioè che non protestano, non piangono, non si lamentano: non rendono visibile la loro sofferenza e non consentono così agli adulti di aiutarli».
Il gioco, risorsa importante
In questi anni si sono moltiplicate le iniziative all'interno dei reparti: clown, pet-therapy , cioè la terapia tramite il contatto con piccoli animali, e poi la musicoterapia, il teatro, la scuola.
Importantissima anche la presenza dei volontari, un «vero appoggio pure per i genitori - afferma Biondi - che, grazie a loro, riescono a prendersi una piccola pausa o ad essere aiutati in cose pratiche, come lavare i pigiamini o procurare dei giochi. Sono i volontari, per esempio, che animano le feste e portano l'atmosfera natalizia nei reparti».
Tutti segni della nuova sensibilità , un valore aggiunto che facilita la cura. Tante luci, che nascondono, però, anche alcune ombre: «Ogni esperienza è buona solo se non frastorna il bambino, non intralcia le cure, è secondo le sue necessità - chiarisce Biondi -. In ospedale non si deve agire estemporaneamente: i bambini hanno bisogno di continuità , di attenzione, di avere l'aiuto quando ne hanno bisogno. Le migliori esperienze si strutturano a progetto, in stretta collaborazione con il personale del reparto. È inutile che venga una persona di tanto in tanto, solo quando ha tempo, e magari si rifiuti di andare in alcuni reparti».
Insomma, ogni esperienza in ospedale deve essere organizzata in maniera professionale, persino quella dei volontari.
Ne è convinta la dottoressa Wilma De Bernardi, volontaria e coordinatrice dei dottori clown per la Fondazione Aldo Garavaglia «Dottor Sorriso»: «Purtroppo, alcuni primari aprono le corsie a tutti, non si preoccupano di selezionare, per cui si perde il valore del lavoro fatto. I nostri dottor Sorriso, non sono solo attori, mimi, maghi, ma sono formati in materie specifiche: psicologia, dinamiche familiari, norme igieniche. Soprattutto, non deve loro mancare la dote principale che è la sensibilità , la capacità di cogliere il problema, il disagio, di interagire con il contesto e d'improvvisare per ogni singolo bambino l'intervento più adatto. È un lavoro delicatissimo, che esige il tempo pieno. Per questo i nostri operatori sono stipendiati».
Grazie all'aiuto dei clown, si possono ottenere miracoli: «Marco si rifiutava di mangiare e alzarsi dal letto. Il medico ha chiesto l'intervento del clown , la caposala l'ha chiamato e informato, lui ha studiato il caso; poi si è truccato e si è presentato a un Marco imbronciato e per nulla disponibile. Non lo so come ha fatto, ma alla fine Marco si è alzato e ha mangiato. I medici erano sbalorditi», conclude De Bernardi.
Se fatta bene, secondo un progetto, anche la scuola in ospedale ha un grande potere terapeutico. Serve a trasmettere normalità in una situazione anomala, a ricollegare il bambino alla vita precedente, quando non era malato ed era in classe con i suoi compagni». Il messaggio tra le righe è importantissimo: «Sei in un posto in cui ti stanno guarendo, preparati, perché uscirai di qua e tornerai a scuola tra i tuoi compagni», afferma Biondi.
Queste esperienze sono ancora più importanti quando la medicina non può più aiutare: «Elena purtroppo se ne è andata la settimana scorsa - racconta De Bernardi - . Stava malissimo, eppure ha aspettato il dottor Sorriso. Quando l'ha visto, il suo volto si è illuminato, ha voluto alzarsi e cantare con lui. Era davvero felice. Me l'ha detto il suo clown , piangendo».