«Perché a te Antonio?»

26 Gennaio 2010 | di

«Perché a te, Antonio?»


Fernando da Lisbona/Antonio di Padova tutti questi presupposti li aveva. Di nobile e importante famiglia, dotto intellettuale formatosi in luoghi di grande cultura, di bell’aspetto, dalla voce forte e suadente. Tanti motivi per essere un trascinatore. Ma non sono queste le ragioni del «perché a te, Antonio?».

Ci sono vari motivi che spiegano la «fortuna» della devozione per sant’Antonio. Una devozione che ha travalicato i confini dell’Italia, ritrovandosi nei luoghi più impensati – cristiani e non –, che ha superato il tempo – più di ottocento anni – e che continua a essere viva e profonda, senza nascondersi contaminazioni dal sapore a volte quasi magico.

Ci sono come due volti di questo Santo, che di rado si incrociano. L’Antonio della storia – quello raffigurato con il libro in mano – il predicatore instancabile, il dotto maestro di teologia nella prima scuola francescana che interessa soprattutto storici e teologi. E poi c’è l’Antonio della devozione popolare – giovane frate, dal volto accogliente, con il Bambino Gesù in braccio –, quello che attira, che convince, presente in moltissimi luoghi di culto. È il «nostro» sant’Antonio!

I miracoli riportati per la sua canonizzazione sono tutti rivolti a poveri, donne, bambini. Categorie off-limits della società medievale. C’è una santità conosciuta da Dio (e quanti sono santi noti solo a Lui) e c’è una santità «costruita». Alle spalle di questa costruzione esiste una rete di rapporti e interessi, che ne divulga il culto e la devozione. Agli inizi è tutta Padova che chiede la canonizzazione – avvenuta in nemmeno un anno – di questo semplice frate Minore venuto da lontano, tracimato dalle acque burrascose del Mediterraneo sulle coste italiane, vissuto per breve tempo nella città che lo adotta come «padre e protettore». E poi ci sono i frati, nell’onore di avere un confratello santo (l’unico per molto tempo, insieme con san Francesco). E c’è la «gente», il popolo che percepisce dove c’è un vero uomo di Dio, a cui ricorrere come protettore, rifugio, amico sicuro.

La prima biografia di sant’Antonio, la Vita prima, nel descrivere quanti si accostavano alla sua tomba per chiedere guarigione e aiuto, parla di un santuario divenuto «nuova Gerusalemme», luogo di pellegrinaggio dove affluivano genti da tutte le parti, «da oriente e da occidente, da meridione e settentrione, in ordinate processioni». Allora, come oggi. E oggi ancor di più, in orizzonti che si sono dilatati. Da allora a oggi non hanno mutato sapore le lacrime della sofferenza, le domande e le fatiche dell’uomo, la gioia del grazie, lo stupore di sapere che c’è un santo capace di comprenderle, di accoglierle. E allora capiamo il «perché a te, Antonio?».



Pietà o fede popolare?

di don Paolo Giannoni, teologo


Un atteggiamento da padroni e giudici della fede si esprime nel fatto che spesso si parla di religiosità popolare, pietà popolare, devozione popolare. Sono termini che diminuiscono la verità e il valore della vita di fede del popolo.

La cosa trae origine anche dal fatto che gli studi sulla fede popolare non nascono in ambiente ecclesiale. Questo solo successivamente se ne interesserà per il fatto che la validità dell’espressione popolare conferma l’esperienza religiosa ecclesiale. La ricerca su questo tema nasce in ambiente antropologico-culturale. Gli studi sul Meridione d’Italia hanno posto attenzione all’esperienza religiosa popolare, ma ne hanno ac­centuato talmente gli aspetti di folklore, da ridurla a questo. Un altro interesse emerge all’interno della cultura marxista, che nelle esperienze religiose popolari vedeva una forma alternativa alla religione uf­ficiale.

Oggi tutto questo è superato. Eppure nell’ambiente colto ecclesiale la validità religiosa è misurata in termini di coscienza capace di definire ciò che è vissuto. Si privilegia la via della mente, con poca luce sulla via del cuore, con scarsa sensibilità per i simboli. Ma di nuovo in questo giudizio si fa presente quello dei farisei che rimproverano i soldati inviati ad arrestare Gesù (Gv 7,32), rimasti colpiti («nessun uomo ha parlato così», Gv 7,46): «Anche voi vi siete lasciati ingannare? C’è uno solo dei capi o dei farisei che gli abbia creduto? Ma questa gentaglia che non conosce la legge è maledetta» (Gv, 7,47-49).

Se invece si sta insieme alla gente, se ne colgono i valori. Nasce quell’atteggiamento pastorale essenziale che porta «il maestro a imparare dallo scolaro». Vanno via tutti i miti del «buon selvaggio», perché si constatano ignoranze e malversazioni (come d’altra parte in ambiente colto). Ma anche si capisce bene che all’acqua della rivelazione di Dio ognuno va con la propria tazza. La gente del popolo attinge con una tazza che sa della sua vita: una povertà che invoca, una fiducia che si affida, un’ammirazione che loda, un senso vivo della mediazione dei santi che sa che ogni santo – e in modo particolare sant’Antonio – con la sua vita è un vero e grande commento di Gesù-vangelo.

Se insieme al Vaticano II vediamo la rivelazione come una storia di incontro che nasce dalla volontà divina di comunione (Dei Verbum 2) e la fede come abbandono a questa volontà di amore e di comunione di Dio (Dei Verbum 5), noi possiamo comprendere che il Verbo si fa ancora carne nella carne della vita popolare e ogni gesto che vi corrisponde è una forma di fede.



Un Dio vicino

di Sabino Acquaviva, sociologo


Il culto dei santi, in apparenza sempre uguale a se stesso, ha subìto delle profonde trasformazioni. È accaduto altre volte nella storia del cristianesimo, ma all’alba del nuovo millennio forse i cambiamenti sono più radicali. Il dialogo fra la gente e la società è mutato, se non altro perché una società contadina è diventata industriale per poi trasformarsi ancora in un contesto sociale che molti definiscono postindustriale.

Nelle società contadine il rapporto fra il santo e la gente era più umano e immediato. A questo proposito è sufficiente pensare alla formazione di alcuni santuari nei pressi delle tombe dei santi, soprattutto perché la gente comune amava essere seppellita accanto a un santo. Questa vicinanza era sottolineata dalle giaculatorie per il raccolto, per gli oggetti smarriti, per ogni tipo di problema quotidiano e umano. Alla fine, per molti, in una sintesi (almeno da alcuni punti di vista) fra paganesimo e cristianesimo, la figura del santo, di un santo, finiva per essere (dal punto di vista psicologico) una presenza superiore a quella di Dio.

Ma quando e perché tutto questo è, almeno in parte, cambiato? Forse perché nell’ultimo secolo è nata una nuova civiltà, molto diversa dalle precedenti: il livello di istruzione è cresciuto, il sistema sociale e di classe si è trasformato, la rivoluzione tecnica e scientifica ha cambiato la nostra immagine del mondo. Un conto era invocare i santi in un mondo piccolo, con la terra al centro dell’universo, un altro conto pensare a un Dio che ha creato un universo composto da milioni di nebulose, ciascuna delle quali contiene miliardi di stelle.

La conseguenza più rilevante dal punto di vista religioso? Senza dubbio la crescita dell’importanza di Dio come Padre creatore dell’universo. Senza che i singoli individui ne prendano coscienza sino in fondo, il rapporto con la religione si trasforma. Certamente san Pio da Pietrelcina e Teresa di Calcutta sono dei simboli che ripropongono le figure dei santi, dei miracoli, dei mediatori fra la donna, l’uomo e Dio. Ma tutto questo in maniera differente. Naturalmente rimangono dominanti le figure dei grandi santi, come sant’Antonio e san Francesco, ma sono eguali e insieme diverse rispetto al passato. Eguali a quelle cui si rivolgeva il contadino di un tempo, diverse per un essere umano che sa di vivere in un universo espressione dell’opera di un Padre che ha creato miliardi di stelle.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017