Polveriera Ucraina
Da un anno e mezzo la vicenda ucraina è al centro del dibattito internazionale, ma la drammatica realtà dei fatti è avvolta in una ragnatela di menzogne e mistificazioni che rende difficile capire cosa stia succedendo e quale sia la posta in gioco. Tutto comincia nel novembre del 2013 con le manifestazioni di protesta a Kiev contro l’improvviso voltafaccia del presidente Yanukovich che si rifiuta di sottoscrivere l’Accordo di associazione con l’Unione europea. Ma questa è solo una mezza verità. La protesta inizialmente coinvolge solo poche migliaia di persone.
Diventerà massiccia dopo che, nella notte tra il 29 e il 30 novembre, la polizia usa la forza contro i dimostranti per sgomberare piazza Indipendenza, cuore della capitale e luogo simbolo delle rivolte anti-governative. Alla radice della grande mobilitazione c’è soprattutto la rabbia contro un potere corrotto, autoritario e violento. Qualcosa di simile c’era già stato con la «rivoluzione arancione» del 2004, ma i suoi protagonisti si auto-distrussero in lotte intestine, così che alla fine il grande sconfitto della rivolta colorata, Viktor Yanukovich, tornò a dominare la scena politica.
È lui, con la sua cricca clientelare, il nemico giurato della piazza, «Majdan» in ucraino, che dal 1˚ dicembre 2013 torna a riempirsi e diventa sinonimo della rivolta. È una piazza pacifica e variegata di famigliole e di ragazzi, oppositori di destra e di sinistra, cattolici e ortodossi, gente dell’Est e dell’Ovest. Tutti uniti nel chiedere le dimissioni del presidente. Resteranno lì per tre lunghi mesi, sfidando il gelo dell’inverno e le cariche dei Berkut, gli agenti anti-sommossa. Una fonte non sospetta come l’agenzia russa «Interfax» parla di 200 mila dimostranti che occupano la piazza. A gennaio 2014 si segnalano le prime vittime della repressione, a Majdan compaiono gruppi paramilitari di «Pravi Sektor», il Settore destro, e si moltiplicano gli scontri con la polizia.
La situazione precipita tra il 18 e il 20 febbraio, allorché, in mezzo al blu delle bandiere filo-europeiste, si fanno largo i giubbotti neri degli estremisti, armati di spranghe e di molotov; la polizia risponde con granate e blindati, scendono in campo per la prima volta anche reparti dell’esercito. È un bagno di sangue, i morti sono un centinaio tra i quali una decina di poliziotti. Sull’identità dei cecchini che sparavano sulla folla sono circolate diverse versioni, tra le quali una che attribuisce la strage agli stessi manifestanti (ma la dottoressa che avrebbe fatto simili rivelazioni ha poi smentito categoricamente). Secondo una giornalista di Kiev, Sonia Koshkina, che ha condotto una ricerca dettagliata, a entrare in azione sarebbero stati agenti dei servizi segreti ucraini appoggiati da colleghi russi. Yanukovich è con le spalle al muro e sottoscrive con i capi dell’opposizione un accordo per elezioni anticipate. Ma il giorno dopo, il 22 febbraio, scappa da Kiev e compare a Kharkiv, nell’Est del Paese, dove chiama inutilmente i suoi alla riscossa, quindi si rifugia in Russia. Nelle stesse ore viene destituito dal parlamento. Dalla sequenza dei fatti si può ben capire che la tesi del «colpo di Stato» non ha alcun fondamento: il presidente ucraino è fuggito prima che venisse destituito, probabilmente perché ormai si era accorto che Putin l’aveva abbandonato.
Da quel momento entra in scena la Russia che muove l’esercito.
Questione Crimea Sul fragile scacchiere ucraino la prima pedina a cadere è la Crimea, la penisola sul Mar Nero abitata in maggioranza da russi. Il 1˚ marzo 2014 militari senza uniforme, i cosiddetti «omini verdi», occupano la regione che fino al 1954 aveva fatto parte della Russia. Con la sua tipica doppiezza Vladimir Putin ammetterà qualche giorno più tardi quel che aveva fermamente negato all’inizio, e cioè che gli «omini verdi» erano in realtà soldati dell’esercito russo. Un anno dopo confesserà candidamente d’aver organizzato l’invasione ben prima del 16 marzo 2014, quando si tenne il referendum-farsa in Crimea. Precisando che lui era pronto a mettere in allerta le rampe nucleari nel caso di una reazione da parte occidentale. Affermazione inquietante che aggiunge cinismo all’arroganza. Beninteso: la Russia ha sempre avuto forti legami con la Crimea, ma con il Memorandum del 1994 riconobbe la sua appartenenza all’Ucraina, la quale a sua volta accettò di trasferire i propri arsenali nucleari a Mosca e concesse la disponibilità della base navale di Sebastopoli alla flotta russa. Dunque non c’è dubbio che l’annessione della Crimea costituisca una chiara violazione della legalità internazionale, un vero e proprio «Anschluss» (annessione, ndr).
Ma per Putin «l’Ucraina non è uno Stato» (lo disse una volta al presidente americano Bush), quindi nulla impedisce che venga spogliata di altre regioni. Un mese dopo l’invasione della Crimea, in varie città dell’Ucraina orientale si tengono manifestazioni contro il governo «criminale» di Kiev e a favore della secessione filo-russa. In realtà non risulta alcuna politica di discriminazione da parte del nuovo esecutivo rivoluzionario. L’unico passo falso è stata l’abolizione del russo come lingua ufficiale, una decisione a caldo del parlamento, che però non entrerà mai in vigore. Ma ormai i rivoltosi sono all’attacco, a Donetsk e Lugansk i separatisti proclamano la nascita di «Repubbliche popolari» indipendenti dall’Ucraina.
Ai tempi degli zar quei territori si chiamavano «Novorossja», Nuova Russia, un termine che Putin rilancia in diretta tv annotando: «Non si capisce perché sia finita sotto l’Ucraina». È l’imprimatur del Cremlino al secessionismo delle due regioni dove le milizie separatiste si scontrano con i reparti dell’esercito inviato da Kiev. Divampa la guerra che finora ha lasciato sul terreno 6 mila morti e provocato 1 milione e 700 mila profughi. Una tragedia che ha scosso il mondo con l’abbattimento dell’aereo civile della Malaysia Airlines il 17 luglio del 2014 e la morte di tutti i 298 passeggeri a bordo (è probabile che la causa sia stata il lancio di un missile terra-aria da parte dei ribelli, i quali proprio nelle stesse ore si vantavano d’aver colpito un jet dell’aviazione militare ucraina).
Mosca nega di essere coinvolta nel conflitto, ma anche il più ingenuo osservatore non può evitare di chiedersi da dove provengano i sofisticati armamenti in dotazione ai separatisti se non dalle incessanti forniture dell’esercito russo, presente sul terreno con consiglieri e militari che il Cremlino si ostina a definire volontari. È la «guerra ibrida» di propaganda e truppe camuffate che il malconcio esercito ucraino, al di là delle altisonanti dichiarazioni del presidente Poroshenko, non riesce a fronteggiare. E la recente decisione di alcuni Paesi occidentali di rifornirlo di armi letali non farà altro che aggravare la situazione. Nulla, infatti, garantisce che la fragile tregua, siglata a Minsk il 12 febbraio e segnata da continue violazioni, sfoci in una pace duratura. Nelle province ribelli la situazione è catastrofica.
L’Ucraina resta un Paese smembrato e svenato dalla guerra, sospeso al prestito del Fondo monetario internazionale di 17 miliardi di dollari, in lotta con oligarchie e corruzione, mentre la Russia ha consolidato le sue conquiste territoriali in uno Stato vicino. Né le sanzioni economiche decise dall’Unione europea e dagli Stati Uniti né la grave crisi economica che ha investito la Russia sono servite a far cambiare atteggiamento a Putin. È lui l’aggressore ma si presenta come vittima, minacciato dall’Occidente e accerchiato dalla Nato.
Una narrazione che purtroppo ha fatto breccia anche nell’opinione pubblica di casa nostra. Varrà la pena ricordare che l’allargamento della Nato a Est è avvenuto non ieri ma quindici anni fa per decisione autonoma dei Paesi ex comunisti e non per una volontà aggressiva dell’Occidente. La realtà è che, destabilizzando l’Ucraina, Putin intende rimettere in discussione l’Europa uscita dalla Guerra Fredda. Anche a prezzo di una nuova guerra calda ai confini dell’ex impero sovietico. ZOOML’Ucraina, una storia sofferta
L’Ucraina è uno Stato indipendente dal 1991, quando si dissolse l’Unione Sovietica, mentre i legami culturali e religiosi con la Russia risalgono a oltre un millennio fa con la nascita della Rus’ di Kiev che segna la conversione di quei popoli al cristianesimo. Le vicende seguenti mostrano l’intreccio tra due nazioni affini ma diverse. Vista da Mosca si tratta di una dinamica unitaria che si svolge sotto l’egida della Grande Russia e ingloba anche la «Piccola Russia», l’Ucraina appunto. A Kiev invece si sottolinea la volontà di emancipazione del popolo ucraino dal Grande Fratello. La sua storia parla d’invasori mongoli e cosacchi, di dominio polacco e d’impero austro-ungarico, di occupazione nazista e sovietica. Di fatto è un Paese dall’identità «plurale»: nelle regioni occidentali si percepisce un senso di fierezza nazionale mentre nella parte orientale, sottoposta a un processo di russificazione intensiva, sono forti i legami con Mosca. Come dice il suo stesso nome, l’Ucraina è una «terra di confine». Ma fino a pochi mesi fa questa complessità storico-culturale non aveva mai dato origine a uno scontro etnico. La maggior parte delle famiglie è d’origine mista, ci sono ucraini dell’Ovest che parlano tranquillamente russo, mentre all’Est ci sono russofoni che non per questo si sentono «russofili» ma amano la loro patria.
L’Ucraina è una nazione che ha sofferto molto: la terribile carestia degli anni Trenta dovuta alla collettivizzazione forzata delle campagne ordinata da Stalin, poi la dura repressione degli «uniati», i cattolici di rito orientale, infine il disastro nucleare di Chernobyl. Divenuta indipendente, aveva grandi speranze andate presto deluse. A differenza di altri Paesi ex comunisti che abbracciarono rapidamente la via delle riforme, l’Ucraina è sempre rimasta a metà del guado, con finte privatizzazioni a vantaggio della vecchia Nomenklatura e con un sistema di potere che si è spogliato dell’ideologia comunista mantenendo lo stesso stile di comando basato sull’arbitrio e sulla corruzione.
(L.G.)