Porgi l'altra guancia?
Mi è capitato di leggere, di recente, un articolo di Gilbert Keith Chesterton, celebre scrittore, giornalista e intellettuale inglese. In uno dei suoi ultimi scritti, redatto nel 1936, pochi mesi prima della morte, espresse un severo giudizio sul pacifismo: gli uomini «sembrano essersi messi in capo la strana idea che in tutte le circostanze immaginabili potrebbero conservare tutte le proprie cose esclusivamente e unicamente rifiutando di difenderle. Sembra persino che sarebbero capaci di metter fine a tutto il regno della violenza e dell’orgoglio semplicemente non facendo nulla. Ma sarà bene per tutti se tutti abbandoneranno tale illusione».
In effetti, si tratta di una delle accuse che viene mossa, anche oggi, a certi settori del mondo cattolico impegnati nelle periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo, quella, cioè, di assecondare l’ingenua mentalità del cosiddetto «buonismo». Un approccio spirituale arrendevole che, alla prova dei fatti, non avrebbe nulla a che vedere con quanto predicato nel Vangelo: essere, cioè, candidi come colombe, ma anche furbi come serpenti.
A questo proposito sarebbe auspicabile, una volta per tutte, chiarire il vero significato di una delle più profetiche raccomandazioni attribuite a Nostro Signore: «Porgere l’altra guancia». In effetti, l’invito del Maestro non significa affatto assumere un atteggiamento arrendevole e di sottomissione, non significa passività di fronte all’offesa, come erroneamente si crede. «Porgere l’altra guancia» palesa, invece, l’impegno di interrompere il circolo vizioso della violenza. Uno schiavo, ai tempi di Gesù, veniva colpito in volto dal suo padrone con il dorso della mano, perché quest’ultimo non avesse a sporcarsi le mani. La guancia colpita era dunque la guancia destra, tranne nel caso in cui il padrone non fosse stato mancino.
«Porgere l’altra guancia», cioè la sinistra, a quel tempo significava costringere il padrone a colpire con il palmo della mano e, quindi, a «sporcarsi» le mani, cosa che un pio israelita benestante non avrebbe mai fatto. Il voltare il viso dall’altra parte per porgere la guancia opposta era un modo per impedire all’aggressore di colpire ancora, per interrompere il sistema, per costringere il potente a fermarsi.
Oggi siamo chiamati, come cristiani, a fare questo: impedire al male di prendere il sopravvento. E non con la violenza che incattivisce ancora di più gli animi, ma attraverso quei tanti piccoli accorgimenti che possiamo adottare nella nostra vita quotidiana. Essi hanno in sé la forza di sabotare le azioni perverse dei violenti. Dai tempi di Caino e Abele vi sono state, nella storia umana, situazioni di prevaricazione, in cui una parte ha preso il sopravvento sull’altra, addirittura, in alcuni casi, sopprimendola.
Questo fenomeno esige, nella nostra società contemporanea, una decisa assunzione di responsabilità. Da un lato occorre denunciare e far emergere senza ipocrisie e finzioni le logiche di potere e di dominio delle coscienze perseguite per secoli. Una «malattia mortale» e, al tempo stesso, un «tragico paradosso» se pensiamo che le religioni dovrebbero essere promotrici della crescita spirituale dell’umanità.
Al contempo, però, non possiamo fare a meno di comprendere che i carnefici non sempre dichiarano apertamente la loro ostilità. Proprio come nel caso dello sfruttamento economico di tanti poveri ai quali vengono negati i diritti fondamentali.
Un’inquietudine e un disagio crescenti, allora, pervadono l’intelligenza delle persone di buona volontà che si confrontano ogni giorno con le sfide complesse del Terzo Millennio, testimoniando i valori del Regno di Dio. Una cosa è certa: come ci ha ricordato ripetutamente papa Francesco nel corso dell’anno giubilare, a ogni credente spetta il compito di rivelare il volto misericordioso del Padre.
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