Quel mal di testa che non passa mai

Dal tarlo alla tempia alla fitta alla schiena, il dolore cronico è una patologia ancora poco conosciuta che non si misura con semplici esami strumentali. Eppure, in Italia, sono tanti a soffrire di questo male invisibile dalle mille sfaccettature.
01 Novembre 2013 | di

È una tortura continua, che devasta la vita delle persone, fino a compromettere i rapporti interpersonali e familiari, la produttività sul lavoro e, talvolta, l’impiego stesso. Eppure, il dolore cronico non si misura con esami del sangue o strumentali, la sua valutazione è affidata a scale di intensità che perfino molti medici non sono in grado di utilizzare al meglio. Per questo, il sospetto che una persona esageri, o non si sforzi abbastanza di sopportare un disagio che per altri sarebbe tollerabile, è sempre in agguato. Ecco perché circa l’11 per cento dei pazienti a cui l’anno scorso, nell’ambito di un’inchiesta, è stato domandato per quale ragione si fossero rivolti a un centro specializzato nella terapia del dolore ha risposto: «Per essere creduto». Ma di che dolore si sta parlando? Si possono mettere sullo stesso piano il mal di schiena e il mal di testa, quello provocato dal cancro o da una malattia ginecologica – come l’endometriosi – dalla sindrome del colon irritabile o dai disturbi dell’articolazione della mandibola? «Assolutamente sì – risponde Paolo Marchettini, docente di fisiopatologia e terapia del dolore all’Università Vita-Salute del San Raf­faele di Milano e all’Università della Svizzera italiana di Lugano – perché, indipendentemente dalla causa iniziale che lo ha provocato, il dolore, quando si fa cronico, diventa una vera e propria patologia a sé, da trattare in relazione alla sua intensità e alle sue caratteristiche, non alla sua origine».

Il dolore acuto è, infatti, un campanello d’allarme che mette in guardia l’organismo da un danno che una sua parte sta subendo, per un trauma o per una malattia sottostante. Ma quando il disturbo persiste per settimane o mesi, il sintomo perde questa funzione di segnale e si autoalimenta in un drammatico circolo vizioso. È come se i nervi che trasmettono l’impulso doloroso al cervello si allenassero – esattamente come succede ai muscoli con l’esercizio – a farlo in maniera sempre più rapida ed efficiente. Il cervello, da parte sua, diventa più sensibile a queste sollecitazioni; la mancanza di sonno, la depressione, lo scoraggiamento, l’ansia e tutte le componenti psicologiche che rielaborano lo stimolo nervoso ai livelli superiori della coscienza fanno il resto, amplificando le sensazioni negative.  A caccia di un motivo Esistono società scientifiche, riviste, congressi, pubblicazioni appositamente dedicati al dolore in sé, da qualunque cosa esso sia provocato. Tra questi c’è il Congresso mondiale organizzato dall’International Association for the Study of Pain che l’estate scorsa, a Milano, ha ospitato più di 7 mila esperti provenienti da oltre centodieci Paesi del mondo. Quesito pregnante, cui il comitato organizzatore – presieduto da Paolo Marchettini – ha cercato di dare spiegazione, è stato come studiare questo sintomo sfuggente ai comuni strumenti di diagnosi. Le moderne tecniche di imaging cerebrale, come la risonanza magnetica «funzionale» (fMRI), consentono oggi di vedere non solo le strutture cerebrali, ma anche il loro funzionamento. Quindi, riescono a identificare le aree più importanti da cui nasce il dolore e studiano come altre zone si attivino di conseguenza, generando ansia, depressione, aspettative negative che peggiorano il vissuto dei malati. Altre tecniche sofisticate permettono di mettere in evidenza alterazioni nel metabolismo dei neurotrasmettitori nel cervello, di quelle sostanze cioè che attivano o inibiscono determinati circuiti cerebrali.

«In alcune forme di dolore cronico sono state individuate concentrazioni inferiori alla norma di serotonina, importante mediatore dell’umore e, quindi, bersaglio di molti farmaci antidepressivi – prosegue Marchettini –. La fibromialgia, per esempio, veniva liquidata da molti medici come “male immaginario”: i pazienti lamentano dolori diffusi, ma nessun esame risulta alterato. Oggi sappiamo che, anche in questi casi, c’è una carenza di serotonina, ed è per questo che la cura comprende antidepressivi, non perché non si voglia credere ai malati».  Lo stress infiamma Secondo molti esperti, lo stress, le difficoltà della vita, il malessere sul lavoro, favoriscono l’insorgenza o la cronicizzazione di alcune forme di dolore, soprattutto viscerale. «In questo periodo di crisi, aumentano i casi di disturbi all’intestino e alla vescica: il loro svuotamento è una risposta fisiologica a una situazione di minaccia e di pericolo.

Quando poi lo stress persiste a lungo – aggiunge Marchettini –, alla semplice contrazione dell’organo si sommano fenomeni di infiammazione e congestione con coliti e cistiti anche molto dolorose». Lo stress innesca il dolore, che a sua volta alimenta il disagio. Quest’idea integrata della sofferenza, che non è solo prodotta dallo stimolo in sé, ma dalla sua rielaborazione ai livelli più alti del sistema nervoso, spiega quindi l’utilità di aggiungere agli antidolorifici altri tipi di farmaci. Intervenire sulla depressione, sull’ansia e sulla privazione di sonno può spezzare, almeno in parte, il circolo vizioso che alimenta l’esacerbazione del sintomo.

«Oltre a questi meccanismi di amplificazione, il nostro sistema nervoso dispone anche di vie naturali che inibiscono la trasmissione del dolore – sottolinea il medico milanese –. Se siamo spaventati o ansiosi non riusciamo a sfruttare al meglio questi meccanismi endogeni per lenire il dolore, che invece si possono evocare in vari modi, come insegnano l’agopuntura, certe forme di manipolazione e la cura ayurvedica». La medicina ufficiale è scettica, ma ha dimostrato ormai che anche il cosiddetto effetto placebo non è un’autosuggestione. Anzi, secondo autorevoli ricerche, attiva nell’organismo la produzione delle endorfine, sostanze naturali che agiscono come la morfina nel ridurre la percezione del dolore. «Perciò – aggiunge Marchettini – il rapporto tra medico e paziente è importante». Ma, in questo mare di specialisti, a chi dobbiamo rivolgerci quando il disturbo non passa? Il primo referente è il medico di famiglia, cui spetta di capire se occorrano accertamenti per individuare eventuali cause che si possano rimuovere, con i farmaci o con un intervento chirurgico. Attenzione, però, a non correre subito dal neurochirurgo o dall’ortopedico, quando gli esami mostrano che all’origine del mal di schiena c’è un’ernia del disco. Nella maggioranza dei casi ci vuole pazienza. Con l’aiuto di farmaci e fisioterapia il dolore passa.  Cefalea a orario continuato

Una delle più comuni cause di sofferenza cronica è senz’altro il mal di testa. «Circa la metà della popolazione soffre di cefalea almeno una volta l’anno, ma il 3 per cento ce l’ha in forma cronica, cioè ne è colpito almeno quindici giorni al mese – riprende Marchettini –. Il disturbo è più frequente nei giovani adulti nel pieno della loro attività professionale, su cui si ripercuote a volte in maniera molto grave». Ma riguarda anche quasi otto bambini e adolescenti su cento.

Se il dolore, di qualunque natura, non si risolve con le normali cure prescritte dal medico di famiglia, è meglio rivolgersi a un centro per la terapia del dolore, che invece troppo spesso si collega per associazione di idee alle cure palliative contro il cancro. «In realtà, in sette casi su dieci un dolore cronico, anche intenso, ha cause del tutto benigne – spiega Marta Gentili, presidente dell’associazione “Vivere senza dolore” –, ma non per questo non deve essere trattato a dovere». La legge 38 sulla terapia del dolore e le cure palliative, introdotta nel 2010, lo dice chiaramente: anche i farmaci più forti, quelli a base di oppioidi, non devono essere riservati ai malati di cancro, ma a tutti coloro che ne hanno bisogno, perché la loro sofferenza, da moderata a intensa, non si può controllare in altro modo. Da un’indagine condotta recentemente in quindici grandi ospedali italiani, tutti sedi di centri ad alta specializzazione per la terapia del dolore, risulta però che questa idea non è ancora passata nella mentalità comune, nemmeno tra i medici. Dall’inchiesta, coordinata dall’associazione «Vivere senza dolore», emerge che solo uno su quattro è a conoscenza di questo cambiamento nella normativa, che tra l’altro riflette le indicazioni delle linee guida internazionali per il trattamento del dolore. Inoltre, «un terzo dei medici ospedalieri intervistati – aggiunge Marta Gentili – non sa nemmeno che molti farmaci oppioidi, per i quali un tempo occorreva un ricettario speciale, oggi possono essere prescritti su quello normale del Sistema sanitario nazionale».  Il sollievo viene dagli oppiacei È inutile negarlo, i farmaci oppiacei fanno paura. «In Italia ci sono ancora molte resistenze, da parte dei malati e delle famiglie – sostiene Cristina Mantica, oncologa dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano – come se un malato che ha bisogno di questi medicinali, anche in maniera cronica, diventasse in qualche modo un “drogato”. Non è così, e bisogna ribadirlo con forza». Certo, non sono farmaci da prendere con leggerezza, ed è bene che la loro prescrizione, pur liberalizzata, sia effettuata tenendo conto dei singoli casi. «Il loro consumo pro capite è considerato dall’Organizzazione mondiale della sanità come indicatore di un buon sistema sanitario – interviene Guido Fanelli, primario di anestesia, rianimazione e terapia antalgica dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Parma e presidente della Commissione ministeriale sulla terapia del dolore e le cure palliative –. Sistema che fa di tutto per preservare la qualità di vita degli ammalati».

Cosa significa, dunque, l’allarme lanciato recentemente dagli organi di stampa, che segnala negli Stati Uniti decine di migliaia di morti per overdose di farmaci a base di oppiacei? Per Marta Gentili «è del tutto ingiustificato. Oltreoceano anche gli antidolorifici più forti sono venduti in flaconi da centinaia di compresse, cosa che da noi non è nemmeno pensabile». Ma ciò che separa il sistema sanitario italiano da quello Usa è soprattutto la mentalità: nel Belpaese l’idea di dover sopportare a oltranza è ancora molto più comune dell’abuso. «Dalla nostra indagine – continua la presidente dell’associazione “Vivere senza dolore” – emerge che quasi l’80 per cento dei pazienti che soffrono di dolore cronico oggi riceve medicine per tenerlo a bada, il 20 per cento in più rispetto alla rilevazione dell’anno scorso. Purtroppo, però, la cura è considerata inefficace dai diretti interessati in oltre il 40 per cento dei casi». Segno che c’è ancora molto da lavorare. L’accreditamento dei centri per la terapia del dolore, in corso in tutte le Regioni, dovrebbe permettere a chiunque ne avesse bisogno di accedervi e trovare, finalmente, un po’ di sollievo.    AssistenzaLa cura sul web Esistono numerosi centri per la terapia del dolore in Italia. Ciononostante, non figura ancora un loro elenco ufficiale. Ogni censimento è soggetto a continue variazioni, soprattutto in questo periodo in cui sono stati definiti i criteri di accreditamento con le Regioni. Per tenere d’occhio vecchie e nuove aperture sul territorio nazionale, consultate la lista aggiornata periodicamente sul sito www.viveresenzadolore.it  I numeri del dolore

Quanto costa soffrire Il dolore cronico come tale, che sia provocato dal cancro, dalla cefalea o dall’artrosi, ha un impatto economico e sociale enorme. Più di un adulto su quattro dichiara di soffrirne, per cui, a seconda dei criteri usati per definirlo, si può calcolare che siano da cinque a quindici milioni gli italiani che convivono da almeno tre o sei mesi, ma spesso anche da anni, con una sofferenza cronica di varia natura che incide sulla loro vita quotidiana. La frequenza del dolore cronico aumenta con il passare degli anni, e l’invecchiamento della popolazione ne favorisce la diffusione, ma in molte delle sue forme non risparmia i più giovani o la mezza età. Il paziente che ne soffre è mediamente donna tra i 35 e i 50 anni, con mal di testa e dolori diffusi, un reddito familiare medio tra i venti e i quaranta mila euro all’anno, sottoposta a molti fattori di stress e con una carriera studentesca che non va oltre la scuola dell’obbligo. Il dolore colpisce di più le persone meno istruite, che faticano a esprimere al medico l’entità e le caratteristiche del loro disagio. La percentuale di persone con un dolore intenso è, infatti, del 30 per cento tra chi ha un titolo di studio medio-basso, mentre scende al 17 per cento tra i laureati. Il fenomeno, comunque, non risparmia nessuna categoria.

«Se si va dal medico – precisa Paolo Marchettini, docente di fisiopatologia e terapia del dolore all’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano e all’Università della Svizzera italiana di Lugano –, una volta su quattro è per questa ragione: dopo le sindromi influenzali e le malattie di cuore, il dolore è la terza causa di consulto». Ma tutto questo ha un costo. Si calcola che nel 2007 il dolore cronico abbia comportato in Italia una spesa di 3 milioni di euro in visite, esami e far­maci, senza contare le ore di lavoro investite. In un caso su cinque, poi, questa patologia porta alla perdita del lavoro o a un ridimensionamento del percorso professionale.        Il peso maggiore, comunque, è quello della sofferenza individuale e familiare. Una sofferenza che non deve essere vissuta come inevitabile, ma che va dominata, per non perdere il controllo sulla propria vita.  La classifica

I dolori cronici più diffusi   Mal di testa: 64%

Dolore addominale: 38%

Mal di schiena: 20%

Dolore mestruale: 15%

Gengivite: 14%

Intestino irritabile: 13%

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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