Quo vadis volontariato?

I volontari: un esercito silenzioso di persone, di ogni età e condizione, che hanno deciso di spezzare la spirale di egoismo che caratterizza i nostri tempi.
03 Giugno 2001 | di

Una ragazza dal vistoso naso rosso a patata, i pomelli paonazzi, le sopracciglia tinte di bianco, la bocca tirata a dismisura, fazzolettone e camice variopinti... si esibiva in una serie di divertenti sketch in uno stand della Fiera di Padova, aperta lo scorso maggio per ospitare la grande rassegna del non profit e del volontariato, raccolta nella sigla Civitas. La giovane è una dei tanti «dottor sorriso», clown professionisti, della Fondazione Garavaglia di Milano che girano i reparti di pediatria di mezza Italia per curare i bambini a dosi massicce di... risate.

In uno stand vicino, un gruppo di signore trevigiane metteva sotto il naso dei visitatori un depliant che illustrava la loro associazione, Advar, i cui soci volontari accompagnano i malati terminali e sostengono i loro familiari in un momento di forte disagio.

In un altro gazebo, i frati del Santo esibivano un sostanzioso carnet nel quale erano elencate le loro iniziative a favore dei più disagiati (dagli handicappati del Villaggio Sant`€™Antonio di Noventa ai tossicodipendenti della Comunità  San Francesco di Monselice) che vivono grazie al volontariato. E così via, per decine di chioschi e gazebo, ognuno a ricordare mondi di difficoltà  e problemi, ma anche tanta gente disposta, per sola carità , a dare una mano per risolvere il problema o, quanto meno, perché nessuno lo viva da solo.

Sono i mille volti di un volontariato che coinvolge milioni di persone nel nostro paese, le cui esprienze da sempre raccontiamo nella nostra rivista. In questo dossier vi vogliamo parlare di alcuni problemi strutturali che il suo incredibile sviluppo ha posto e di alcune scelte che esso dovrà  fare per essere sempre più credibile ed efficace. Nell`€™ultimo quarto di secolo (1975-2000), il volontariato ha subito una costante trasformazione, passando da movimento «riparatore» a movimento «liberatorio», impegnandosi, cioè, nella rimozione delle cause di esclusione sociale dei cittadini, tutelando e rivendicando la piena fruizione dei loro diritti e anticipando la nascita di nuovi.

Oggi il volontariato si trova ad affrontare esigenze nuove, nuove sfide che saranno il banco di prova della sua identità , credibilità  ed efficacia. Su questi nuovi appuntamenti esso si interroga chiamando a raccolta tutte le associazioni che lo compongono. Lo ha fatto di recente a Torino e a Padova nell`€™ambito delle giornate di Civitas. (Piero Lazzarin)

Allora, quo vadis, dove vai, volontariato? Archiviato l`€™Anno Santo (dove pure è stato uno dei protagonisti) e doppiata ormai la boa del fatidico millennio, una sorta di nuovo appuntamento giubilare ha accolto il volontariato al varco del 2001. Proprio a lui, infatti, l`€™Onu ha dedicato internazionalmente quest`€™anno; né si può dire che non ci sia bisogno di un periodo sabbatico anche per le legioni della generosità  che stanno sempre con le mani in pasta e `€“ alla fine `€“ hanno pur bisogno di saper meglio dove vanno.

Quo vadis, appunto. Nate `€“ almeno in Italia `€“ nel periodo prorompente degli anni Sessanta e Settanta (l`€™epoca delle marce contro la fame, dell`€™impegno per il Terzo mondo, delle primissime comunità  di recupero per tossicodipendenti), esplose nel boom della giovinezza, all`€™inizio dei Novanta `€“ quando sembrava che «dare una mano» agli altri fosse addirittura di moda `€“, le organizzazioni di volontariato stanno forse diventando adulte proprio adesso. E, come nella vita di una persona vera, i quarant`€™anni non sono un`€™età  priva di dibattito né d`€™incertezze amletiche (qualcuno dice: di crisi).

Essere o fare?

 

Essere o fare? Organizzarsi o abbandonarsi all`€™istinto? Curare o prevenire? Nonché `€“ non da ultimo `€“: gratis o a pagamento? Scrutando nelle neutre occhiaie dei dati raccolti in disparati sondaggi e autorevoli rapporti, il volontariato fa un po`€™ la parte del principe di Danimarca. Non ha teschi negli armadi (tutt`€™altro); continua a svolgere, e sempre di più, un insostituibile e prezioso ruolo di toppa alle falle dello Stato; convoglia a buon fine le energie e la creatività  di innumerevoli italiani; epperò si domanda giustamente che cosa vuol fare da grande, se la sua raggiunta maturità  non ha anche altro da offrire alla società , se `€“ ormai trascorsi i gloriosi tempi delle continue emergenze cui rispondere, zaino in spalla `€“ non sia venuto il momento di farsi una casa più stabile e di cercarsi un lavoro.

Un esempio eloquente è fornito dal dibattito sviluppatosi nella recente assemblea nazionale dei 250 gruppi aderenti al Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità  d`€™accoglienza): una cospicua sigla di associazioni per il recupero dalla droga (e non solo). Titolo: «Cnca verso l`€™età  adulta», appunto. Il presidente, don Vinicio Albanesi, vi ha subito soppesato quelle che definiva «le due anime» delle organizzazioni benevole del terzo millennio.

Su un piatto della bilancia sta il volontariato «puro»: generoso, spontaneo, sempre on the road (sulla strada), termometro fedele della realtà , flessibile e capace di rispondere a ogni richiesta, «passionale»; sull`€™altro piatto, invece, ecco il cosiddetto «terzo settore»: ovvero l`€™organizzazione, la struttura, la gestione, talvolta l`€™impresa sociale che fornisce stabilità  alle iniziative contro il disagio e, addirittura, inventa nuovi posti di lavoro. Chi peserà  di più, alla fine?

Non è detto che il dilemma debba essere risolto con un taglio netto: o da una parte o dall`€™altra (né, difatti, l`€™assemblea del Cnca l`€™ha sciolto così). Anzi, poiché ognuna delle due anime dimostra sia chanches sia punti deboli, una convivenza è persino salutare.

 

Correggere il sistema o cambiarlo?

 

Sotto sotto, però, cova anche un problema di principio che oggettivamente non è facile ricondurre a unità , e cioè: il volontariato deve limitarsi a «correggere» il sistema, rappezzando i suoi guasti ed esercitando una funzione di pronto soccorso per le rotelle espulse dagli ingranaggi sociali, oppure dovrebbe sovvertirlo, cambiarlo contestandolo fin dalle fondamenta e creando un`€™alternativa finalmente più egualitaria e solidale?

Qualcuno sostiene, infatti, che gli interventi del volontariato, pur provvidenziali per tanti e tantissimi poveri, servirebbero a smaltire in modo piuttosto inodore una «spazzatura» che, altrimenti, obbligherebbe l`€™olfatto comune a pretendere modifiche strutturali e provvedimenti preventivi; i quali invece, così, vengono colpevolmente trascurati. Riforma o rivoluzione, insomma? Non per nulla il volontariato italiano (e tanti dei suoi «padri storici»...) ha messo le prime foglie proprio nella stagione turbolenta del Sessantotto.

 

I volontari. Chi sono e quanti sono

 

È anche una questione anagrafica, come mostrano gli immancabili sondaggi, peraltro non tutti e sempre concordi. I volontari italiani sono, infatti, in maggioranza quaranta-cinquantenni, lavoratori, maschi e femmine in numero quasi identico, con grado di istruzione media e medio-superiore. Secondo la Fivol (Federazione italiana volontariato) i connazionali dediti al gratuito ammonterebbero a 3 milioni 700 mila (altre fonti arrivano a 5,7 e persino 11 milioni di volontari), quasi il 10 per cento della popolazione adulta; di essi, 437 mila `€“ ultraquarantenni, adulti e occupati `€“ lo fanno in modo particolarmente costante, totalizzando ogni giorno circa mezzo milione di ore donate.

Anche l`€™Istat conferma che il volontariato italiano interessa più gli adulti (e in misura crescente anche i pensionati) che i giovani. E il secondo Rapporto biennale sul volontariato, presentato dal ministro per gli Affari sociali Livia Turco a Lecce, lo scorso 3 febbraio, dettaglia ad abundantiam: il volontario medio ha dai 30 ai 45 anni (45 per cento), è diplomato (38 per cento), ha un posto di lavoro (48 per cento).

Se a questi dati aggiungiamo che in cifra assoluta il gratuito spopola soprattutto al Nord (e in specifico nel tanto vituperato Nord-est, che vanta la maggior percentuale di volontari ogni 10 mila abitanti: 158, contro i nemmeno 130 del Nord-ovest e del Centro e gli appena 43 di Sud e isole), dovremmo giungere alla conclusione che... lavora gratis chi lavora già  a pagamento. E che il volontariato prospera laddove è più marcato il benessere: ovvero dove dovrebbe essere minore l`€™emarginazione di cui esso stesso desidera prendersi cura...

 

Sano, attivo e anomalo

 

Il gratuito appare, quindi, in buona salute, anche se preoccupa la relativa scarsità  di giovani nelle sue file: qualora si prescinda dalla militanza nelle associazioni di pronto intervento sanitario o ambientalista (queste ultime sono pure quelle a più alto tasso di laureati). Le statistiche attestano, inoltre, una lenta diminuzione degli organismi di esplicita ispirazione cattolica (la Chiesa è stata ed è, tuttora, uno dei motori principali del volontariato nostrano): siamo passati dal 40 per cento al 36 per cento fra il 1993 e il 1997. Si fa avanti, dunque, un volontariato più aconfessionale e d`€™impronta «civile» in cui le organizzazioni non solo offrono pasti e coperte al diseredato di turno, ma si propongono la difesa dei suoi diritti quasi come un sindacato o un`€™associazione di consumatori, mediando autorevolmente fra privato e istituzioni.

La maggior parte delle, forse, 29 mila (fonte Cnv, Centro nazionale del volontariato) organizzazioni di volontariato di casa nostra, poi, ha un impatto prettamente locale. Si tratta, infatti, di gruppi piccoli (16 aderenti in media, secondo un`€™indagine del 1997), relativamente «giovani» (20-25 anni dalla fondazione, ma quasi la metà  non hanno ancora spento la decima candelina), attivi soprattutto nel proprio Comune (il 43 per cento del totale; solo il 5 per cento ha respiro nazionale), quasi totalmente legati al volontariato «puro» (appena il 12 per cento dichiara dipendenti stipendiati), con un bilancio davvero minimo (in media 10 milioni l`€™anno) e attivi soprattutto in servizi sanitari e assistenziali a favore di, nell`€™ordine: malati, handicappati, anziani, giovani, minori, poveri, tossicodipendenti, immigrati.

È proprio questa l`€™«anomalia italiana»: nel resto d`€™Europa, infatti, il volontariato è molto più professionalizzato; in Gran Bretagna, per esempio, la metà  delle charities è mista di stipendiati (480 mila) e non, in Spagna addirittura i due terzi. Anche il finanziamento pubblico appare assai più «pesante» all`€™estero: in quasi 10 anni, per sponsorizzare 384 progetti presentati secondo la legge-quadro 266 del 1991, Roma ha sborsato soltanto 14 miliardi. Ma anche questa `€“ in fondo `€“ è una caratteristica voluta, talvolta orgogliosamente rivendicata, dai volontari italiani: che non si fidano della politica (è recente la denuncia di un politologo per cui, nonostante un passato nell`€™associazionismo, molti onorevoli non riverberano abbastanza tale storia d`€™impegno sociale sui banchi di Montecitorio), che insomma preferiscono fare da soli. Forse per non avere «padroni».

 

Gratuità  o professionalità ?

 

Nell`€™evoluzione verso l`€™età  adulta, però, qui s`€™insinua certamente una delle debolezze del volontariato: non ha un peso politico, almeno non comparabile con la sua sostanziosa presenza sociale; non sa o si vergogna di «fare lobby», ovvero di organizzarsi in gruppi di pressione per realizzare campagne comuni e mobilitare alla grande i mass media. La dimostrazione di tale scarso potere sono `€“ almeno in parte `€“ tre fallimenti dell`€™ultima legislatura: quello della riforma della legge per la cooperazione allo sviluppo (le norme che regolano il volontariato internazionale), l`€™omessa revisione del diritto d`€™asilo e la mancata costituzione di un`€™Authority per il volontariato.

Ma qui siamo ancora alle famose due anime del volontariato, e i messaggi giungono apparentemente contraddittori. Da una parte, infatti, `€“ è solo qualche citazione dei guru del settore `€“ ecco Ann Pettifor, direttrice di «Jubilee 2000» (la campagna internazionale per la remissione del debito al Terzo mondo) che tuona: «Nel Duemila non c`€™è spazio per volontari dilettanti. Organizziamoci bene, perché difendere la solidarietà  e riportare gli interessi degli uomini davanti a quelli dell`€™economia sarà  ancora più difficile». E l`€™intellettuale francese Jacques Attali, fondatore di una «banca per i poveri», rincara: «Dimenticatevi la buona volontà ; per fare bene il volontario, da sola non basta più. Oggi il lato più debole dei volontari è la mancanza di professionalità ». Da cui la proliferazione del cosiddetto «terzo settore», il vero fenomeno dell`€™ultimo scorcio di secolo, col conseguente corteggio di cooperative sociali, onlus e imprese non profit.

Dall`€™altra parte, invece, voci non meno autorevoli incitano a non perdere di vista, anzitutto, la frontiera dell`€™impegno totalmente disinteressato. L`€™ha fatto, ad esempio, monsignor Giovanni Nervo, presidente della fondazione «Zancan», dalla tribuna delle Giornate del volontariato celebrate, in febbraio, a Torino: «Il volontariato, che è stato la madre di tutte le realtà  del sociale, dall`€™associazionismo alle cooperative, rischia oggi di diventarne il parente povero», ha denunciato lo storico fondatore della Caritas italiana; e, subito dopo, ha ammonito i gruppi a guardarsi dalla tentazione di trasformarsi in pure e semplici imprese, per esempio sostituendo i rimborsi spese in pagamenti forfettari «in nero», e a tenere il valore della gratuità  sgombro da qualsiasi equivoco.q

A colloquio con don Vittorio Nozza, direttore della Caritas italiana.

 

 

a cura di Gianni Maritati

 

Msa. Don Nozza, quale ruolo ha la Caritas italiana nei confronti del mondo del volontariato in tutti i suoi molteplici aspetti?

Don Nozza. Anzitutto, la promozione del volontariato, un compito possibile solo in un contesto dove la solidarietà  sia valore fondamentale. Promuovere il volontariato significa promuovere una concezione «integrale» di persona e aiutare il volontariato ad aprire gli occhi sul territorio per illuminare di attenzioni i variegati volti dei poveri.

Ma il compito della Caritas è anche di formazione, accompagnamento, sostegno e valorizzazione del volontariato: aiutarlo a individuare e rafforzare le motivazioni, a orientare la presenza nei diversi tipi di impegno, a cogliere l`€™importanza di vivere la dimensione del dono come espressione della propria fede, a essere presenza che promuove altre presenze di volontariato nel territorio e nella società  civile, per un servizio integrato alla persona.

Compito della Caritas è, infine, formare allo sviluppo della solidarietà  sociale; a un nuovo rapporto con il territorio (costruttori di presenze e di un modo di intervenire che non può non essere che a «mosaico»); a una nuova dimensione sociale e politica (cittadinanza attiva); a essere presenze di pace, di dialogo, di relazioni autentiche... e a riscoprire la forza profetica del Vangelo per una vita di fede e uno stile di Chiesa improntati a povertà  e semplicità , sapendo che non c`€™è carità  senza giustizia.

Quali sono i maggiori problemi pratici e organizzativi che la Caritas deve affrontare quotidianamente sui vari fronti del disagio sociale?

Sono le «sfide» delle povertà  antiche e nuove, che investono i «luoghi» in cui la povertà  e il disagio si concentrano e si rendono visibili: la strada, la casa, le istituzioni.

È nella strada che gli esclusi trovano un`€™ultima possibilità  di esprimere i resti della propria deprivata quotidianità , ed è in questo contesto `€“ il meno protetto di tutti `€“ che si consumano forme di violenza e di sfruttamento di ogni tipo, fino a quelli più feroci, come la tratta di ragazze per la prostituzione e la pedofilia.

È sulla famiglia che quotidianamente ricadono moltissimi disagi. Tanto che essa diviene spesso il vivaio di ulteriori processi di povertà , marginalità  e devianza. È nelle famiglie che si sviluppano spesso, oltre ai conflitti tra coniugi e conviventi, numerose vicende di disagio minorile, spesso con esplosioni di violenza.

Infine, è nelle carceri, negli ospedali, nelle case di riposo e in tutti gli altri luoghi di disagio e sofferenza «istituzionalizzata» che emergono altri volti e spaccati di povertà . Gli obiettivi del riscatto e della guarigione, della riabilitazione e dell`€™inserimento `€“ a beneficio dei singoli e dell`€™intera società  `€“ sono spesso sacrificati a standard gestionali e/o a pregiudizi culturali. Soprattutto in questi spazi, il volontariato è chiamato a una presenza di umanizzazione e promozione integrale, non rinunciando mai a costruire ponti con l`€™intera società  e, quanto più possibile, ad abbattere muri di separazione.

In che modo, lo stato e la Caritas collaborano perché il volontariato sia sempre più non solo il nobile impegno di alcuni gruppi o singoli, ma, soprattutto, una risorsa strategica dell`€™intera società ?

Innanzitutto, si deve ricordare che il volontariato, quale esempio di «formazione sociale» riconosciuta e tutelata dalla nostra Costituzione, è in se un valore che non ha bisogno di nessun tipo di riconoscimento. Credo che, a partire da questo, sia interesse preminente delle amministrazioni pubbliche, locali e nazionali, valorizzare questa risorsa, non finalizzata a tamponare emergenze o a coprire inadempienze, ma per puntare a un coinvolgimento stabile nelle politiche sociali territoriali, fondate su logiche di prevenzione e di coesione. La cosiddetta legge di riforma dell`€™assistenza afferma con chiarezza tutto questo e, già  nell`€™art. 1, indica una logica di concertazione sociale tra i soggetti pubblici e i soggetti della solidarietà , in tutte le fasi di definizione e realizzazione delle politiche sociali. L`€™impegno, quindi, della Caritas sarà  quello di educare le comunità  cristiane a un vivere dentro il territorio, consapevole e accogliente verso i bisogni presenti, ma anche vigilante riguardo alle responsabilità  istituzionali, in uno stile di collaborazione franca e leale.

(Ha collaborato Francesco Meloni)

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017