Rinascimento artigiano

Dall’America si pronostica che la prossima rivoluzione industriale sarà guidata da imprese artigiane, capaci di creare prodotti innovativi e di qualità. L’Italia, patria dell’artigianato, potrebbe essere un’avanguardia di questa trasformazione.
26 Ottobre 2011 | di

 Appena tre anni fa, all’inizio della crisi economica, il libro L’uomo artigiano del sociologo americano Richard Sennett lanciava un sasso nello stagno dei pregiudizi del capitalismo avanzato. Un libro che ebbe un successo insperato, pur trattando un tema considerato di nicchia come l’artigianato, che al fondo poneva alcune domande cruciali: pensiamo davvero che la flessibilità del lavoro, l’instabilità e la velocità siano gli ingredienti del successo? Che la produzione di massa e standardizzata sia la panacea? Che la conoscenza astratta possa essere disgiunta dai saperi del fare? «L’errore di questo sistema economico è stato il basarsi su una visione a breve termine» tuonava Sennett in un’intervista a «Il Sole 24 Ore» del gennaio del 2008, quando invece il successo ha bisogno di tempo e di «abilità artigiana», propria di colui che svolge con impegno e soddisfazione un lavoro a regola d’arte e che per questo è spinto a migliorarsi continuamente.
Era la riabilitazione di una figura che nell’immaginario collettivo riportava al «bel tempo andato», agli scantinati ammuffiti dell’era
preindustriale. Ma per Sennett il nuovo artigiano non aveva nostalgia di passato: cavalcava la modernità e le nuove tecnologie, magari reinterpretava antiche tradizioni, ma ciò che lo distingueva, sia che lavorasse per la moda che per l’information technology, era la passione per il prodotto fatto bene e la capacità di mettere in relazione la conoscenza teo­rica con quella pratica, la testa con le mani.

Tutto il mondo artigiano, soprattutto in Europa, rispolverò l’antico orgoglio. Ma, in realtà, pochi capirono che il libro di Sennett dava visibilità a un cambiamento epocale che covava da tempo nel mondo occidentale, a una crisi di sistema, rivelata da una crisi economica persistente e in apparenza senza vie d’uscita, che poneva inquietanti interrogativi. Ha senso che un’economia immateriale, come quella finanziaria, sia in grado di distruggere l’economia reale? Ha senso produrre senza limite oggetti standard di basso valore e di dubbia utilità, quando stiamo pericolosamente esaurendo le risorse naturali? Qual è allora la via?

A provare a tracciarla è ancora una volta un americano, Chris Anderson, direttore di «Wired», la rivista cult dei makers, i nuovi esponenti della cultura del fare, secondo il quale la prossima rivoluzione industriale sarà guidata da piccole imprese artigiane, ad alto contenuto tecnologico, capaci di creare oggetti innovativi e di qualità, in scala limitata, e su misura del cliente. È praticamente l’identikit di un gran numero di piccole e medie imprese che già oggi operano in Italia ed esportano con successo. È il caso di Piquadro, media azienda di borse di qualità che di recente ha incluso nella sua collezione autunno-inverno 2011 la possibilità per il cliente di progettare e richiedere la sua borsa personalizzata, grazie a un software che gira su iPad. Ma è il caso anche di una piccola azienda, La Sampietro, nel comasco: un pugno di maestri del ferro battuto che creano opere richieste in tutto il mondo, dai Paesi Arabi alla Russia. Come reggono la concorrenza? «Non certo grazie al prezzo – afferma Mario Sampietro, il titolare – ma a una grande tradizione artigiana, unita a flessibilità e capacità d’innovazione».
 
Miracolo all’italiana
 
Ce n’è abbastanza per rimanere sbigottiti. Ma come? Proprio noi, la patria mondiale dell’artigianato e della piccola media impresa, veniamo a sapere dagli americani che potremmo essere addirittura un’avanguardia? È Stefano Micelli, professore di Economia e gestione delle imprese all’università Ca’ Foscari di Venezia, autore del libro Futuro artigiano (Marsilio) a spiegare la contraddizione: «Dopo la crisi della piccola e media impresa e dei distretti che avevano trainato l’economia italiana negli anni ’80 e ’90, si sono cristallizzati alcuni stereotipi. Il primo è che il capitalismo italiano è incapace di superare il suo nanismo atavico e che, quindi, la piccola e media impresa, che costituisce la stragrande maggioranza del nostro sistema economico, è una zavorra per lo sviluppo, un’incompiuta imbarazzante. Il secondo stereo­tipo è concepire l’artigianato come tratto tipico della piccola impresa, ignorando che esso è entrato da tempo nelle filiere dei grandi marchi, da Geox a Gucci, rappresentando gran parte del valore aggiunto».
Che la dimensione non sia essenziale al successo dell’impresa lo dimostrano gli ultimi dati elaborati dalla Cna (Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa), in uscita proprio a novembre. «Concentrandoci sulle industrie manifatturiere esportatrici (che sono 100 mila su un totale di circa 500 mila) – spiega Claudio Giovine, responsabile del Dipartimento politiche industriali della Cna – si ha un quadro più chiaro delle potenzialità del sistema italiano. Le industrie più grandi sono solo 1.500 ed esportano circa il 35 per cento del loro fatturato; le medie, quelle tra i 50 e i 250 occupati, sono 10 mila, e la gran parte, circa 9 mila, esportano anch’esse in media il 35 per cento del fatturato. L’ultima fascia, quella meno presa in considerazione, riguarda le micro e piccole imprese da 0 a 50 addetti, che sono circa 85-90 mila. Insieme contabilizzano il 20 per cento dell’export nazionale, esportando ciascuna il 25 per cento del fatturato». A prima vista sembra poca cosa, ma se si analizzano i dati dall’interno si scopre che queste imprese, nei settori tipici del made in Italy come l’alimentare, la moda, l’arredo e l’automazione meccanica, rappresentano il 50 per cento dell’export italiano. Non solo, pur avendo un rischio più alto, sono presenti nei mercati esteri, persino in quelli più lontani e difficili, al pari delle grandi, mentre a differenza di queste ultime hanno mantenuto pressoché inalterato il livello occupazionale (sono circa 1 milione i lavoratori assorbiti). «Le piccole imprese – continua Giovine – sono state le prime a ricevere nuovi ordini dopo la crisi del 2008, segno di un’elevata reattività, ancora più eccezionale se si pensa che esse non hanno mai avuto alcun aiuto dallo Stato, come invece è previsto per le grandi. Che cosa succederebbe se si investisse su di loro, anche minimamente?».
Se questo non è un miracolo italiano, l’ennesimo, poco ci manca. Resta da capire come mai tutti questi «grandi nani» siano riusciti, fino ad oggi, a sopravvivere alla globalizzazione, alla concorrenza cinese, alla crisi economica.
«A partire dal 2000 – spiega Micelli – l’industria italiana ha dovuto sottomettersi a un iter di modernizzazione accelerata, dovuta a una serie di shock. Il primo è stato l’entrata nell’euro, che ha costretto le aziende a non contare più sul vantaggio competitivo derivato dalle svalutazioni della lira; il secondo shock è stata la concorrenza cinese, e il terzo l’entrata di nuovi e potenti strumenti informatici nella gestione delle aziende». Dopo la febbre, le imprese hanno inaugurato una fase di riorganizzazione tutt’ora in corso: «I progressi sono più visibili nella media impresa – continua Micelli –, che oggi è il soggetto emergente della nostra economia, ma hanno interessato anche un gran numero di piccole aziende, seppur in modo meno strutturato». I fattori vincenti? «La capacità di affrontare i mercati, valorizzando i propri prodotti e l’uso delle tecnologie sia nell’organizzazione che nel miglioramento del prodotto. C’è poi un terzo punto di forza: queste imprese intercettano le esigenze di un tipo di consumatore emergente, stanco dello standard e dell’usa e getta, che cerca in ogni oggetto anche contenuti, tradizioni ed emozioni».
 
Se fare fa rima con sapere
 

Se il mondo artigiano non è più quello di una volta, ma è un mix complesso di tecnologia e antichi saperi, come mai sono proprio le aziende artigiane ad avere più difficoltà a trovare lavoratori, mentre migliaia di laureati e diplomati allungano le file della disoccupazione? «Siamo prigionieri di un modello culturale – afferma Marco Colombo, presidente dei giovani imprenditori di Confartigianato – che contrappone la conoscenza teorica alle competenze tecnico-pratiche con il risultato di bloccare le potenzialità di crescita del nostro Paese. Oggi si pensa ancora che stare seduti dietro alla scrivania di un Ministero sia meglio che restaurare un affresco, costruire uno yacht, occuparsi di domotica, disegnare un abito di alta moda. Ma per svolgere queste attività artigiane servono sia il sapere che il saper fare. E qui, purtroppo, c’è una carenza di percezione, che è aggravata dalla mancanza di istituzioni formative adeguate». Ancora oggi si diventa artigiani soprattutto grazie agli… artigiani: «Gli imprenditori – continua Colombo – dedicano ogni anno 103 milioni di ore e investono 1,8 miliardi per formare nuovi assunti».
In che modo questi germogli di futuro possono diventare la via italiana di risposta alla crisi, e un potenziale bacino di occupazione qualificata per i nostri giovani?
«Occorrerebbe – risponde Micelli – che la politica finalmente si accorgesse delle peculiarità e delle potenzialità del nostro sistema produttivo, non lo considerasse più una Cenerentola, e finalmente iniziasse a creare le condizioni per il suo rilancio.
È sconcertante, per esempio, che proprio in questo delicato momento economico sia stato abolito l’Istituto per il commercio estero, senza un’alternativa credibile. A riprova che non si è assolutamente capito quali saranno le attività che daranno impulso al made in Italy nel mondo. Non avere canali adeguati di promozione e distribuzione sostenuti da un sistema Paese, così come non avere scuole di formazione di respiro internazionale, mi sembra francamente incredibile in un contesto come il nostro». Oggi che la crisi ha ripreso a mordere, il tempo per reagire è sempre più esiguo. E i miracoli, si sa, non durano in eterno.
 
CINA-ITALIA
 

Le opportunità prima della paura

di Nicoletta Masetto

Mille macchine da cucire, una vicina all’altra. E mille addetti che, su queste macchine, lavorano senza sosta. È questa la prima immagine che Giorgio Cataldi, segretario della Confartigianato della provincia di Ancona, si è portato a casa dalla Cina, mentre dalla sua finestra guarda il mare di una città con poco più di 100 mila abitanti e ben 13 mila imprese disseminate nel territorio. Altre dimensioni, altri numeri, altro mercato quelli di un Paese al quale l’Italia sta guardando con sempre maggiore interesse. Dal 2008 Confartigianato Ancona promuove «Cento Finestre» (l’ultima edizione a fine ottobre), evento-vetrina divenuto riferimento per gli imprenditori cinesi del sistema moda. Esportando pure competenze e know how, terreno ad alto rischio, vista l’abilità dei cinesi di assorbire e copiare.

Msa. Dottor Cataldi, quali sono gli obiettivi del vostro progetto «Cento Finestre»?
Cataldi. Vogliamo promuovere una collaborazione interdistrettuale partendo da una complementarietà condivisa. All’inizio erano stati coinvolti imprenditori russi, giapponesi e cinesi. Di recente abbiamo focalizzato le energie su quest’ultimo Paese, una realtà in grande crescita dove si sta affermando una classe media di milioni di persone in cerca di cose belle, e sensibile al made in Italy. L’interesse è stato reciproco.

Cosa significa, in concreto, complementarietà condivisa?
L’impresa italiana è concentrata sulla parte di produzione con più alto valore aggiunto (dal progetto di stile al prototipo e alla prima serie) e sull’eccellenza del full made in Italy. L’impresa cinese, a sua volta, è destinata alla riproduzione e alla distribuzione su larga scala, al fine di raggiungere competitività globale, in particolare nei mercati emergenti dell’Asia.

Esportare competenze non è una sorta di svendita del proprio know how alla concorrenza?
C’è un dibattito in corso su tale questione. Ovviamente quando si tratta con i cinesi si parla di un altro mondo, di altri modi di fare, di produrre, di costruire relazioni. Noi ci siamo confrontati con i nostri imprenditori e riteniamo che il rischio sia minimo. Il motivo? Una parte della nostra capacità produttiva, quella che fa capo alla progettazione, al design, all’abbinamento dei materiali, al gusto, è qualcosa di difficilmente replicabile dai cinesi, né oggi, né domani. In queste fasi della produzione non potranno mai competere con noi. L’artigianato in Italia ha una storia che parte dal Rinascimento e arriva fino a oggi, un’esperienza consolidata nel tempo, un gusto che si è affinato nel corso dei secoli. I cinesi saranno tanto bravi a copiare, ma di sicuro non riusciranno a farlo con quel valore aggiunto, derivante dalla nostra cultura e dal nostro intelletto, che, ne siamo convinti, non sarà mai replicabile.
  
I pionieri del fare

di Luisa Santinello e Alberto Friso
 

Sono giovani, alcuni giovanissimi, sono designer, ingegneri, architetti, artigiani, softwaristi, tecno-costruttori, avanguardie di un modo inedito di concepire il «made in Italy» e il mondo artigiano. All’insegna dello scambio, dell’interazione dei saperi e dell’«open source».
 

Open design Italia
 

Chi ha detto che tra design e artigianato non scorre buon sangue? Dopo il boom della produzione di massa, ora il futuro del made in Italy passa per la riscoperta di tradizioni e tecniche di una volta. Contro l’avanzata dei Paesi emergenti non bastano più buone idee: occorre mettere in rete le competenze. E così, se in passato il termine designer rimandava al visionario incompreso, e l’artigiano non era che un manovale con la fissa delle misure, ora, complice la crisi, le due categorie cominciano a dialogare.
Testimone di questa svolta è l’architetto Elena Santi che, nel 2010, ha dato vita all’«Open design Italia», una mostra mercato finalizzata a promuovere l’autoproduzione e la collaborazione tra designer, imprese e artigiani. Dopo l’esordio al Foro Boario di Modena nel 2010, quest’anno l’appuntamento con l’edizione «Selected» è a Palazzo Maccaferri, a Bologna, dal 18 al 20 novembre, dove ventinove creativi – quasi tutti italiani – presenteranno la loro idea di arte applicata all’artigianato. «La gente è stanca di comprare oggetti tutti uguali e di pagarli dieci volte il loro valore – spiega Elena Santi –. Ecco perché è importante ridurre la filiera e creare sinergie: il futuro del design è legato alla personalizzazione e alla qualità». Un’intuizione che, specie nel mondo dell’oggettistica e dell’arredamento d’interni, rimane però ancora a livello embrionale: «La difficoltà maggiore consiste nel far comunicare designer e artigiani – continua l’art director di Open design Italia –: se i primi credono ciecamente nella genialità delle loro idee, i secondi sono convinti di essere gli unici in grado di eseguire il proprio lavoro». Ma la crisi economica negli ultimi tempi ha rimescolato le carte in tavola. Su un centinaio di candidati alle selezioni della scorsa mostra modenese, alcuni erano artigiani improvvisatisi designer, e altri l’esatto opposto. Come lo stilista che, ago e filo alla mano, ha dato vita alle proprie idee, o il creativo di turno che per realizzare un mobile si è rivolto alla falegnameria più vicina.

Dalla sperimentazione al business. Punta sul binomio «giovani e artigianato» anche la galleria romana «Secondome» che collabora con una quindicina di designer italiani e stranieri under 40. In vetro, metallo, legno e persino in silicone, i pezzi esposti a rotazione, ogni due mesi, sono oggetti unici creati dall’artista stesso, oppure serie prodotte artigianalmente che portano il marchio della galleria nata nel 2006. Nello spazio di via degli Orsini, il confine tra artigianato e arte diventa quasi impercettibile; di fronte a un ventaglio di prezzi sempre più vasto il pubblico cresce e si diversifica. «Comprare un pezzo di design artigianale non è solo una questione economica: si va dai cento euro per un vaso in vetro soffiato fino ai 60 mila di un’opera prodotta in serie limitata – precisa Claudia Pignatale, fondatrice di Secondome –. Tra i nostri clienti contiamo collezionisti d’arte, ma anche semplici appassionati».
Se prima rimaneva ancora qualche dubbio, ora è ufficiale: quello del design artigianale non è un mondo elitario.
 
Frankenstein Garage
 
Chiamateli smanettoni, visionari, creativi, tecno-artigiani. Sono gli ideatori del «Frankenstein Garage», un nome quanto mai azzeccato per quello che è il primo FabLab di Milano, nato quest’anno, a cavallo tra giugno e settembre. Che cos’è un FabLab? La sigla sta per Fabrication Laboratory, ovvero un piccolo laboratorio dotato di una serie di macchine controllate da computer – tipo taglierine laser, stampanti 3D, frese a tre assi – che permettono di fabbricare «quasi tutto». Il movimento dei FabLab nasce qualche anno fa al Massachusetts institute of technology di Boston, grazie all’intuizione di Neil Gershenfeld e al suo corso dal titolo Come fare (quasi) qualsiasi cosa. «L’iniziativa – racconterà in seguito il docente – ebbe un successo inatteso, e così fondammo questi laboratori, per mettere in grado chiunque di creare tecnologia piuttosto che limitarsi a consumarla. Non siamo solo recettori di tecnologia, ma sorgenti. La vera opportunità è togliere le briglia al potenziale inventivo del mondo, per produrre soluzioni e progettare invenzioni». Capirete che l’idea di intitolare un laboratorio di questo genere a Frankenstein, allora, è decisamente pertinente. Solo che a essere realizzata non è «la cosa» – ovvero il famoso mostro descritto nel libro di Mary Shelley – ma «le cose», e nella fattispecie ogni forma di oggetto riconducibile all’artigianato tecnologico. Lo stile, infatti, è quello artigiano, su misura, secondo il motto do it yourself, ovvero fattelo da te, in base alle tue esigenze. Perché, tipicamente, i prodotti sviluppati da un FabLab sono personalizzati, realizzati su piccola scala, a uso del singolo o per piccole comunità. L’inventiva è stimolata dal lavorare gomito a gomito tra appassionati di diverse specialità, dall’elettronica al design al software e via dicendo. I progetti infatti vengono condivisi, secondo la filosofia dell’open source. Una simile impostazione tuttavia non impedisce l’attività commerciale, perché, per l’appunto, le invenzioni sono reali e possono trovare un loro mercato. A Milano, dopo il primo esempio di FabLab italiano che ha sede a Torino, si sono messi in tre: Alessandro Graps, Andrea Maietta e Paolo Aliverti, tutti di professione sviluppatori software, esperti di prototipizzazione rapida e ingegnerizzazione. Spiega Alessandro: «Tutto è nato, come succede per gran parte delle idee, davanti alla macchinetta del caffè. Volevamo fare qualcosa per Milano: non è pensabile che nella città dell’innovazione, della moda e della tecnologia mancasse uno spazio comune per persone che hanno voglia di creare open. Così abbiamo ideato il progetto, che poi ha vinto un premio indetto dalla Provincia e uno promosso dal Gruppo giovani imprenditori di Assolombarda per le migliori idee imprenditoriali. Da poche settimane abbiamo aperto il nostro ufficio, mentre il laboratorio è ancora nei garage di casa, ma entro breve traslocheremo in uno spazio più adatto e facilmente raggiungibile».
Oltre ai premi, arrivano i primi risultati. Per chi ha dimestichezza con questo genere di abilità sarà magari una cosa semplice, ma l’equipaggiamento del laboratorio è… autoprodotto. E passi per la fresatrice a tre assi (nel sito http://blog.frankensteingarage.it/ sono spiegati tutti i passaggi per realizzarla), ma la fotocopiatrice 3D è addirittura fatta con i mattoncini Lego! Come se noi tutti fossimo in grado di arrivare a questo livello, Alessandro ci tiene a scusarsi perché il suo team non è riuscito a riprodurre in laboratorio la taglierina laser, che ha componenti e tarature particolari…
Nel frattempo ha bussato al Garage la prima impresa, interessata a un’evoluzione del prototipo ABNormal che i tre hanno realizzato, ovvero un microcontrollore low cost programmabile con un semplice cavo seriale. «Siamo agli inizi – conclude Graps – ma il futuro è nostro. Vorremmo arrivare a essere un punto di riferimento per inventori, innovatori e designer qui a Milano. Chi ha un’idea da realizzare, da condividere, o è semplicemente curioso, è il benvenuto al Frankenstein Garage».
 
Vyrus, la moto su misura
 

di Alessandro Bettero
 
 

Quelle che escono dalle mani di Ascanio Rodorigo e della sua piccola bottega hi-tech sono «opere d’arte col motore», esposte in parecchi musei del mondo.
 
La consacrazione internazionale è arrivata qualche mese fa, quando l’attore americano Tom Cruise, collezionista di motociclette, nel corso del seguitissimo show della Bbc Top Gear, ha elogiato la sua specialissima moto italiana: la Vyrus 985 C3 4V (del valore di oltre 80 mila euro), ribattezzata con l’appellativo «Infinity».
Per il suo costruttore, il quarantottenne Ascanio Rodorigo, è stata l’apoteosi. Il culmine di una vita dedicata alla realizzazione di un sogno: una moto fatta su misura dei desideri del cliente. Vyrus – che si pronuncia «Vàirus» –, si può scegliere infatti nell’allestimento preferito: meccanica, motore, elettronica, livrea, colori, dettagli. Ogni modello è un pezzo unico, confezionato interamente a mano da cinque abili artisti-artigiani, tra i quali lo stesso Ascanio e suo figlio David, che lavorano 365 giorni all’anno in una piccola officina di Cerasolo Ausa, nel cuore della Romagna, patria della piadina e dei motori, a due passi dalla Repubblica di San Marino. Alcuni pezzi della Vyrus possono essere addirittura assemblati con quelli di moto di altre marche, creando così degli ibridi, proprio come fanno i virus.
In quello che sembra più un grande garage che la bottega di Rodorigo, balzano agli occhi torni, compressori, telai in carbonio, forcelle, stampi, freni, ruote, bulloni, cinghie… Tutto in rigoroso disordine sparso. Eppure si intuisce subito che non ci si trova in un’officina qualsiasi, ma in un atelier. E se ne deduce che quel disordine creativo diventerà, nel giro di poche settimane, un corpo meccanico, una forma aerodinamica, un concerto di rombi, derapate e stridori. Le moto di Ascanio, infatti, non si limitano a correre, ma sono vive.
 
Il genio glocal romagnolo
 

«Noi costruiamo la moto tecnologicamente più avanzata che c’è sul mercato. La Vyrus è omologata e venduta in venticinque Paesi del mondo: dagli Stati Uniti alle Antille, all’Europa», dice Ascanio, con un certo orgoglio. Al centro del processo produttivo c’è la persona, prima ancora del veicolo. «All’inizio il cliente deve spiegarmi bene chi è, cosa fa, quali sono i suoi colori preferiti, i suoi hobbies, gli sport che pratica. E solo dopo, gli faccio la moto su misura». E non occorre essere nababbi per comprare una Vyrus, visto che il modello base costa come un’auto di media cilindrata, e che tra i suoi amici Ascanio vanta sì artisti, imprenditori e collezionisti, ma anche tanta gente comune.
La passione di Ascanio per i motori inizia fin dalla gioventù. Suo padre lo porta spesso a vedere le gare delle motociclette. Del resto, nel raggio di 50 chilometri da casa sua è concentrato il gotha dell’industria motociclistica italiana (e buona parte di quella internazionale): Ducati, Cagiva, Morini, Malaguti, Benelli. Impossibile resistere a queste sirene. Ascanio non completa il liceo scientifico. La passione lo spinge a studiare, spesso da solo, chimica, fisica, meccanica. Cresce influenzato dal mito di Omobono Tenni, un fuoriclasse della due ruote che gli inglesi, con slancio lirico, definivano «il pilota-condottiero italiano che curvava con folle abbandono». Le moto costrui­te da Massimo Tamburini diventano poi, per Ascanio, un punto di riferimento. Sono questi i suoi maestri. E la vita è la sua scuola. Il suo destino è segnato. Dopo una solida esperienza in Bimota, affronta finalmente la sfida più ardua. È l’alba del XXI secolo. Ascanio si lancia nella sua avventura personale: si chiama, appunto, Vyrus. Consegna la prima moto nel 2003. Da lì in avanti è un crescendo di successi. Si conquista le prime pagine dei giornali specializzati. Oggi guarda, molto concretamente, all’agonismo puro. «Sponsor permettendo, il nostro obiettivo, nel 2012, è quello di correre nel Campionato del mondo Moto2». La formula è facile: Ascanio prepara un bozzetto della moto. Un designer giapponese lo trasforma, al computer, in un volume di tre dimensioni. E, infine, un inglese, naturalizzato francese, elabora l’aspetto fisico-matematico del progetto. È un processo creativo multietnico molto complesso, ma altrettanto efficace, perché permette ad Ascanio di progettare moto rivoluzionarie. Alla fine, la moto viene testata nella galleria del vento in collaborazione con l’Università di Pesaro. «Qui in Vyrus siamo in cinque oltre a Mirna, che cura l’amministrazione – spiega Ascanio –. Poi abbiamo quattordici consulenti esterni, chiamati all’occasione. Questo ci permette di tenere bassi i costi di produzione e di essere competitivi sul mercato». Nel 90 per cento dei casi, chi vuole una Vyrus viene a Rimini. Gli altri la ordinano sul sito internet www.vyrus.it, e la moto arriva, via corriere, a casa del cliente in kit di montaggio.
«Ho una moglie e quattro figli. Non avrei potuto fare nulla se non avessi avuto il loro appoggio. A casa siamo tutti un po’ artisti: c’è chi dipinge, chi danza. Io disegno moto. Di tv ne vediamo pochissima. Così creiamo in continuazione».
 
Un ragazzo col cuore a due tempi
 

Ascanio è attaccato, fin da ragazzo, alle sue radici, anche perché, in fondo, il motociclismo appartiene ad altri tempi: «È uno sport individuale in cui un singolo pilota e un singolo veicolo gareggiano con altri, alla stregua di moderni aurighi, in quel Circo Massimo che è il circuito di un Gran Premio di motociclismo». Probabilmente è questa smaliziata visione del mondo che gli permette di competere nel mercato globale con intelligenza, competenza e coraggio.
A questo artigiano romagnolo non fanno paura nemmeno gli asiatici. «Una moto sportiva o turistica di alta qualità deve essere messa sul mercato a 12 mila euro – rammenta –. È anche vero che il numero di milionari in euro, in Cina, mi permette di guardare con un certo ottimismo al futuro. Forse tra cinquant’anni loro saranno al nostro livello. Ma credo che anche allora, in Occidente, continuerà a distinguersi chi ha le idee ed è capace di sviluppare i concetti per realizzarle».
Quello che lo preoccupa davvero è la continua necessità di studiare, di apprendere, di sperimentare. Un’impellenza che, a volte, mal si concilia con i tempi stretti di consegna di una moto: «Mi rendo conto, ogni giorno, che c’è sempre più da sapere. Lo studio è un valore che mi piacerebbe trasmettere ai giovani. Uno dei miei progetti futuri è quello di dare vita a una scuola in cui insegnare quanto ho imparato in questi anni».
Poi la stoccata visionaria: «Sono convinto che, a breve, non andrà in moto più nessuno. La moto, come la intendiamo noi oggi, tra dieci anni non esisterà più. Mi guardo intorno, osservo i giovani. Non vanno più in moto. E chi ci va, lo fa per una questione di status symbol. Pensiamo solo a come sono spariti i motori a due tempi, quando, invece, dieci o quindici anni fa erano il fondamento della nostra attività». Ma le prospettive non sembrano affatto impensierirlo. Le difficoltà gli piacciono, eccome. Di più, lo galvanizzano. E quando un risultato non arriva, non sta lì a biasimarsi. Lo sa benissimo. Così diventa filosofo: «Il segreto della vita è la semplicità!».
Ai tempi della crisi, è qui la nuova frontiera del made in Italy nel mondo: il piccolo artigiano,

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017