Sorelle di terre estreme
Le mani delle donne hanno dita affusolate e sono guantate di polvere. Si muovono e pare creino preziosi ricami con fili di delicatezza e di gentilezza. Mani che accarezzano la testa di un bambino che si addormenta mentre succhia il seno, che proteggono dal calore del sole la testa piena di croste di un neonato o quella di un cucciolo di animale abbandonato dalla madre. Sono mani che tracciano segni invisibili nell’aria, gesti dolci e lenti che incrociano la traiettoria nervosa e imprevedibile del volo delle mosche, che si posano e affondano le zampe nelle bolle della schiuma biancastra e densa del latte appena munto, dentro una tazza di plastica blu. Le mani delle donne impastano farina e acqua in catini di alluminio ammaccati. Ingredienti sempre uguali a ogni latitudine per farne qualità diverse di pane.
Sono mani esperte che intrecciano le confidenze dell’intimità femminile con i capelli lunghi, scuri e lucidi di donne, ragazze e bambine sorelle. Creano acconciature perfette, opere d’arte della tradizione, geometrie che raccontano storie. Un linguaggio estetico fatto di simboli che, con la fantasia, ritrovo nei vigneti di montagna, spogli di foglie, in inverni avari di neve. Sono mani veloci che trasformano in lunghe strisce le foglie di palma ancora verdi. Le cuciono insieme, con aghi di legno e corde di fibre ritorte, per farne stuoie, la copertura mobile delle capanne rotonde che le donne portano in dote e dove vivono. Le scrollano dalla polvere, le caricano arrotolate e le legano strette sui dromedari per portarle a vendere, insieme a pelli di vacca rinsecchite e rigide come stoccafissi sotto sale. Si incamminano con passi di velluto che scandiscono il tempo universale di un mondo antico e sconosciuto. Scompaiono presto, dentro un apparente nulla morbido e fluido, polveroso, caldo e accecante. Viaggiano per giorni, insieme, per raggiungere un mercato. Viaggiano serene, tengono per mano le figlie e i figli più grandi, che tengono capre al guinzaglio. Delle bambine e dei bambini più piccoli si occupano le loro «sorelle» rimaste al villaggio.
Mani che proteggono, mani che curano
Le mani delle donne hanno cura anche della sabbia e della polvere, sembianze della terra sulla quale vivono; così fini e impalpabili, sono nell’aria che respirano, si incastrano e ricoprono ogni cosa debbano usare. Sabbia e polvere irritano i loro occhi scuri, si spalmano sulla loro pelle, scricchiolano tra i denti. Sono mani arrossate e gonfie per il freddo e l’aria secca e pungente, mani che cercano, tra il pelo folto e prezioso delle capre, i capezzoli turgidi e caldi di mammelle che scoppiano di latte. Sono mani che raccolgono e fanno scorta di sterco secco come cogliessero fiori, che lo impastano fresco con la riconoscenza e il rispetto che si deve a tutto quello che è fondamentale ogni giorno e aiuta a vivere. Mani forti che, dall’alba al tramonto, impugnano le redini dei cavalli al seguito di greggi immense e libere, al pascolo nella steppa. Sono mani di donne che partono con la prima luce viola del giorno per cercare legna secca nella foresta di mangrovie, per farne fasci da legare con pezzi colorati di tessuti sfibrati. I carichi incurvano le loro schiene e rallentano i loro passi scalzi. Insieme dividono la fatica per far funzionare la cucina comune del villaggio, dove preparano il cibo che tutti mangiano, prendendo con le dita dallo stesso piatto. Sono mani di bambine che usano la maestria insegnata dalle madri quando recuperano secchi pieni d’acqua dal fondo di un pozzo per riempire taniche gialle.
Trasportano per ore quel peso più grande di loro, su piste e sentieri, in equilibrio su cordoli sbilenchi per non pestare i raccolti appena nati, o la terra scura seminata da poco. Scavalcano passi di montagna al ritmo di marciatrici e con la tenacia e la resistenza dei camosci. Le bambine e le adolescenti, nelle terre estreme, e in tutto il mondo, si occupano della fatica dell’acqua. È in questi intrecci di mani che vanno verso altre mani, in questi scambi, nei gesti di offerta, di dono, di aiuto che ho visto, e sempre vedo, le donne tessere la sorellanza a trama fitta, donne che vivono in terre ai margini delle conoscenze della geografia, ai margini dell’interesse dell’umanità. Le loro esperienze condivise diventano un collante sorprendente, un’invisibile ragnatela che le unisce, che le fa sentire meno sole e più forti, che nutre la fiducia in se stesse e nelle altre donne, che alimenta la capacità e la possibilità di aiutarsi, di uscire dall’emarginazione cui vengono destinate dalla cultura, dall’educazione, dalla religione, dalla tradizione. E di generazione in generazione, le donne diventano riferimento per altre donne, per nuove forme di pensiero e di autonomia, sul come fare, sul cosa fare. In queste società le donne praticano sorellanza in ogni azione della loro quotidianità.
La sorellanza diventa così un patto sociale, una rivoluzione pacifica che sono le donne stesse a sostenere, ad alimentare, a diffondere. In queste terre le donne credono ancora nel «noi», vivono sulla forza dell’esserci, insieme, di sentirsi parte di un progetto comune. Una solidarietà che è scelta consapevole dell’unione tra nonne, madri, figlie, sorelle e amiche. E dal «noi» scaturisce un legame, un’energia che le fa essere e sentire entità strutturata, che scavalca le differenze, frantuma l’indifferenza, va oltre i privilegi e le gerarchie, oltre l’effetto demolitore della cultura patriarcale. Dall’alba al tramonto nell’isola di Socotra, patrimonio Unesco della Biosfera, occupata dagli eserciti degli Emirati Arabi come fosse la pedina di un grande gioco politico ed economico, nella depressione desertica della Dancalia etiopica, terra di resistenza del leggendario popolo Afar, nelle remote steppe della Mongolia Occidentale, che scompaiono nel ghiacciaio eterno di alte montagne di confine, in queste terre estreme che il vento isola dal resto del mondo, che il calore o il freddo rendono inaccessibili, le donne che ho incontrato e che mi hanno accolta sono le fondamenta della società.
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