Donne all’Opera
«La penisola italiana, in base al censimento all’indomani dell’unificazione nazionale (1861), è un Paese dove il 78 per cento della popolazione è ancora analfabeta e tra il restante 22 per cento una non piccola parte è in grado di scrivere solo la propria firma. In questo quadro sociale il romanzo e la poesia hanno inevitabilmente un ristretto numero di fruitori. Per questa ragione il melodramma ottocentesco, dalla generazione di Bellini e Donizetti, e ancor più nella seconda metà del secolo, con Verdi, è l’unico prodotto artistico nazionalpopolare che, con il proliferare dei teatri nei piccoli centri e il moltiplicarsi delle stagioni operistiche, raggiunge un pubblico sempre più vasto, divenendo, fino all’avvento del cinema sonoro, lo spettacolo più diffuso e più amato poiché il suo linguaggio è funzionale ai vari livelli di comprensione delle varie classi sociali. Antonio Gramsci, nei Quaderni dal carcere, osserva che […] “In Italia il melodramma ha sostituito nella cultura popolare quell’espressione che negli altri Paesi è data dal romanzo”». A scrivere queste parole è Antonio Schilirò, nel volume Il melodramma, le sue forme e la vita musicale italiana nell’Ottocento (Liberfaber, 2016). Una lettura che non fa che suffragare quello che i melomani sanno bene, e cioè che l’Opera lirica, al di là dello sfarzo delle scene e dei costumi, non è nata per i ricchi. Le persone umili, i poveri, all’Opera ci sono sempre andati, infatti, e non solo perché la musica è un linguaggio universale che sa arrivare a tutti, bensì perché nelle storie narrate si riconoscevano.
«Nei secoli – ha ricordato Michela Murgia, chiamata nel 2020 a commentare l’inaugurazione della stagione di quello che forse è il teatro d’Opera più famoso al mondo, la Scala di Milano –, i libretti d’Opera hanno raccontato molto più le avventure degli emarginati che dei potenti e gli autori hanno spesso preso le parti dei deboli, esponendo la prepotenza dei forti al giudizio sociale». Secondo la scrittrice, tre sarebbero le categorie che al melodramma devono molto: «la servitù, i poveri e le donne. Tutte persone a basso tasso di diritti in un mondo dove solo l’uomo ricco poteva dettar legge». E a conferma cita il Billy Budd di Benjamin Britten, che «quando va in scena, riapre il dibattito sociale sulla pena di morte nel Regno Unito». O la Bohéme di Giacomo Puccini, nella quale si affronta «il precariato degli artisti, che è ancora così attuale», oppure le opere di Mozart, nelle quali «i servi e i padroni mostrano l’inizio della crisi di una società che fino a quel momento si era retta solo sulla disuguaglianza dei diritti sociali». «Ma è alle donne e attraverso le donne che l’Opera trasmette il suo messaggio più rivoluzionario – insiste Murgia –. C’è una storia corale di riscatto femminile nella musica lirica che ancora dialoga col nostro presente, basta ascoltarla».
Vittime o protagoniste?
Messaggio rivoluzionario o meno, però, una cosa è certa: le protagoniste delle Opere («Opere buffe» a parte) fanno in genere una «brutta fine». Muoiono quasi tutte di stenti o vengono uccise, o si uccidono in nome di un qualche amore «tossico», come lo definiremmo oggi, e il più delle volte dopo essere state tradite, ingannate, umiliate. Insomma, pare proprio che su di loro gravi una sorte ineludibile, una condanna alla quale non possono sottrarsi. Qualche esempio? La quindicenne Cio-Cio San, protagonista della Madama Butterfly di Puccini, è la sposa bambina di un ufficiale della marina americana, che viene prima sedotta, poi abbandonata e infine si uccide dopo che l’uomo amato, che nel frattempo in patria ha sposato un’altra donna, torna da lei solo per sottrarle il figlio nato dal loro amore. Carmen, nell’omonima opera di Bizet, è una gitana bella e dannata, che ama la sua libertà e per questo viene uccisa da Don José, l’amante che non sa accettare il suo rifiuto.
Desdemona, personaggio femminile principale dell’Otello di Verdi, è strangolata dal marito geloso, istigato da un altro uomo segretamente innamorato di lei. Tosca, eroina pucciniana, è costretta a subire le molestie del potente Scarpia e, nonostante cerchi di ribellarsi uccidendolo, alla fine si ammazzerà. Lucia di Lammermoor, di Donizetti, è spinta con l’inganno dal fratello a tradire l’uomo di cui è innamorata e, quando scoprirà la verità, impazzirà di dolore. Anche Gilda, figlia del buffone di corte Rigoletto, dopo aver trascorso la vita reclusa a causa della possessività del viscido padre, sceglie di morire per difendere l’amato che pure l'aveva solo usata. E infine Violetta, la protagonista della Traviata, emblema delle donne di ogni tempo condannate dalla società perché libere, che muore di stenti dopo aver dovuto rinunciare all’amato Alfredo per lo stigma sociale che grava su di lei.
E allora? Come stanno davvero le cose: donne vittime o donne portatrici di un messaggio rivoluzionario? Lo chiediamo a Fortunato Ortombina, musicologo e sovrintendente del Teatro La Fenice di Venezia. «Le donne, nel melodramma dell’Ottocento, sono sempre vittime, è vero – risponde –. Ma se andiamo un po’ più in profondità, comprendiamo che libretti e musiche non avevano mai, in realtà, l’obiettivo di dipingere le donne come perdenti o di celebrare la superiorità maschile, anzi. Ogni Opera contiene un grave atto d'accusa proprio verso gli uomini, tratteggiati come personaggi infimi, piccini. Al contrario, la grandezza e la profondità delle donne, delle loro vite, della loro essenza, della loro personalità, del loro spirito, della loro umanità sono descritte come immense, nettamente superiori a quelle di ogni personaggio maschile. Non c’è compositore che non abbia posto estrema attenzione e cura nel restituire la superiorità dell’universo femminile. E questo è vero per le Opere tragiche, ma anche per le commedie. Un esempio su tutti: l’Aria di Rosina ne Il Barbiere di Siviglia mostra l’intelligenza della donna, grazie alla quale lei avrà la meglio su tutti».
«Ricordiamoci che l’Opera – conclude Ortombina – non è un servizio di cronaca trasferito su un palcoscenico. Come avviene un po’ per tutto il teatro, è finzione, per quanto ispirata al reale, che ha lo scopo di spingere lo spettatore a guardarsi dentro, portandolo a immedesimarsi nei personaggi sulla scena, a sentire ciò che essi sentono. Al contempo, però, gli dona anche uno sguardo distaccato, capace di guardare in modo critico alle dinamiche sociali rappresentate e che per molti versi non sono così dissimili da quelle attuali. Attenzione, quindi, a condannare l’Opera o a leggerla solo come luogo di donne-vittime. Essa in realtà ci viene a dire: “Stai attento, tu che guardi. Fai attenzione alla tua vita, alle tue scelte, al tuo futuro. Cerca di vivere bene e di non compiere gli stessi errori dei personaggi sul palcoscenico. L’intento ultimo del melodramma, infatti, è sempre e solo quello di educare». Il dubbio sulle donne (troppo) vittime mi rimane, lo confesso. Ma a questo punto anche una certezza: andare all’Opera ci rende senz’altro uomini, donne, cittadini migliori.
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