Tutte le nostre grate
«Tanto lo so a cosa state pensando. Dai, non fate finta di niente. Alla grata. Voi mi guardate e non mi vedete, mi sentite parlare e non mi ascoltate. Voi pensate alla grata. “Ma come fa a vivere così?”, “poveretta”, “nel ventunesimo secolo”, “roba medievale”. No? Dite che non è vero? Che non è così? Non fate i furbi con me, li riconosco quegli sguardi. Sapete quanti vengono qui da noi, magari per un gruppo di preghiera, per una festività... vengono, stanno un’ora, due ore, e come passiamo il tempo? A parlare della grata. Sembra non ci sia altro». A pronunciare queste parole è suor Maria Chiara (l’attrice Chiara Stoppa) nelle primissime battute del monologo teatrale di Gianni Biondillo, Grate, per la regia di Francesco Frongia. Una produzione Teatro Atir Ringhiera di Milano, un teatro speciale, nato nel 1996 da sette giovani, con l’obiettivo di diffondere un nuovo modo di fare teatro nella società, con particolare attenzione alle scuole e a luoghi socialmente svantaggiati.
La pièce, che ha debuttato lo scorso luglio all’Olinda – l’associazione sorta con l’obiettivo di trasformare l’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini in un luogo di cultura e di vita partecipata – è in programma dal 30 novembre al 5 dicembre al Teatro dell’Elfo Puccini, altra realtà dove il teatro è anche, e forse prima di tutto, luogo di impegno civile. Tutto ciò già ci dice la cifra di questo originalissimo testo teatrale: siamo dinanzi a un monologo magistralmente recitato da Chiara Stoppa, che veste i panni di tre immaginarie clarisse del monastero di Santa Chiara, a Gorla – quartiere a nord di Milano –, diverse per età, estrazione sociale, storia e formazione. Unica altra presenza in scena, la tecnica del suono, Roberta Faiolo, che Chiara Stoppa coinvolge a tratti nel suo racconto.
Personaggio principale della pièce è suor Maria Chiara, una donna quasi quarantenne che, oltre a narrare la vicenda della sua vocazione, racconta al pubblico la dimensione del monastero e di un monastero inserito nel cuore di una città come Milano. Spiega, in modo ironico ma profondo, la vita delle monache, il loro essere nel mondo ma non del mondo. Non nasconde la difficoltà di vivere le relazioni fraterne. Mostra senza ritrosie il suo sguardo profondo sulla città, «respirata» al di là del muro come presenza viva. Ad affiancare Maria Chiara, suor Maria Ide – abbreviazione di Ideale – sessantenne cresciuta negli anni di piombo, figlia di un indomito socialista ateo che le ha instillato i valori della solidarietà e della giustizia sociale. E suor Chiara Daniela, novantenne, tra le fondatrici del monastero e testimone oculare della tragedia avvenuta accanto a esso e che Biondillo, col suo testo, vuole restituire alla memoria collettiva.
«Io amo scrivere di Milano, della Milano nascosta, di quella che va oltre l’immagine conosciuta da tutti: la metropoli veloce, attiva, produttiva – confida l’autore, architetto, scrittore e saggista da sempre attento al tema delle periferie geografiche ed esistenziali –. Preferisco raccontare la città che nemmeno i milanesi conoscono o ricordano. In quest’opera parlo di due ferite che ne hanno squassato le fondamenta: la guerra, e in particolare la vicenda dei “piccoli martiri”, e la strage di piazza Fontana con tutto quanto ne è seguito. Della prima ormai nessuno parla più, eppure è stata la tragedia più grande di tutta la seconda guerra mondiale».
Il monastero di Gorla si trova, infatti, accanto a uno dei luoghi più emblematici dell’orrore bellico: qui sorgeva, fino al 20 ottobre 1944, una scuola elementare che venne bombardata dagli alleati per il solo banale motivo (chissà perché il male è sempre ammantato di banalità...) di alleggerire uno stormo di aerei – di ritorno da una missione non andata «a buon fine» – dal peso delle bombe: 170, sganciate sui popolosi quartieri di Gorla e Precotto. Una tragedia. Solo nella scuola di Gorla morirono 184 bambini (i «piccoli martiri» di cui parla Biondillo) insieme con le loro maestre e i bidelli.
Il mondo dopo il covid
L’idea dello spettacolo è nata prima del covid. «Dopo l’esperienza de Il ritratto della salute, che ho portato in scena in molti teatri di tutta Italia (e che è diventato anche un libro per Mondadori, ndr), volevo recitare un testo dedicato alla città che mi ha accolto, quasi come forma di riconoscenza nei suoi confronti – sottolinea Chiara Stoppa, attrice milanese d’adozione ma friulana di origine –. E ho chiesto a Gianni Biondillo, di cui apprezzo lo sguardo originale nel raccontare questa metropoli, di scriverlo per me. In realtà io pensavo ai suoi romanzi gialli, di cui sono un’appassionata lettrice, ma Gianni mi ha stupito con un testo diverso, che dice Milano attraverso gli occhi di chi la guarda solo da un piccolo pertugio, come le suore di clausura. Ed è stato sorprendente per me scoprire come in realtà queste donne vedano la città in un modo spesso più nitido degli stessi abitanti che in essa ogni giorno si muovono. Dal loro monastero ne colgono il clima, le tensioni, i silenzi, i rumori che la animano. Ne avvertono i minimi sussulti».
«Quando ho cominciato a scrivere – riprende Biondillo –, non avevo in mente di parlare di clausura. Non c’era ancora stata la pandemia, il mondo era un altro mondo. Ma poi con il lockdown tutto è cambiato. Sono stati giorni difficili per me: non sono riuscito a scrivere né a leggere nemmeno una riga, ero completamente avviluppato nel dramma in cui eravamo stati catapultati. Poi, al termine di questa strana clausura a cui tutti siamo stati forzatamente sottoposti, mi è venuto naturale domandarmi come avevano vissuto quei giorni le persone che in clausura ci vivono sempre: le monache. Sono così andato a trovare le clarisse del monastero di Gorla per chiederlo direttamente a loro. Le suore mi hanno accolto, ascoltato. Pur non avendo idea di poter diventare inconsapevolmente, e forse anche loro malgrado, protagoniste immaginarie di uno spettacolo teatrale, mi hanno metaforicamente spalancato con generosità le porte della vita in monastero. E mi si è davvero aperto un mondo».
Nasce così questo monologo sorprendente, che tocca tutte le corde dell’umano: dal dolore all’ironia, dal timore alla curiosità, dalla ricerca di senso alla fede, dalla bellezza all’orrore. Che sa parlare di morte ma anche di difficoltà relazionali. Che indaga la vita in tutte le sue forme, senza sottrarsi a domande scomode. Che rovescia pregiudizi e aiuta a cogliere il significato delle piccole cose, di quella quotidianità che scorre in parallelo ai grandi eventi e che rappresenta, forse, il senso più vero di ogni esistenza umana.
Lo spettacolo è diretto con garbo e sensibilità da Francesco Frongia. «Mi piace descrivermi come un uomo libero da pregiudizi – racconta il regista, non nuovo a portare in scena con delicata maestria testi drammatici, crudi, su temi di scottante attualità –. In realtà questo monologo mi ha mostrato che ne ho tantissimi anch’io, come chiunque. Prima di Grate, per esempio, avevo delle monache un’immagine stereotipata, lontana dalla complessità di questo mondo. Gianni ci ha regalato una storia meravigliosa. Un mondo affascinante e sconosciuto abitato da persone che vivono liberamente la propria clausura. Un mondo interiore dove le regole sono diverse dalle nostre e da cui possiamo imparare qualcosa sulla vita, sulla morte, e su una città, Milano, capace di accogliere e di imparare dalla storia. Il viaggio verso questo nuovo spettacolo sarà più interiore, verso l’anima più profonda di noi e del nostro modo di essere».
«La pandemia – conclude Biondillo –, insieme al dolore ci ha insegnato tante cose, pure a fare il nostro mestiere con un impegno ancora maggiore. Ma ci ha mostrato anche che per la nostra classe politica la cultura, il teatro, sono periferici. Attenzione però: da una vita io mi occupo di periferie e so bene che è proprio dalle periferie che si cominciano a erodere gli imperi...».
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!