Taita Proaño

A dieci anni dalla morte, monsignor Leonidas Proaño è un punto di riferimento per gli indios delle Americhe, oppressi da cinquecento anni di sudditanza al bianco. Una vita in salita spesa a favore degli ultimi
10 Luglio 1998 | di
   
   
'Amo ciò che di indio ho in me', soleva dire monsignor Leonidas Eduardo Proaà±o Villalba, riassumendo in una semplice frase la missione di una vita. Schivo, silenzioso fino a imbarazzare l'interlocutore, dotato di un candore disarmante, cultore della verità        senza compromessi, Proaà±o aveva un solo sogno: 'Voglio diventare parroco degli indios'.Un sogno che a dieci anni esatti dalla sua morte, avvenuta il 31 agosto 1988, è valso e tuttora vale una rivoluzione nonviolenta nella vita religiosa, culturale e democratica dell'Ecuador e dell'America Latina.     

Nato il 29 gennaio 1910 a San Antonio de Ibarra nel Nord dell'Ecuador, di estrazione poverissima, suo padre era cappellaio e contadino, aveva conosciuto la fatica del lavoro manuale e la fame, ma anche la solidarietà  dei poveri e il rispetto per gli indios, la parte più disprezzata della popolazione. Studiò in seminario da esterno più per le pressioni del suo parroco che per un interesse verso la vita religiosa. Anzi, trovava la chiesa contemporanea chiusa, conservatrice, moralista, paternalista e attaccata al potere.

Di fatti la chiesa aveva un pesante retaggio storico. Dalla conquista del 1492 in poi, essa fu il pilastro della dominazione spagnola sulle popolazioni indigene. Anche dopo l'indipendenza, nel 1830, la costituzione repubblicana - ricorda Giovanni Ferrò nel suo libro Taita Proaà±o (Ed. Gruppo Abele, lire 22.000) - nominò i parroci 'tutori e padri naturali dell''innocente, abietta e miserevole razza indigena'. La chiesa possedeva grandi latifondi e al pari degli altri proprietari si serviva dell'huasipungo, un istituto feudale che trattava i braccianti indios al pari dei servi della gleba: lavoro in cambio dell'usufrutto di un piccolo appezzamento della terra peggiore. Bisognerà  aspettare addirittura gli anni Sessanta perché le cose migliorino. Tanti secoli di sottomissione al bianco avevano annichilito la millenaria cultura india, tanto che gli indios, quando dovevano avvicinarsi a salutare un bianco, si coprivano la mano col poncho per non contagiarlo con la propria miseria.  Alla fine degli studi secondari Proaà±o cadde in una profonda crisi, sarebbe diventato un pastore di questa chiesa? Un tormento che lo afflisse per mesi finché trovò il bandolo della matassa: 'Io vorrei dare all'indio coscienza della sua personalità  umana, terre, libertà , cultura, religione'. Lo aspettavano incomprensioni e solitudine.     

All'inizio Leonidas non si distinse di molto dai preti tradizionali, ma già  a pochi mesi dall'ordinazione si avvertì una traccia del suo stile diverso. Una grande hacienda si era impossessata di terreni comunali e i contadini poveri vivevano nel disagio di non poter coltivare la terra per la loro sussistenza. Chiesero a Proaà±o se era lecito, secondo la dottrina della chiesa, espropriare parte di questo latifondo. Leonidas si prese otto giorni di tempo e consultò l'unico documento che poteva aiutarlo nella risposta: la Rerum novarum di Leone XIII. E rispose che, sì, era lecito. Fu il primo di una lunga serie di scandali. La fama di Proaà±o si diffuse nel paese. Ciò non gli impedì una genuina sorpresa quando il 18 marzo 1954 fu nominato vescovo della diocesi di Riobamba.

La svolta del concilio Vaticano II diede a Proaà±o gli strumenti per portare a compimento la sua missione: una chiesa che si faceva serva, che era l'immagine di un popolo in cammino, che aveva rinunciato ai poteri e ai privilegi, che aveva scelto i poveri... finalmente questa era la sua chiesa.     

Il nuovo vescovo dimostrò presto uno stile poco episcopale, tra lo sconcerto della gente-bene della diocesi: indossava il poncho, nel suo ufficio riceveva tutti, dai ricchi padroni ai cenciosi indios, rispettando scrupolosamente il turno, si era perfino rifiutato di costruire una cattedrale sontuosa. Aveva una sconveniente vicinanza con gli indios tanto che questi lo chiamavano 'Taita Proaà±o', papà  Proaà±o, insomma non era il solito vescovo. Aveva, inoltre, promosso 'pericolose iniziative': radio Erpe (Escuelas radiofonicas populare de Ecuador) trasmetteva corsi di alfabetizzazione in spagnolo e in quichua, ma dava anche consigli pratici per migliorare i raccolti e la salute. Proaà±o si ritagliava uno spazio settimanale per il programma 'Hoy y maà±ana' nel quale annunciava il vangelo alla luce della lettura conciliare.

L'altra grande svolta fu la riforma agraria che il vescovo promosse a Riobamba: regalò 370 ettari di terra della diocesi per una cooperativa di famiglie indigene e per un centro di formazione per leader di comunità  indigene. Una volta libero da ogni possesso, 'con il volto pulito', come diceva lui, poteva dedicarsi agli indios e alla loro lotta per il diritto alla terra.     

La cosa gli procurò problemi con i governi di destra, appoggiati dagli americani, che lo consideravano un 'prete rosso', propagandista del marxismo in terra ecuadoriana. Insomma, un nemico della patria. Nel 1966, con una lettera aperta al clero di Riobamba,  ribattezzata 'Lettera rossa', Proaà±o diede le sue direttive: 'Finora i metodi di lavoro sono stati: chiamare e aspettare che la gente arrivi; minacciare coloro che non vengono e insistere su una pastorale del mero assolvimento del precetto domenicale, del precetto pasquale, del prendere i sacramenti; favorire una sorta di speranza da lotteria, inculcando l'azzardato desiderio di ottenere una buona morte, al posto della ferma volontà  di conquistare ogni giorno una buona vita. D'ora in avanti, senza smettere di chiamare, dobbiamo uscire e andare a incontrare gli uomini là  dove essi vivono'.

L'esperienza di Riobamba fu fonte di ispirazione per molti teologi e pastori latinoamericani, ma non fu indolore. Gran parte del clero e dei vescovi vi si opposero duramente. L'incomprensione della chiesa ufficiale, più che la persecuzione dei governi, fu la spina nel cuore di monsignor Proaà±o. Alcune ferite furono davvero grandi. Nel 1973 la Santa Sede ordinò una visita apostolica nella diocesi, cosa che equivaleva a una inchiesta giudiziaria. La cosa finì in una bolla di sapone: tutto rimase come prima. Evidentemente il verdetto era stato favorevole al vescovo di Riobamba, ma ufficialmente non trapelò nulla, con grande dolore di Proaà±o che più volte invocò di fare chiarezza.     

Ma forse l'ingiuria più grande gli fu fatta quando il  12 agosto 1976 soldati armati irruppero nella sua residenza di Santa Cruz dove egli stava tenendo una riunione informale dei vescovi delle Americhe per riflettere insieme su questioni pastorali. Fu accusato di tramare contro la patria. All'interrogatorio di Proaà±o era presente il legato     pontificio.

A partire dal 1980 fino alla sua morte Proaà±o concentrò i suoi sforzi per creare una chiesa dal volto indio; l'evangelizzazione non era riuscita in cinquecento anni a penetrare  l'anima indigena non solo perché la chiesa aveva sostenuto i conquistadores, ma perché non era nata una chiesa con una teologia e liturgia 'arricchite dalla concezione indigena di Dio, dell'uomo e del mondo'.     

Nella cultura quichua quelli che muoiono non finiscono, ma sono à±aupac, 'quelli che vanno avanti', segnando il solco che gli altri dovranno percorrere e arricchire. Quando si avvicinò la sua ora, monsignor Proaà±o si apprestò ad essere un à±aupac staccandosi con calma e lentezza dalla vita, come una foglia si stacca da un ramo. Ma anche questo non gli fu facile: le continue manifestazioni di affetto e di dolore dei suoi amici e dei suoi indios resero il suo passaggio più doloroso del cancro che gli stava consumando le viscere. Quando ormai il torpore che precede la morte lo aveva imprigionato, Proaà±o ebbe un ultimo momento di lucidità . Disse a Nidia, una sua collaboratrice che lo stava       assistendo: 'Mi assale un pensiero: che la chiesa è la grande responsabile dell'oppressione che da secoli grava sugli indios, che dolore! E io sto portando il peso di questi secoli'.

Monsignor Proaà±o riposa a Pucahuaico, un luogo immerso nella natura, vicino ai suoi indios e dove egli aveva fondato, solo qualche mese prima della morte, un centro di formazione per missionarie indigene. Oggi il popolo indio ha la sua dignità  e il suo peso politico. L'intensità  dell'esperienza pastorale di Proaà±o è una pietra miliare nella vita della chiesa. La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d'angolo (cf. 1Pt 2,6-8).l

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017